Due articoli tratti da “Lucy
sulla Cultura”. Il primo sul linguista Luca Serianni, del quale abbiamo già
pubblicato su questo periodico. Il secondo su Baudelaire, il poeta che cadde
sulla Terra.
Buona lettura.
(NdR)
di Francesca Serafini
tratto da Lucy sulla Cultura del 10 Marzo 2025
Curioso e
disponibile con gli studenti, sensibile nell'incoraggiare, senza indirizzarle,
le inclinazioni dei suoi allievi, chiaro e rigoroso nell'esporre argomenti
complessi: la lezione di Luca Serianni sarà sempre una guida per i futuri
insegnanti.
Dante non ha
resistito da solo nella selva oscura per più di venti terzine. Già alla
ventunesima, potendo determinare il suo inferno – inventandolo per tutti noi,
per sempre – ha fatto comparire Virgilio. Io, abbandonata al caso, ho dovuto
avere più pazienza, ma nell’attesa, se non altro, rispetto a lui ho potuto
contare su temperature più miti. Quelle che nell’autunno del 1990 mi vedevano
matricola nella facoltà di Lettere e Filosofia (come si chiamava allora) della
«Sapienza» di Roma, spaventata e confusa da un centinaio di insegnamenti tra i
quali scegliere, senza nessuno che mi indicasse da quali fosse meglio partire:
quali, in funzione propedeutica, potessero facilitare il percorso che mi
apprestavo a intraprendere. In un piano di studi nella mia testa ancora molto
nebuloso, l’istinto di sopravvivenza mi portò a cominciare dalle materie che
erano più vicine alle mie letture e alle mie passioni (letteratura italiana,
storia della letteratura contemporanea, letterature comparate, ecc.). E però,
dopo poco più di un mese, mi sembrava di vagare spersa tra lezioni, sia pure
interessanti, che non riuscivano a trasmettermi un metodo: proprio quello, si
dà il caso, di cui sentivo di avere bisogno. Finché, sentii parlare di Luca
Serianni.
C’era, nel modo
in cui lo nominavano gli studenti che avevano già cominciato a seguire il suo
corso, una sorta di adorazione, come se questo professore di storia della
lingua italiana avesse delle doti sciamaniche in grado di iniziare i propri
allievi a un qualche segreto culto della parola. Così, attratta da questo
fascino incantatorio diffratto, a un certo punto andai a seguire una lezione
anche solo per la curiosità di conoscere quest’uomo capace di suscitare così
tanta ammirazione.
E lì – prima di
ogni altra cosa – mi sono trovata di fronte al suo italiano stellante (per
usare un aggettivo del suo Carducci): elegantissimo e
stratificato, pieno di luci e di sfumature. Tutte caratteristiche che
naturalmente riguardavano – riguardano! – anche la sua lingua scritta, come poi
avrei scoperto (dove tuttavia, per sua natura, c’è l’agio di un tempo di
controllo e di riformulazione; una possibilità di rilettura che ha concesso
anche ad altri di raggiungere quel livello di bellezza, se posso
usare una categoria estranea al suo stesso metodo: e sfido però chiunque
abbia letto almeno una sua pagina di prosa a contestarne qui la validità); ma
che nell’orale – dove il suo dominio della lingua era pressoché identico, tanto
da annientare qualunque scarto diamesico che lui stesso ci
avrebbe poi insegnato a riconoscere – in lui come in nessun altro aumentavano
di intensità grazie alla musicalità della sua prosodia, le sue capacità
retoriche: l’ironia, anche solo nella sospensione di alcune pause mirate (e
quell’ironia – come dice Natalia Ginzburg di Cesare Pavese – «è la cosa di lui
che più ricordo e piango»); tutte virtù che ora sopravvivono soltanto nei
ricordi privati e in un certo numero di interventi a convegni o lezioni
registrate, come quella con cui si congedò dalla «Sapienza» il 14 giugno del 2017.
Per me, in quel nostro primo incontro, si trattò, come si buon ben immaginare, di una folgorazione: estetica – proprio per la qualità mirabolante della sua lingua – ancora prima che pedagogica. D’altra parte, da questo punto di vista, in quell’occasione riuscii a trarre ben pochi insegnamenti, dal momento che nella sua analisi del terzo canto dell’Inferno (una storia, si potrebbe dire, cominciata con Dante), Serianni fece continuamente ricorso a termini del lessico specialistico della linguistica che, si capiva, aveva già introdotto nelle lezioni precedenti e la cui conoscenza quindi poteva dare per scontata. Così, vincendo ogni resistenza a espormi con lui con la mia pronuncia romana (quanto coraggio ci voleva a presentarsi al suo cospetto con tutti i miei difetti di dizione, prima di scoprire che in lui suscitavano tutt’al più curiosità per la storia che intanto gli raccontavano?), alla fine della lezione lo avvicinai per chiedergli su quale dei libri in programma avrei potuto recuperare nozioni come affricata alveolare o sibilante, che avevo diligentemente appuntato sul mio quaderno ma di cui ignoravo il significato. Naturalmente mi diede subito le indicazioni bibliografiche che mi servivano, ma poi fece di più. Si offrì di tenere qualche lezione supplementare per permettermi di recuperare il tempo perduto: a me e ad altri che avevano avuto la stessa folgorazione tardiva. Qualcosa di inimmaginabile al confronto con i comportamenti di altri suoi colleghi che spesso non si presentavano neanche alle lezioni regolarmente calendarizzate; e che immediatamente mi chiarì il senso di tutto il trasporto che avevo avvertito in chiunque mi avesse parlato prima di lui: e che mi fece aderire senza esitazione a quello stesso culto (che poi due anni dopo avrebbe sancito la nascita dell’Accademia degli Scrausi: un gruppo di giovanissimi invasati della lingua che – tra le altre cose – ogni tanto alle feste si divertivano a rivisitare il gioco dei mimi rappresentando, in sostituzione dei titoli dei film, fenomeni linguistici come l’epentesi o l’anafonesi).
Luca Serianni
c’era sempre per i suoi studenti. Negli orari delle lezioni e in quelli fissati
per il ricevimento; e poi anche via telefono di casa (prima che arrivassero
altri mezzi a rendere ancora più immediato il confronto su un dubbio da
sottoporgli). Sempre, tranne quando quel telefono lo staccava lui per seguire
senza interruzioni gli episodi dell’Ispettore Derrick. Una confidenza
che lo umanizzò nella nostra percezione adorante e che, prima che il suo metodo
ci fu del tutto chiaro, ce lo faceva immaginare soltanto alle prese con i testi
del Duecento o i libretti d’opera, altra sua grande passione. In realtà, per il
linguista, come poi ci avrebbe insegnato, tutto è testo, e non c’è differenza
in curiosità tra àmbiti diversi e non necessariamente letterari (è noto, per
esempio, il suo interesse per il linguaggio medico): tant’è che in un tempo in
cui studiare all’università i testi dei cantautori sembrava ancora un azzardo,
lui non fece alcuna resistenza ad accogliere i nostri interessi giovanilistici,
permettendoci, proprio attraverso quello studio, di arrivare alla nostra prima
pubblicazione (La lingua cantata, curata da lui, insieme a Gianni
Borgna, nel 1994: un libro che tra l’altro si chiudeva con una postfazione di
Fabrizio De André, che diede inizio a un’altra bellissima storia, continuata
con un film e un altro libro che sarebbero arrivati nel tempo anche grazie a
Dori Ghezzi).
Nella lezione di
congedo del 2017 (a cui peraltro andammo accompagnati proprio da Dori), a un
certo punto Serianni dice: «i maestri assolvono il loro compito se si limitano
a riconoscere i talenti e a valorizzarli, senza coartare in nessun senso le
rispettive inclinazioni di studio e di ricerca. Per quel che mi riguarda, ho
cercato, come ho potuto e saputo, di attenermi a questo principio. I miei
allievi hanno tutti un loro profilo specifico, all’interno di un sapere e di un
metodo condiviso».
Niente di più
vero nella mia esperienza. Ho avuto anch’io con Luca – come
era diventato per tutti noi Scrausi, da quando ci invitò a passare al
reciproco tu (anche se non poteva esistere un lei,
nel rispetto, più carico di senso di quello che in cuor nostro avremmo
continuato idealmente a riservagli) – un rapporto unico: unico,
appunto, per come diversificava il suo atteggiamento didattico in base alle
caratteristiche di ognuno di noi.
In me gli era
stata chiarissima da subito l’inclinazione creativa. Appresa, prima ancora che
dalla prassi scrittoria, dalle storie che improvvisavo occasionalmente quando
ci si ritrovava in situazioni conviviali: una su tutte, fargli credere, una
volta, che ero nipote di Ungaretti, salvo riderne insieme, immediatamente dopo,
per la gratuità insensata dell’invenzione, che lo lasciava sempre spiazzato e
però anche molto divertito. Attitudine che nel tempo ho trasformato in un
mestiere e che lui aveva intuito fin da quando mi presentavo al ricevimento per
patteggiare nel piano di studi un esame di filologia in meno per aggiungerne
uno, per esempio, di letteratura teatrale. E sempre ha accolto le mie
stravaganze, come quando provai a raccontare la punteggiatura attraverso i
personaggi della serie televisiva Scrubs, in un libro a cui nel
tempo regalò una bellissima prefazione.
Qualcuno, nei
giorni immediatamente successivi alla sua morte (come è crudele questa parola:
quanto, ancora, così inaccettabile), giocando con i suoni del suo nome, nei
pressi della «Sapienza» fece comparire il murale “Anni seri con Serianni”. Anni
seri, serissimi, eppure tanto divertenti ed entusiasmanti, come è sempre –
quando ci è concesso – il tempo dedicato ad apprendere gli strumenti necessari a
capire chi siamo e come fare a costruire per noi una storia che ci rappresenti.
In quegli anni lì, anche se ancora non lo sapevamo, con Giordano Meacci (altro
regalo di Serianni, visto che il sodalizio artistico che ci lega da allora
cominciò proprio seguendo le sue lezioni) imparavamo il metodo per evitare
anacronismi nella lingua di Cesare e Vittorio – i protagonisti del film di
Claudio Caligari Non essere cattivo, scritto nel 2013 ma ambientato
nel 1995 – provando a dare verità ai loro dialoghi (attraverso una ricerca
meticolosa del gergo della droga nella borgata romana di quegli anni); e poi a
quelli di tutti personaggi che abbiamo fatto parlare nel tempo, scrivendoli.
Quella
formazione, in qualche modo, ci ha permesso di essere quello che volevamo. Per
questo, su un altro piano, tenendo conto di tutto l’impegno che Serianni ha
profuso nel tempo per diffondere la conoscenza della lingua proprio come
strumento di autodeterminazione, di dignità e di libertà, mi chiedo che cosa
penserebbe oggi dei dati emersi nell’ultima pubblicazione OCSE che vede
l’Italia in una posizione di classifica preoccupante (se non direttamente
desolante). Con un italiano su tre risultato analfabeta funzionale, cioè non in
grado di leggere e comprendere un testo scritto, di fare calcoli e di risolvere
problemi.
Qui, sapendo
quanto questo tema gli stesse a cuore, sento la necessità di uno sforzo di
approfondimento. E nel tentativo di darmi una qualche risposta, ho bisogno di
spaziare, di spostarmi altrove, come lui mi ha visto fare tante volte, sempre
curioso di capire dove sarei andata a parare, anche quando nelle mie
digressioni pop chiamavo in causa fenomeni che gli erano del
tutto estranei (per esempio, proprio nella prefazione al mio saggio sulla
punteggiatura, a un certo punto scrive: “Quasi all’inizio del libro si paragona
l’apprendimento della lingua a un videogioco a più livelli, chiamando in
causa Urban chaos, un videogame del 1999, appartenente al genere
‘avventura dinamica’ (come apprendo da Wikipedia: i videogiochi sono tra le
tante cose di cui non so assolutamente nulla)”).
Così, coerente
con quella prassi, divago anche qui, con la promessa, prima di chiudere, di
tornare a lui e al flusso centrale del discorso (che resta, per quanto cerchi
di negarmelo, l’idea di fermare il ricordo di una persona che ho amato e che
non c’è più).
E dunque,
spaziando, parliamo di Steven Johnson. Sono passati vent’anni esatti da quando
lo studioso americano di neuroscienze dava alle stampe il saggio Tutto
quello che fa male ti fa bene (pubblicato l’anno dopo in Italia da
Mondadori e da allora mai più ristampato: e anche questo – chissà – è un segno
dei tempi che corrono) inebriandoci con una ventata di ottimismo nel suo modo
di considerare «la cultura popolare» (includendo nell’insieme varie forme di
narrazione: dalle serie televisive al reality show, ma anche – ecco che torna –
il videogioco) che Johnson riteneva essere diventata «sempre più sofisticata»,
pretendendo da parte del fruitore “un impegno cognitivo maggiore ogni anno”,
laddove molti commentatori suoi contemporanei vedevano invece ‘una corsa verso
il fondo e un ottundimento: una società sempre più infantilizzata’, per usare
le parole di George Will”.
Per arrivare
alla sua convinzione, Johnson si basava su un criterio che, proprio con
Serianni, potremmo definire “sanamente empirico”. E cioè, tramite un carotaggio
sistematico di un certo numero di prodotti televisivi e non,
confrontati con altri simili degli anni precedenti e analizzati con lo stesso
rigore con cui un linguista, appunto, può sottoporre a spoglio un
determinato corpus di testi. E, esattamente come il linguista,
svincolando la ricerca da un giudizio di valore estetico, interessato com’era
Johnson non tanto a stabilire se, per esempio, I Soprano fossero
più belli di Starsky e Hutch (questa, semmai,
è una libertà che mi prendo io, di là dal legame generazionale con un telefilm che
pure ho amato da bambina) ma ad analizzare la maggiore complessità narrativa
dei primi, con più strand alternati, rispetto alla semplicità
lineare dei secondi, i cui episodi non derogavano mai dallo schema fisso
crimine/indagine/arresto dei colpevoli (un po’ come Derrick, che
esce infatti negli stessi anni).
Il passaggio da
una linea narrativa a un’altra (per soffermarmi solo su uno degli aspetti presi
in considerazione da Johnson: finendo, mi rendo conto, per semplificare anche
il suo pensiero) in una serie come I Soprano comportava una
fruizione partecipe da parte dello spettatore, continuamente disorientato nel
racconto, mai preso per mano didascalicamente, ma sempre stimolato a completare
le informazioni che gli venivano passate in modo frammentario con un
coinvolgimento che chiamava in causa la sua intelligenza, a cui veniva
attribuita fiducia, in modo da arrivare a una doppia gratificazione nella
visione: quella determinata dalla storia in sé, al dunque ricomposta nel
processo di rielaborazione; e quella ancora più significativa derivante proprio
dall’aver contribuito attivamente a quel risultato.
Nel 2005
gli algoritmi di Netflix (quelli con cui se la prende anche
Nanni Moretti nel Sol dell’avvenire) e, a maggior ragione,
l’intelligenza artificiale erano di là da venire, e si assisteva a una
fioritura di narrazioni sempre più complesse e diversificate. Per un po’,
insomma, ci siamo divertiti e ci siamo sentiti tutti più intelligenti, perché
c’era qualcuno (gli autori? i produttori? i registi?) che scommettevano sulla
nostra capacità di comprensione (esattamente come Serianni su quella dei suoi
allievi) e, con la loro fiducia, ci permettevano di esercitarla, accrescendola
di fatto in ogni nuova fruizione.
È andata così,
se ci pensiamo, passando ora a un piano più prettamente linguistico, anche
quando la Rai ha cominciato le sue trasmissioni televisive. Naturalmente gli
autori, i conduttori, i primi giornalisti andati in onda, erano perfettamente
consapevoli che a quel tempo (parliamo degli inizi degli anni Cinquanta) gran
parte del nostro paese era ancora dialettofona. Nondimeno, i programmi erano
tutti in italiano – un italiano articolato e controllato nella dizione – e quei
programmi, anche grazie alla progressiva diffusione degli apparecchi televisivi
(o alle visioni collettive nelle abitazioni di chi se ne poteva permettere
uno), contribuirono sensibilmente nel tempo a diffondere quell’italiano anche
in fasce della popolazione che non avrebbero avuto altri mezzi per sviluppare
certe competenze linguistiche (come dimostrano alcuni studi fondamentali di
Tullio De Mauro). E questo anche perché nessuno si era sognato di non ritenere
in grado quei cittadini (cittadini, appunto: e non semplicemente pubblico)
di poterle acquisire.
È così che da
sempre ci siamo evoluti in ogni àmbito. Con qualcuno che si è assunto la
responsabilità di alzare l’asticella: nella speranza che molti, se non proprio
tutti, sarebbero stati in grado di compiere, anche solo per emulazione, quel
passo in più.
Tutto questo,
fino a un momento preciso che non sono in grado di individuare, anche se il
2005 dell’uscita del saggio di Johnson – e anche quello dei maggiori
riconoscimenti per la serie Lost che in fatto di strutture
narrative ha rappresentato una svolta significativa – può stabilire almeno in
questo contesto un simbolico terminus post quem. Dopo il quale, in
effetti, inizia quel processo di transizione individuato dallo psicologo
sociale Jonathan Haidt – in un ideale crossover tra il saggio
di Johnson e l’altrettanto illuminante La generazione ansiosa del
suo connazionale – che segna intorno alla metà degli anni Dieci del Duemila il
definitivo passaggio “da ‘un’infanzia fondata sul gioco’ a ‘un’infanzia fondata
sul telefono'”, con tutto quello che ha comportato questo cambiamento in
termini di capacità di concentrazione nell’apprendimento di qualunque tipo di
informazione.
Proprio tenendo
conto della frammentarietà della fruizione dei contenuti di qualsiasi tipo, e
però con l’obiettivo di incrementare i suoi numeri per via di una concorrenza
sempre più feroce, da lì il mercato ha ribaltato le premesse studiate da
Johnson, più o meno secondo questo criterio: se abbasso il livello di
complessità (di una struttura narrativa come della lingua in generale) permetto
l’accesso a un determinato prodotto a un pubblico tanto più ampio. Un pubblico
al quale, evidentemente, di fatto non veniva più riconosciuta intelligenza e
possibilità di evolverla.
Le conseguenze
di questo cambio di rotta si possono osservare a diversi livelli anche alle
nostre latitudini (dove per esempio a livello linguistico storie e reel nei
social hanno riproposto su larga scala e senza filtri la diffusione di dialetti
e parlate locali: e chissà se non sia anche per questo che perdiamo posti in
classifica nella comprensione dei testi scritti, che sono ovviamente in
italiano). Non solo riscontrando strutture narrative sempre più omologate nella
tv e nel cinema (con qualche eccezione d’autore, certo), ma anche un italiano
sempre più povero e semplificato nella sintassi e nel lessico, livellato da
interventi editoriali massicci nelle produzioni letterarie (ovviamente anche
qui, per fortuna, con meravigliose eccezioni). E, per riflesso, un pubblico –
questo il dato più inquietante – sempre più somigliante a quell’idea di lui che
editori e produttori avevano in mente quando incominciarono a presumere come
dovergli confezionare un’operina su misura, partendo dall’idea, come scrive
Johnson, che «le “masse” vogliono piaceri semplici e stupidi, e le grandi
aziende dei media vogliono dare alle masse ciò che queste richiedono».
Viene in mente
in proposito un passaggio di Angelus novus in cui Walter
Benjamin scrive: “mai, di fronte all’opera d’arte o a una forma artistica, si
rivela fecondo per la sua conoscenza il riguardo a chi la riceve. Non solo ogni
riferimento a un pubblico determinato o ai suoi esponenti porta fuori strada:
ma anche il concetto di ricettore ‘ideale’ è nocivo in tutte le indagini
estetiche, poiché queste sono semplicemente tenute a presupporre l’esistenza e
la natura dell’uomo in generale”.
Ora, se questa nozione (di uomo in generale così come di pubblico in generale; quanto di più distante dal rapporto di Serianni col suo pubblico, i suoi allievi: considerati ognuno per le sue caratteristiche specifiche) può sortire danni nell’arte – in direzione dell’appiattimento, dell’omologazione, ecc. – molti di più ne può determinare nei suoi destinatari. Perché l’acquisizione di certe competenze – esattamente come i diritti sociali e civili – purtroppo non è da intendersi per sempre, e senza una continua sollecitazione e una buona manutenzione certe abilità possono regredire (come i diritti, appunto, per questo hanno senso iniziative come la Giornata della Memoria); e proprio l’arte, in tutte le sue forme (comprese certe considerate di intrattenimento), può aiutarci a tenerle in esercizio nella direzione individuata da Steven Johnson. E sostenuta anche, qualche tempo fa, proprio sulle pagine di questa rivista, da Gaja Cenciarelli, quando ci ha ricordato l’importanza di continuare a leggere James Joyce a scuola, superando lo spettro della sua complessità, proprio perché leggerlo “equivale anche, e soprattutto, all’opportunità di aprire un varco diverso alla nostra interpretazione della realtà e alla ricchezza che a essa deriva da un continuo spostamento di prospettiva”. Che è l’unico modo per provare ad apprendere gli strumenti utili a districarci in una realtà sempre più complessa e che finiremo per non comprendere più, disabituati (e spaventati) come siamo da tutto ciò che non sia stato semplificato per noi da chi ci reputa incapaci di quel famoso passo in più da sempre essenziale a ogni evoluzione umana. E a cui i fatti finiscono poi per dare ragione (in una confusione strategica tra causa ed effetto), come hanno confermato i dati Ocse del dicembre 2024.
Stiamo
assistendo, in sostanza, a un fenomeno di analfabetismo di ritorno, che il
Vocabolario Treccani definisce così: “espressione riferita a quella quota di
alfabetizzati che, senza l’esercitazione delle competenze alfanumeriche,
regredisce perdendo la capacità di utilizzare il linguaggio scritto per
formulare e comprendere messaggi. L’analfabetismo di ritorno ha dunque effetti
determinanti sulla capacità di un soggetto di esprimere il proprio diritto
alla cittadinanza (dal voto al diritto all’informazione, alla tutela
sul lavoro, ecc.) e di potersi inserire socialmente in modo autonomo”.
Per tutti gli
anni della sua docenza, e con un impegno a tempo pieno anche dopo il suo
pensionamento, Luca Serianni – ecco che finalmente torno a lui – ha insistito
sul legame tra conoscenza della lingua e diritto alla cittadinanza. E sul ruolo
decisivo della scuola, specialmente quella dell’obbligo, nell’acquisizione di
competenze linguistiche necessarie a esercitare in piena consapevolezza i
propri diritti. Un aspetto su cui Serianni è tornato anche nella lezione di
congedo del 2017 già più volte citata.
In
quell’occasione, tra tante altre questioni riguardanti l’insegnamento
dell’italiano nella scuola e nell’università, Serianni lanciò un’esortazione a
tutti i docenti: “chi abbia scelto di fare l’insegnante ha scommesso sui propri
scolari, e in generale sui giovani, sulla loro capacità di apprendere – quale
che sia il punto di partenza – e sul loro percorso di maturazione. E insomma
non può concedersi il lusso di essere pessimista”. Un insegnante, per esempio,
non deve demonizzare i social o i mezzi della contemporaneità, come del resto
non ha mai fatto Serianni, ma deve semmai addestrare i propri allievi a un uso
più consapevole, in modo da permettere loro di avvalersi delle potenzialità di
quei dispositivi senza rinunciare ad allenare le proprie abilità cognitive.
Questo, forse,
un dovere morale di chiunque eserciti un ruolo pubblico. E queste, ancora, le
parole di Serianni: “ai miei studenti di quest’anno ho ricordato il costante
riferimento, nella mia attività professionale quotidiana, al secondo comma
dell’art. 54 della Costituzione, che mi piace interpretare, andando forse oltre
la lettera (ma, se non m’inganno, non fraintendendone lo spirito): ‘Sapete che
cosa rappresentate per me?’ ho chiesto loro in una delle ultime lezioni. ‘Voi
rappresentate lo Stato’. Specificando come lo Stato non è solo l’ente che eroga
lo stipendio ai dipendenti pubblici. Lo Stato è, in primo luogo, l’insieme dei
cittadini che fanno parte di una determinata comunità territoriale e quindi
siamo tutti noi. Ma il funzionario pubblico ha un dovere specifico verso quei
concittadini, dunque verso quella parte di Stato, che di volta in volta è
diretta destinataria del suo lavoro: si tratterà dei pazienti per il medico
ospedaliero, degli assistiti per l’impiegato dell’INPS e, com’è ovvio, dei
propri allievi per il docente di qualsiasi grado scolastico”.
È un ricordo che
mi commuove e che mi fa sentire orgogliosa di aver fatto parte di quella
comunità riunita intorno al suo magistero. Eppure, nonostante tutte le cose che
mi ha indicato (come fanno i veri maestri) – la
consapevolezza, su tutto, che non esiste un italiano buono e uno cattivo, ma
tanti italiani diversi, buoni o cattivi a seconda del contesto: la
possibilità di muoversi tra registri e varietà privilegiando di volta in volta,
secondo necessità, gli aspetti comunicativi o quelli espressivi della lingua –
ora che ripenso ai suoi insegnamenti come a qualcosa di fondamentale per tutti
in questi tempi pedestri, mi accorgo di non trovare un registro adeguato a un
contesto che non lo prevede (“anche perché, la lingua degli angeli, chi la
conosce?”, dice uno dei suoi professori a un giovanissimo De André nel film a
lui dedicato).
Meglio, allora,
rifugiarsi ancora una volta nelle sue parole, sempre tratte da quell’ultima
preziosissima lezione nella nostra facoltà. Il passaggio –
che è anche un primo passo da cui ripartire per sperare in una risalita nella
prossima classifica Ocse; e in più: un frattale perfetto del suo metodo e del
suo stile – sulla necessità insistita di potare, nell’insegnamento della
lingua, un certo “grammaticalismo”. Dove, si potrebbe dire, il grammaticalismo sta
alla grammatica come il concetto di complesso sta
a quello di complicato. E il complicato, per quanto mi riguarda, è
un spettro da tenere a distanza quanto l’eccessivamente semplificato, così come
ricorda David Foster Wallace rispondendo a un’intervista del 1996: “Se uno scrittore si rassegna all’idea che il pubblico sia troppo
stupido, ad aspettarlo ci sono due trappole. Una è la trappola
dell’avanguardismo: si fa l’idea che sta scrivendo per altri scrittori, perciò
non si preoccupa di rendersi accessibile o affrontare questioni rilevanti. Si
preoccupa di far sì che ciò che scrive sia strutturalmente e tecnicamente
raffinatissimo: involuto al punto giusto, ricco di appropriati riferimenti
intertestuali… L’opera deve sprizzare intelligenza. Ma all’autore non importa
nulla se sta comunicando o meno con un lettore interessato a provare quella
stretta allo stomaco che è poi il motivo principale per cui leggiamo. Sul
fronte opposto ci sono opere volgari, ciniche, commerciali, realizzate secondo
formule prestabilite – essenzialmente, il corrispondente letterario della tv –
che manipolano il lettore, che presentano materiale grottescamente semplificato
con uno stile avvincente perché infantile”.
L’involuto di
Wallace è il corrispettivo di “inutilmente complicato”. Come certe derive di
Christopher Nolan nel cinema; o come la regola del sé pronome
senza accento in combinazione con stesso, che è forse l’intervento
di politica linguistica più militante di Serianni, da sempre votato a
un’economia della norma, perché una regola più semplice da comprendere è anche
una regola più semplice da insegnare e dunque da applicare (e se il fine
dell’accento è distinguere il pronome dalla congiunzione, tanto vale estendere
quell’accento a tutti gli usi del pronome, indipendentemente dalle parole a cui
è abbinato anche quando la loro presenza basterebbe a chiarire lo statuto
linguistico del sé senza la necessità dell’accento).
Ma torniamo alla
potatura del “grammaticalismo”, per capire quali elementi della grammatica
rientrano nella categoria secondo Luca Serianni:
“Qual è
l’utilità di individuare il complemento di unione, che sarebbe il complemento
indiretto di ‘Vado a scuola con lo zaino?’ Nessuna: siamo solo di fronte alla
manifestazione di una sindrome classificatoria fine a sé stessa che in altra
occasione mi è capitato di definire “catastale”. A scuola – e nella vita – il
tempo è prezioso e non va sciupato. Molto meglio insistere sui concetti
fondanti di analisi logica (definire davvero che cosa sia il soggetto può
richiedere diverse lezioni), approfondire i meccanismi e le stratificazioni del
lessico, valorizzare le varianti sociolinguistiche e verificare, in corpore
vili, che il concetto di ‘errore’ non si dà quasi mai come una realtà
ontologica, ma cambia a seconda delle variabili in gioco: scritto / parlato,
registro sostenuto / rilassato, confidenza / non confidenza con
l’interlocutore, o anche passato / presente: vadi per il
congiuntivo di andare ci fa sorridere almeno fin dai tempi di Fantozzi, ma è
stata a lungo una forma possibile in italiano e non nasce come una creazione
teratologica, bensì come uno dei tanti casi di analogia all’interno del sistema
verbale (e precisamente di rimodellamento sulle forme della prima
coniugazione: vadi corrisponde ad andare così come il
congiuntivo canti corrisponde a cantare; in base allo stesso
movente per il quale tu cante – esito foneticamente atteso del lat. CANTAS – è
diventato canti per attrazione delle seconde persone di presente indicativo
delle altre coniugazioni: tu temi, leggi, senti), che presentano -i ab
origine“.
Questa, l’ultima
lezione. E anche una lezione per sempre: e per tutti, compresi i
Grammar Nazi che spopolano sui social network. Con Serianni a ricordarci
l’importanza della Storia, dal momento che se si guarda alla grammatica da un
punto di vista diacronico (Luca è stato prima di tutto – tra
tanti aspetti della linguistica che hanno riguardato i suoi studi sterminati –
un immenso storico della lingua), il concetto di errore perde
di senso. Che è anche un modo per dire, in fondo, che la cultura resta l’unico
modo per annullare gli errori. E anche, magari, i nazisti di ogni genere,
compresi quelli grammaticali.
Francesca Serafini è scrittrice, sceneggiatrice, saggista. Il suo ultimo libro è Tre madri (La nave di Teseo, 2021).