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Tutta l’arte contemporanea di Napoli dagli Anni Sessanta a oggi in mostra al Madre

È un “racconto di racconti”, quello proposto dal Madre, che ricostruisce oltre sei decenni di storia affiancando storiche presenze a nuovi nomi. Piero Manzoni, Fabro, Matarrese: sono solo alcuni dei tanti protagonisti.

di Antonello Tolve
tratto da Artribune del 23/02/2025

Nell’ampio progetto espositivo organizzato al Madre, area di lavoro in itinere che la sua direttrice, Eva Fabbris, ha intelligentemente deciso di destinare con Gli anni. Episodi di storia dell’arte a Napoli dagli anni Sessanta a oggi (richiamo all’omonimo romanzo di Annie Ernaux, Les année del 2008) a un racconto di racconti. Si capta l’idea di disegnare “uno spazio dell’arte e dell’intelligenza” che vede la galassia partenopea, vale la pena dirlo con le indimenticabili parole del critico Angelo Trimarco, “come un crocevia di istanze e orientamenti internazionali, come cantiere aperto alle influenze benefiche del mondo”. Per evitare che le cose si facciano sbiadito ricordo o eco lontana (gli indizi apocalittici di Ernaux da cui Eva Fabbris parte, per scongiurarli, sono taglienti: “toutes les images disparaîtront”, “toutes ces images, réelles ou non, qui nous suivent jusque dans les rêves et qui sont la présence du monde, du temps et de l’espace en nous”, o ancora “on ne sera qu’un prénom, de plus en plus sans visage, jusqu’à disparaître dans la masse anonyme d’une lointaine génération”), il programma degli “anni” trasforma le opere in occasioni riflessive, in momenti narrativi, in stazioni mediante le quali non solo riporre l’attenzione su importanti capolavori contemporanei, ma anche su aneddoti preziosi, su vicende culturali, su curiosità che donano al pubblico brillanti tracce d’una storia dell’arte lontana da ogni noiosa manualistica e anzi aperta a una didattica assolutamente originale, briosa e frizzante, capace di assecondare la richiesta del fruitore e di offrire dunque, tra dati e date, pillole di un sapere che si muove rizomaticamente in diverse direzioni.
 
La città di Napoli e le collezioni del Madre in dialogo in mostra
Misurandosi con l’arcipelago dello storicismo, ma solo per mandarlo in rovina e per superare il processo lineare della storia (abbracciando a pieno titolo alcuni territori del “post-histoire”), il primo episodio di questa mostra pare essere un saggio visivo la cui scrittura  interna non lascia nulla al caso: la semiologia del sistema espositivo è a dir poco perfetta, accompagna il lettore di stanza in stanza mediante indicazioni che vanno appunto a precisare, zoomare, notiziare sulla nascita di opere, sul lavoro di artisti o di galleristi, su collezioni e collezionisti, sui rapporti tra pubblico e privato, su una galassia di figure, insomma, che tesse le trame dell’arte – del sistema dell’arte, più precisamente – dagli anni Sessanta del secolo scorso al nostro pulsante presente. Superando la linearità della storia e dunque creando un dispositivo che rompe gli argini del cronologico per assecondare un fresco e fragrante attraversamento scandito da colpi d’occhio, da avvenimenti memorabili, da inquadramenti critici e da limpidi cortocircuiti temporali, l’esposizione mostra via via un necessario “dialogo tra la collezione del Madre e importanti collezioni pubbliche e private, principalmente della città di Napoli”. Ci sono infatti musei prestatori di grande spessore, come il Parco Archeologico di Pompei, il Museo di Capodimonte e il Castello di Rivoli. “La narrazione proposta dalla mostra, scandita in momenti ed episodi, segue una struttura non cronologica che intende riflettere la natura fluttuante della memoria umana, offrendo al pubblico una visione dinamica che procede per scarti e rimandi”, evidenzia Eva Fabbris. “A testimonianza del processo di studio in continuo sviluppo su cui Gli anni è basato, ulteriori sale espositive e opere verranno integrate nel percorso espositivo dopo l’apertura, e altri capitoli espositivi faranno seguito al primo”. Ogni opera, in questa esposizione, è, in sé, una storia che si incastra alle altre storie per creare un manto musivo che sale e scende continuamente le scale del tempo, o che unisce momenti lontani tra loro sotto la luce d’una vivace frattura, d’un’indispensabile discontinuità che “è diventata” (lo ha detto Foucault nella sua Archeologia del sapere) “uno degli elementi fondamentali dell’analisi storica”.

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Gli anni. Episodi di storia dell’arte a Napoli dagli Anni Sessanta a oggi, installation view at Madre, Napoli, 2025. 
Photo Amedeo Benestante.

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Gli anni. Episodi di storia dell’arte a Napoli dagli Anni Sessanta a oggi, installation view at Madre, Napoli, 2025. 
Photo Amedeo Benestante.

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Gli anni. Episodi di storia dell’arte a Napoli dagli Anni Sessanta a oggi, installation view at Madre, Napoli, 2025. 
Photo Amedeo Benestante.

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Gli anni. Episodi di storia dell’arte a Napoli dagli Anni Sessanta a oggi, installation view at Madre, Napoli, 2025. 
Photo Amedeo Benestante.

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Gli anni. Episodi di storia dell’arte a Napoli dagli Anni Sessanta a oggi, installation view at Madre, Napoli, 2025. 
Photo Amedeo Benestante.

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Gli anni. Episodi di storia dell’arte a Napoli dagli Anni Sessanta a oggi, installation view at Madre, Napoli, 2025. 
Photo Amedeo Benestante.

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Gli anni. Episodi di storia dell’arte a Napoli dagli Anni Sessanta a oggi, installation view at Madre, Napoli, 2025. 
Photo Amedeo Benestante.

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Gli anni. Episodi di storia dell’arte a Napoli dagli Anni Sessanta a oggi, installation view at Madre, Napoli, 2025. 
Photo Amedeo Benestante.

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Gli anni. Episodi di storia dell’arte a Napoli dagli Anni Sessanta a oggi, installation view at Madre, Napoli, 2025. 
Photo Amedeo Benestante.

Le opere in mostra al Madre di Napoli
Ad aprire l’articolazione narrativa è, dopo Rasna? (2021) di Oli Bonzanigo, un trittico bronzeo collocato tra le ampie finestre che illuminano lo spazio tra le due scalinate del museo (le piccole sculture – “rasna” o anche “rasenna”, ovvero “coloro che si radono”, era il nome con cui gli etruschi si chiamavano nella loro lingua – sono entrate in collezione permanente con il progetto Cantica21), La visione di San Giovanni realizzata da Hidetoshi Nagasawa nel 2002, “in occasione della mostra collettiva Architetture del colore, tenutasi presso la prima sede della Galleria Umberto Di Marino Arte Contemporanea a Giugliano”. Nella stessa sala, del 2020, quasi a giocare con una inversione numerale (02 diventa 20), due lavori di Luisa Lambri d’identica denominazione, Untitled (Casa di Giulia Felice, #14), raccontano una storia più recente: l’apertura, con il Pompeii Commitment. Materie archeologiche, tra arcaico e attuale, grazie ad Andrea Viliani e Massimo Osanna. Le opere e i racconti sono davvero tanti: c’è quello di Francesco Matarrese legato alla galleria Lia Rumma nelle cui sedi espone diverse opere-dichiarazioni (Le contraddizioni sono ovunque e L’uno si divide in due sono del 1974), c’è Piero Manzoni con lavori che portano a ricostruire alcuni eventi degli anni Settanta, c’è Luciano Fabro con Nord, Sud, Est, Ovest giocano a Shangai, potente installazione realizzata nel 1989 per il Salone di Camuccini del Museo di Capodimonte, c’è, ancora, un progetto speciale – Chimera – a cura di Federico Del Vecchio che organizza una sala poetica con opere sue (magnifico Sentimental RGB del 2024), di Benni Bosetto, Luciano Caruso, Helena Hladilová e Vettor Pisani per accomunare pratiche di artisti provenienti da diverse generazioni.

Due artisti per la prima volta a Napoli
Ogni capitolo de ‘Gli anni’ include una sezione di artisti invitati a esporre a Napoli per la prima volta che con la loro presenza stimolano una riflessione sulle collezioni d’arte come sismografi del presente, oltre che archivi di memorie passate”, si legge ad apertura d’una scheda sul lavoro magnetico – Silvesterchlausen (2024) – di Andrew Norman Wilson. Se un’opera di Carlo Alfano, Delle distanze della rappresentazione (1968-1969), presentata alla New Modern Art Agency con Distanza (Delle distanze della rappresentazione) del 1969 (oggi nuovamente insieme in questa mostra), è al centro della prima puntata di un programma – Gli anni. Storie – a cura di Olga Scotto di Vettimo, delle fotografie a firma di Mimmo Jodice e Ugo Mulas mostrano, da una parte Lucio Amelio nella sua galleria, dall’altra la partecipazione di Alfano a Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960-1970, la famigerata mostra curata da Achille Bonito Oliva per gli Incontri Internazionali d’Arte nel Settanta. Degli artisti che espongono per la prima volta a Napoli, accanto a Andrew Norman Wilson c’è Valerio Nicolai che presenta Sogni d’oro, primitivi (2024): una struttura che richiama un mastodontico letto su cui ci sono tracce di spazzatura, di brusio visivo (all’occorrenza anche uditivo, quando alcune attrici entrano nell’opera e cominciano a smuovere e sfregare tra loro i vari materiali).
 
Una “mostra nella mostra” al Madre di Napoli
Dopo aver riletto alcune opere di Mark Leckey, di Allan Kaprow o anche di Nan Goldin, via via si giunge alle ultime due sale del percorso (le sale sono legate al filo sottile di due date: 1924-2024) dove, quasi una mostra nella mostra a cura di Andris Brinkmanis e Valentina Di Rosa, ritroviamo documenti – e una preziosa timeline realizzata da Dora García – sull’incontro fortuito, in una drogheria di Capri, nel 1924, tra Walter Benjamin e la drammaturga lettone Asja Lācis, da cui nasce non solo un gusto di gioco o un desiderio lieve d’amore ma anche un testo, Neapel, pubblicato sulla Frankfurter Zeitung nel 1925, a un anno dalla sua stesura (ad onor del vero la prima redazione del testo era stato inviato nell’inverno del Ventiquattro a Gershom Scholem), in cui emerge il concetto di “porosità”, di qualcosa che ha a che fare con il permeabile (durchdringlich) di cui Napoli è, lo sappiamo, indiscussa sovrana. Tutto in questa impeccabile mostra si muove, mi pare, tra i crepitii della storia recente dell’arte e i brusii della storia delle idee umane: Angelo Trimarco, che citavo in apertura, per mettere lo sgambetto alla storia preferiva parlare di “presente dell’arte”, di presente e “presenze”.