testata registrata presso Tribunale di Napoli n.70 del 05-11-2013 /
direttore resp. Pietro Rinaldi /
direttore edit. Roberto Landolfi

Violenza e soldi, non sempre il benessere salva. Labodif: «Il primo passo è chiedersi: cosa non voglio?»

di Valentina Santarpia
tratto dal Corriere della Sera, 20.11.2024

Quelle che vivono in una casa di 300 metri quadri ma non hanno nemmeno un piccolo spazio tutto per sé. Quelle che guadagnano di più e, per impedire che il marito si senta sminuito, versano l’intero stipendio sul suo conto. Quelle che tirano discretamente la carta di credito dal portafogli e la passano al compagno per permettergli di pagare al ristorante o in hotel. «Sono tante le storie di donne, benestanti, che arrivano da noi per fare un percorso di consapevolezza e trovare il coraggio di lasciare relazioni violente»: lo raccontano le fondatrici di Labodif, laboratorio e istituto di ricerca sulle differenze di genere attivo da più di venti anni, che testimonia quanto l’indipendenza economica sia solo un aspetto del problema. Uno studio ONU (United Nations Population Fund, UNFPA, 2020) ha dimostrato che le donne che possiedono una sicurezza finanziaria e una rete di supporto sono significativamente più capaci di lasciare relazioni violente.
Questo studio ha sottolineato come la dipendenza economica sia uno dei fattori principali che costringe le donne a rimanere in relazioni pericolose. L’indipendenza economica può dunque essere uno dei fattori di protezione, ma deve essere accompagnata da un impegno strutturale più ampio che includa riforme educative, cambiamenti culturali e supporti psicologici e sociali.
Perché donne anche economicamente abbienti non riescono spesso a uscire da situazioni tossiche o
abusanti? «Perché manca loro una sorta di autorizzazione interna – spiega Gianna Mazzini, documentarista, una delle fondatrici di Labodif – Noi donne siamo spesso sotto lo scacco dei valori maschili, la misura delle cose è il maschile, e quindi se manca lo sguardo maschile, non si riesce ad andare avanti. Persino la rottura del matrimonio, nonostante ci sia una stragrande maggioranza di donne separate, a volte è ancora un tabù:c’è ancora lo stigma, la vergogna di ammettere che un matrimonio è finito, perché la misura di sé è data dall’adesione a un modello di famiglia felice». Nonostante tutti i progressi compiuti a livello legislativo e sociale, resta «molto forte la tendenza a coprire il marito, l’imbarazzo di essere più del maschio», sottolinea Giovanna Galletti – economista, l’altra fondatrice – «La donna stessa ha un uomo interno, che dice che non è corretto se è di più, c’è qualcosa che le dice che non è esattamente così che dovrebbe essere, e che sminuire un uomo dal punto di vista della capacità economica non è accettata. Come racconta Linda Babcock nel suo
“Le donne non chiedono. Perché le donne contrattano meno degli uomini negli affari, nella professione, nella vita privata”, a volte si tratta di atteggiamenti inconsci.
La scrittrice riferisce che spesso era suo marito a pagare e un giorno la sua bambina le chiese: «Mamma, ma le ragazze possono avere i soldi?». Quando Babcock si rese conto del danno che le stava arrecando, iniziò a cambiare atteggiamento». Ovviamente una donna senza mezzi è in maggiore difficoltà se vuole staccarsi dalle relazioni tossiche, specie se non una rete di supporto, ma i mezzi e la rete non sono sufficienti, «perché conosciamo troppi casi di donne con grandi
patrimoni che non si definiscono libere», incalza Mazzini.
 
Ma allora, che cos’è la libertà? «Finché la misura resta quella maschile, ho un’idea “importata” di cos’è il denaro, l’armonia, la famiglia, e quindi sono ricattabile da quest’idea», spiega ancora Mazzini. Non a caso quando la saggista Carla Lonzi disse negli anni ’70 che l’indipendenza simbolica era più importante di quella economica, venne fortemente criticata. Eppure è spesso proprio «attraverso l’indipendenza simbolica che puoi raggiungere una autentica indipendenza economica, ed è fondamentale, in questo contesto, avere figure di donne che ti autorizzino, che ti ispirino, quelle che noi chiamiamo “madri simboliche”». Per questo è così importante il valore della rappresentazione: ogni film, ogni storia, dove si racconta che una donna è riuscita a liberarsi da qualcosa che le faceva male è un’autorizzazione per altre a fare lo stesso. Ma allo stato attuale
«manca ancora la consapevolezza che esiste un ordine simbolico femminile, che esiste una lingua nostra», spiega Giovanna Galletti.
L’ordine simbolico sono le regole non dette che orientano ogni nostro pensiero, parola o azione, una sorta di schema che ci dice cosa è giusto e cosa è sbagliato, un codice binario di si/no. Ed è costruito su valori maschili. Adeguarsi costantemente a questo schema è per noi uno spreco di energie enormi. È come «se le donne giocassero sempre in trasferta, viviamo nel mondo degli uomini come fossimo ospiti, e l’ospite chiede permesso». Allora come si esce da una relazione pericolosa?
 
Allora come si esce da una relazione pericolosa? «Si dice sempre “al primo schiaffo vattene”, ma non ha mai funzionato, perché per quella donna lo schiaffo è anche suo, noi abbiamo un io poroso, dischiuso, è come se fossimo corresponsabili di quella cosa che ci riguarda», spiega Mazzini. «Se non sei radicata nel tuo ordine, è come se mendicassi la salvezza dall’altro. Gran parte del successo del film C’è ancora domani sta proprio nel fatto che nomina un “mancante”: lo spettatore fino all’ultimo pensa che lei scapperà dall’uomo cattivo all’uomo buono. Che è l’unica possibilità. E che sorpresa quando capiamo invece che Delia (la protagonista del film, ndr) compie un’operazione assai più potente. Una riappropriazione di sé attraverso il gesto simbolico del voto. Quando una donna comincia a prendere coscienza del suo potere, della possibilità di avere un punto di vista sulle cose e che quel punto di vista conta nel mondo, allora matura una capacità di accorgersi di ciò che le fa male, e di prenderne le distanze».
 
Qual è il primo passo? «Farsi sempre questa domanda: questa cosa mi corrisponde? Dove sono io rispetto a quello che sto vivendo? Il disagio è il primo grado del desiderio, una donna scopre cosa desidera, sapendo cosa non desidera. Sapere cosa non voglio è già desiderare. Può sembrare una risposta provvisoria, in attesa di qualcosa di più definito. Invece dire cosa non voglio è già la risposta. Non questo. Non così. Non oltre. Nei nostri laboratori lavoriamo tantissimo con il “non”. Il “non” è un metodo, indica una direzione. Quando arriva questo momento, il momento del “non più così”, è un segno importante, è un segno che quella persona ce la farà». Ma le donne come fanno a cambiare, a capirlo? «Noi spesso cambiamo per stanchezza, non per volontà – conclude Gianna Mazzini. Le donne di Carrara, il 7 luglio del ’44, si rivoltarono contro i nazisti che avevano occupato la città. Si radunarono, nella piazza del mercato, Piazza delle Erbe, e quando le camionette
arrivarono, loro cominciarono a tirare patate e pomodori. A mani nude. Senza paura. E i tedeschi,
inaspettatamente arretrarono. Quando chiesi, qualche anno fa a una delle sopravvissute: “Ma come avete fatto? Come avete avuto il coraggio?”, lei sorrise in un modo che non dimentico. A quel punto intervenne il marito, capo partigiano, che era lì con noi, che rispose semplicemente: “Erano stanche. Quando una donna è stanca può fare di tutto”».

L’infanzia e la guerra

Di Erri De Luca
Tratto da “Avvenire” - sabato 31 agosto 2024

Si dice che le bambine giocano a far le madri e i bambini ai soldati. Li vedo invece giocare intensamente e seriamente alla vita, come i cuccioli che in ogni loro mossa si addestrano e si allenano. Le guerre li sballottano da un posto all’altro, senza giocattoli nel bagaglio profughi. Mentre gli adulti crollano in un pianto loro guardano intorno rasoterra per vedere se arrivano altri bambini o un cane oppure un uccello. Di colpo si addormentano nel loro sonno a forma di fortezza. Certo, nell’immediato piangono di paura per le esplosioni e per contagio della paura espressa dagli adulti, responsabili della loro protezione. Nel ghetto di Varsavia i bambini procuravano cibo ai genitori infilandosi nei cunicoli che portavano all’esterno, dove per contrabbando e per elemosina rimediavano qualcosa da portare a casa. Rischiavano la morte in uscita e in entrata. E quando s’incamminarono dall’orfanotrofio verso i vagoni destinati a Treblinka, sfilarono in silenzio, in fila per cinque, tenendosi per mano. Quando fanno il gioco della guerra muoiono cento volte. Possono spiegare loro ai grandi che cos’è questa baldoria infame, detta sommariamente guerra.
Leggo nel Talmud che è il frutto a proteggere l’albero.