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Oggi diamo voce al “pensiero debole” tutt’altro che debole di Gianni Vattimo


Un pensiero che a partire da filosofi come Friedrich Nietzsche e Martin Heidegger rompe con le basi cartesiane e razionalistiche del modo di filosofare dell’età moderna, concependo l’uomo come “Oltreuomo”, dopo aver ridefinito, attraverso una sottile operazione filologica, l’Ubermensch nietzschiano. Si fa riferimento a un soggetto nuovo, non più schiacciato dal peso della responsabilità, sempre punibile come peccatore, ma un soggetto che si è indebolito ontologicamente ed eticamente, un essere umano plurivoco, in quanto espressione di un determinato iter storico/esistenziale.
Secondo G. Vattimo -“Caduta l’idea di una razionalità centrale della storia, il mondo della comunicazione generalizzata esplode come una molteplicità di razionalità “locali”- minoranze etniche, sessuali, religiose, culturali o estetiche- che prendono la parola, finalmente non più tacitate e represse dall’idea che ci sia una sola forma di umanità vera da realizzare, a scapito di tutte le peculiarità, di tutte le individualità limitate, effimere, contingenti”.
Il filosofo torinese spinge a riflettere sulla necessità di una società che sappia tutelare i più fragili, i più “deboli”, ispirandosi a un “cristianesimo minore”, cioè evangelico che sappia fare della charitas uno strumento per cercare la verità. E la carità diventa verità quando accoglie chi è straniero, chi è in difficoltà, chi vuole essere cio che è senza essere giudicato.
Eppure questo pensiero debole è stato criticato e avversato dagli stessi ambienti accademici, da quei pensatori che amano un’altra verità, una verità che si limita a categorizzare e sostare nelle sfere alte del pensiero senza farsi carne.
Interessante l’articolo di Pierfrancesco Stagi che ripercorre le fasi più importanti dell’evoluzione del pensiero di Gianni Vattimo.
 
Virginia Varriale


"Filosofia. La carità di Vattimo e i suoi nemici laici"

di Pierfrancesco Stagi 
tratto da “Avvenire” del 11 febbraio 2025

Con il tempo l’iniziatore del “pensiero debole” ravvivò le sue radici cristiane ispirate ai concetti di dialogo e apertura all’altro. Si attirò così gli strali dei liberali Viano e Rossi.

Il filosofo Gianni Vattimo (1936-2023) - Ansa

Tra gli anni Ottanta e Novanta Torino visse una straordinaria stagione che la vide tra le capitali della filosofia contemporanea, insieme a Parigi, Heidelberg, Princeton, Berkeley, Yale. Probabilmente non era mai successo prima in età moderna che la filosofia italiana avesse un tale richiamo a livello internazionale, se si esclude il magistero intellettuale di Benedetto Croce all’inizio del Novecento.
Il merito è di Gianni Vattimo, professore di Filosofia teoretica in quell’ateneo, che formatosi nell’ambiente del cristianesimo sociale torinese (Carretto e l’Azione Cattolica) e educato alla scuola del filosofo cattolico Luigi Pareyson, seppe guardare oltre il recinto angusto dell’Italia del Dopoguerra verso le principali correnti filosofiche che animavano il dibattito d’Oltralpe come l’esistenzialismo (Heidegger e Sartre), l’ermeneutica (Gadamer), il poststrutturalismo (Foucault e Deleuze, interpreti di Nietzsche), il decostruzionismo (Derrida), il postmodernismo (Lyotard), il pragmatismo (Rorty). Ne nacque una filosofia complessa e modernissima, che riuscì a unire aspetti della tradizione filosofica italiana (il personalismo cristiano, la dimensione etica dell’attività interpretativa, la cura per i temi e i diritti economici e sociali) con le forme più avanzate del pensiero contemporaneo (l’antifondazionalismo, la decostruzione del potere, la critica alla metafisica come struttura di potere e dominio).
Il saggio di Paolo di Motoli, Vattimo e i suoi nemici. Conflitto e campo accademico (Transeuropa, pagine 124, euro 15,00) è una raffinata analisi sociologica di quella stagione condotta attraverso la voce dei protagonisti, docenti, colleghi, dottorandi, laureandi e studenti, in breve un intero mondo raccolto, ancora per una volta, per parlare di Vattimo, il “Maestro” come allora affettuosamente era chiamato da noi che gli giravamo attorno (i cosiddetti “vattimiani”). Quest’opera non è, tuttavia, una raccolta di memorie a scopo rievocativo, ma un’analisi scientifica sul campo condotta con un metodo innovativo dal punto di vista sociologico: l’autoetnografia quale è stata inaugurata dal filosofo francese Bourdieu; una forma di ricerca che usa l’autoriflessione e l’autobiografia per esplorare fenomeni con significati sociali, culturali, psicologici più ampi. Nel primo capitolo, “Autoetnografia di un percorso in formazione”, di Motoli, nato nel 1971, racconta la Torino degli anni Novanta nei giorni in cui entrò come matricola nella Facoltà di Filosofia. Di famiglia non benestante e dopo un percorso di studi frastagliato, l’autore ci offre uno sguardo sulla Torino popolare di quegli anni cupi, in cui i partiti avevano perso il contatto con la società civile. Tanto più nelle realtà socialmente più avanzate come le periferie industriali torinesi e le metropoli del Nord Italia, dove la fuga in avanti dei giovani degli anni Settanta aveva lasciato più macerie che altro. C’era un’atmosfera di riflusso, di delusione, non si parlava volentieri di quanto accaduto.
Presto Vattimo divenne l’interprete di quella complessa fase di passaggio, non solo di Torino ma dell’intero Paese – da qui anche la sua fama di maître à penser che non fu effimera – riuscendo a comprendere che dall’impasse che si era venuto a creare dopo la fine delle grandi ideologie non era possibile uscire continuando a replicare stancamente i modelli del passato, ma fosse necessaria una “mossa del cavallo” - come lui stesso la definì - uno scarto in avanti che si lasciasse alle spalle le contrapposizioni del passato e sapesse proseguire verso il futuro, pensando autenticamente il proprio tempo. Il suo pensiero prese, quindi, in primis la via dell’antifondazionalismo, perché egli si rese conto leggendo Heidegger (ma anche Nietzsche) che le disuguaglianze e le contraddizioni della società contemporanea avevano radici molto più profonde di quanto pensasse la critica marxista al sistema di produzione capitalistico, in quanto affondavano, come andava da tempo ripetendo Foucault, in un sistema di potere che era stato inaugurato dalla metafisica occidentale.
Questa creava legami stabili, impositivi, costrittivi, dal punto di vista conoscitivo e morale, da cui era impossibile sfuggire, pena l’esclusione dal dibattito pubblico. Cercare una società alternativa che sapesse tutelare anzitutto i più fragili, i più “deboli”: ecco anche l’appellativo “pensiero dei deboli” che Vattimo ha dato negli ultimi anni alla sua filosofia, più rappresentativo dell’ormai usurato “pensiero debole”.
Erano gli anni Ottanta, l’epoca del liberismo sfrenato, delle “mani libere” per l’economia, delle “magnifiche sorti e progressive” di una crescita che sembrava non avrebbe avuto limiti. Non stupisce, quindi, che Vattimo abbia progressivamente accentuato la sua provenienza dal cristianesimo sociale e riscoperto l’ispirazione cristiana, ad esempio, della filosofia di Heidegger. Il cristianesimo che Vattimo riscopre non è la metafisica cattolica e tomista, che aveva costituito il solido fondamento dell’alleanza da antico regime tra Chiesa cattolica e potere politico, ma un “cristianesimo minore”, per così dire, evangelico, che si ispirava più alla testimonianza storica del fondatore e dei suoi primi “poveri” seguaci, che ai trionfi speculativi della metafisica aristotelica e platonica. È il concetto di charitas che il filosofo torinese pone al centro, perché laddove c’è la carità anche la verità assume una luce diversa, più “reale”, più vivida.
La verità diventa caritatevole per Vattimo quando non chiude le porte alla diversità, allo straniero, all’inaspettato, non cerca di ingabbiarlo in uno spazio che non gli appartiene, e lo lascia vivere nella sua alterità. Ciò valse a Vattimo soprattutto dal punto di vista accademico non pochi nemici, in prevalenza provenienti dal fronte illuminista, ateo e liberale. Il volume è anche la storia di come alcuni di loro, Viano e Rossi, allievi di Abbagnano, iniziarono un’intensa campagna di opposizione alla sua filosofia, che si concretizzò in saggi, interventi, libelli ( Va’ pensiero, 1985) e in una feroce quanto puntigliosa guerrilla burocratica contro l’attività accademica di Vattimo e dei suoi allievi. Viano e Rossi - i “dioscuri” amavano definirsi - rimproveravano a Vattimo di aver “indebolito” la verità, banalizzato la filosofia e dimenticato la “durezza” della realtà a discapito di un sapere meno sapiente, di una attitudine etica e misericordiosa, che accoglie prima di giudicare, che ama prima di categorizzare, che si rivolge in basso verso la concretezza dell’esistenza umana, piuttosto che in alto verso le inaccessibili sfere della verità metafisica.
Poco dopo anche uno dei suoi primi allievi, Maurizio Ferraris, si unì idealmente ai “dioscuri” per proclamare gli inviolabili e “sacri” diritti della verità/realtà. Ama et fac quod vis, amava ripetere Vattimo, citando Agostino, e osservando con ironica bonomia i colleghi “nemici”.