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Un'italiana a Betlemme, per unire palestinesi e israeliani, in nome della musica

Lucia D'Anna è una violoncellista. È sposata con un palestinese, vive a Gerusalemme, dove insegna musica. Ora, con l'uscita del suo libro «Terra non promessa», cerca di supportare progetti per i bambini in difficoltà. Qui la sua storia.
 
di Valeria Vantaggi
tratto da Vanity Fair del 24 dicembre 2024 

(tutte le foto: Leen Freij)

«Mi chiamo Lucia D’Anna ho 32 anni. Sono originaria di Varese, ma da 9 anni abito a Gerusalemme. Sono una violoncellista, faccio concerti e insegno all’Istituto Magnificat di Gerusalemme, collaboro con il Barenboim Said institute a Ramallah e mi occupo di progetti di musica per i bimbi a Gerusalemme est e Betlemme. Oggi sono sposata con un Palestinese».

Inizia così l'email che arriva in redazione. Con Betlemme, la musica e quell'incontro d'amore con la Palestina, quella di Lucia sembra una perfetta storia di Natale. E così la sentiamo e ci facciamo raccontare.


L'intervista a Lucia D'Anna.

Lei vive a Gerusalemme e ha sposato un palestinese. Com'è la convivenza adesso?
«Mio marito è un Palestinese cristiano, ci siamo conosciuti nella 
scuola dove insegniamo, anche lui è un musicista. La nostra vita come famiglia sta continuando nonostante tutto. Io ho avuto molta paura soprattutto nei primi giorni e negli attacchi da parte dell’Iran. Le mie reazioni alle sirene, alle esplosioni (anche se non vicinissime a Gerusalemme) sono diverse rispetto a quelle di mio marito, lui è un po’ più abituato. Jamil però mi è sempre stato vicino, anche molto pazientemente, ed è sempre stato pronto a capire quando avevo bisogno un po’ di ossigeno e una pausa da questa situazione. Abbiamo un bimbo di 4 anni e mezzo e per me e stato difficile vederlo spaventato dalle sirene, non vederlo tranquillo: mi sentivo quasi in colpa. Io, nata e cresciuta tra la calma delle montagne e dei boschi, devo vedere il mio bimbo agitarsi per la guerra… Poi paradossalmente è stato il mio piccolo a confortarmi nei momento difficili. Mio marito mi ha anche incoraggiato a imparare a sopravvivere in tutta questa tensione, ad apprezzare i gesti belli semplici di ogni giorno che ti fanno andare avanti».

Lei insegna musica ai bambini: che cosa è cambiato in loro dopo il 7 ottobre?
«Insegno a bambini palestinesi cristiani e musulmani e anche a qualche allievo ebreo. La nostra scuola è speciale: all’interno coesistono persone di tutte e tre le religioni monoteiste. La maggioranza dei nostri insegnanti sono ebrei israeliani. All’inizio, dopo il 7 ottobre, è stato difficile: avevamo tutti paura di non farcela a guardarci in faccia e stare nello stesso edificio. Ma la musica e la necessità di suonare insieme, ci hanno fatto superare le difficoltà. Con i bambini, i primi mesi più che suonare avevano bisogno di parlare, di sfogarci, poi hanno capito che concentrarsi sulle note e sui loro pezzi li rendeva più felici e più calmi».

In un momento così duro c'è spazio per la musica?
«In un momento così terribile non si sa bene per cosa ci sia spazio. Noi siamo in una zona non a rischio rispetto a Gaza o al Nord del Paese. Ma è una guerra molto psicologica. Io per diversi mesi non ho voluto suonare: in mezzo alle bombe, alle notizie di tutti i morti e quello che si vedeva dalle news non avevo voglia di suonare neanche una nota. Per me la musica è 
bellezza e felicità, ed era come se non c'entrasse. Ma sapevo di dover venire a scuola per i piccoli, per dare loro del sollievo e non stare sempre in casa. La cosa più bella è stata, pochi mesi dopo l'inizio della guerra, vedere i piccoli dell’asilo cantare e sorridere in uno degli spettacoli musicali che ho organizzato. In quel momento ho capito un valore nuovo del fare musica. Come mia terapia personale invece sono tornata a scrivere, ho iniziato qualche racconto che poi è diventato un libro che hanno appena pubblicato: si intitola Terra Non Promessa e parla di storie vere e verosimili, di persone comuni, di israeliani e palestinesi. Scrivendo ho potuto scaricare le mie paure, la mia rabbia, la mia tristezza».

Che cosa potrebbero fare le persone che stanno qui per aiutare davvero chi sta lì e sta vivendo un momento così difficile?
«Le persone da fuori potrebbero fare donazioni: servono per aiutare le persone qui, in Cisgiordania e a Gaza soprattutto. Ma mi verrebbe da dire che chi sta fuori non dovrebbe schierarsi, non dovrebbe farsi prendere dalla pancia e dagli estremismi perché questo non aiuta nessuno. L’antisemitismo crescente e l’islamofobia non porteranno da nessuna parte».

Visto che lei conosce la musica, se dovesse indicare una colonna sonora per questo momento a Gerusalemme quale sarebbe?
«Me ne vengono in mente due: le canzoni di Fairouz, che qui si sentono sempre, altrimenti l’allegretto secondo movimento della settima sinfonia di Beethoven, per la tensione, la tristezza e tutti quei silenzi».

PS: Il ricavato del libro Terra non Promessa va in beneficienza per sostenere progetti musicali per i bambini, dagli spettacoli alle lezioni di musica.