Kant, in un
passo celeberrimo, definisce l’illuminismo come l’uscita da uno stato di
minorità e la minorità come l’incapacità di usare l’intelletto senza la guida
di un altro. Kant, dunque, identifica l’illuminismo con l’autonomia.
L’insegnamento e l’apprendimento sono relazioni e, in quanto relazioni, hanno a che fare con l’idea di formazione e con la pratica del potere. Scopo dell’insegnamento e dell’apprendimento in quanto formazione di un individuo è l’autonomia. Senza formazione non si riceve un’informazione che non sia, direttamente o indirettamente, imposta. Senza formazione non si dà quell’autonomia necessaria a far sì che si possano governare criticamente le informazioni. Finora il non detto della scuola è che la formazione critica è resa possibile soltanto per un’élite, mentre per una scuola pubblica di massa il non detto è che questa deve ridursi a procedure meramente tecniche di informazione. Ai tempi della Riforma Gentile la scuola pubblica d’élite era rappresentata dal Liceo Classico, oggi, in una democrazia ad oligarchica allargata, dal Liceo Classico e dal Liceo Scientifico. Certo, tutto è confuso, così come è confusa l’attuale scuola di massa (più o meno tutte si chiamano licei o I.S.I.S.) che oscilla senza risultati tra la riproduzione (più o meno nascosta) di una scuola d’élite e la distinzione di classe tra ricchi, meno ricchi e poveri, a cui corrisponde una malcelata indistinta distinzione tra formazione critico-teorica e insegnamento tecnico-pratico. A nessuno viene più in mente che, in una democrazia capace di incorporare il futuro dentro sé stessa, il diritto allo studio consisterebbe nell’estendere la formazione critica a tutti come base per uno sviluppo della diversità individuale a partire dalle condizioni reali di eguaglianza.
L’insegnamento e l’apprendimento sono relazioni e, in quanto relazioni, hanno a che fare con l’idea di formazione e con la pratica del potere. Scopo dell’insegnamento e dell’apprendimento in quanto formazione di un individuo è l’autonomia. Senza formazione non si riceve un’informazione che non sia, direttamente o indirettamente, imposta. Senza formazione non si dà quell’autonomia necessaria a far sì che si possano governare criticamente le informazioni. Finora il non detto della scuola è che la formazione critica è resa possibile soltanto per un’élite, mentre per una scuola pubblica di massa il non detto è che questa deve ridursi a procedure meramente tecniche di informazione. Ai tempi della Riforma Gentile la scuola pubblica d’élite era rappresentata dal Liceo Classico, oggi, in una democrazia ad oligarchica allargata, dal Liceo Classico e dal Liceo Scientifico. Certo, tutto è confuso, così come è confusa l’attuale scuola di massa (più o meno tutte si chiamano licei o I.S.I.S.) che oscilla senza risultati tra la riproduzione (più o meno nascosta) di una scuola d’élite e la distinzione di classe tra ricchi, meno ricchi e poveri, a cui corrisponde una malcelata indistinta distinzione tra formazione critico-teorica e insegnamento tecnico-pratico. A nessuno viene più in mente che, in una democrazia capace di incorporare il futuro dentro sé stessa, il diritto allo studio consisterebbe nell’estendere la formazione critica a tutti come base per uno sviluppo della diversità individuale a partire dalle condizioni reali di eguaglianza.
La relazione
insegnante-alunno è sempre sull’orlo del fraintendimento in cui cadde Socrate.
Come ha ricordato Hannah Arendt in Philosophy and Politics (“Social
Research”, n. 1, Spring 1990), l’errore di Socrate consistette nel volere
applicare il dialogo (dialeghesthai, parlare di qualcosa insieme a
qualcuno) là dove, in democrazia e nei tribunali era d’uso applicare la
persuasione e la retorica uno-molti. Ogni insegnante degno di questo nome deve
correre il rischio di Socrate facendo ricorso alla dialettica uno-uno, al
dialogo (dia-logos: discorso fra, dunque relazione), proprio
mentre egli si confronta con i molti. Essere autorevole senza essere
autoritario. Deve sapersi ritrarre lasciando spazio all’alunno senza per questo
abbandonarlo o fuggire da lui, anzi restandogli accanto con il suo potere che è
il suo sapere. È la maieutica di Socrate: aiutare l’altra/o a tirare fuori
quello che ha già dentro di lei/lui. L’insegnamento è un apprendere nella
relazione. L’apprendimento è come l’illuminismo definito da Kant: un modo di
uscire dallo stato di minorità, e l’uscita è l’autonomia. Sta all’alunno
occupare lo spazio lasciato libero, sta a lui praticare l’autonomia dentro una
relazione che si modifica. È proprio il cambiamento che distingue una relazione
di potere da uno stato di dominio.
In uno dei suoi ultimi interventi, una lunga intervista, Michel Foucault suggerisce due tipi di distinzione che possono risultare assai utili ai fini della questione qui in gioco, cioè la difficoltà o l'impossibilità di acquisire l'autonomia, e dunque l'uscita dalla minorità, anche in un contesto in cui è stata invece raggiunta la libertà. La prima è quella fra liberazione e pratiche di libertà, la seconda è fra stati di dominio e relazioni di potere. Si tratta di distinzioni che emergono dall'esperienza delle rivoluzioni e delle lotte di liberazione di questo secolo, ma che vanno estese alle condizioni di vita politica di uno stato democratico odierno. Dopo che le rivoluzioni si sono compiute e le lotte di liberazione sono terminate con una vittoria, dopo che un'azione liberatrice ha raggiunto lo scopo, non soltanto il problema del dominio e di chi lo esercita si presenta di nuovo, ma vi si aggiunge qualcosa in più: l'autorevole legittimazione di uno stato che porta con sé anche il dominio della parola "libertà", ormai segnata dal processo rivoluzionario o liberatorio e resa sacra.
In uno dei suoi ultimi interventi, una lunga intervista, Michel Foucault suggerisce due tipi di distinzione che possono risultare assai utili ai fini della questione qui in gioco, cioè la difficoltà o l'impossibilità di acquisire l'autonomia, e dunque l'uscita dalla minorità, anche in un contesto in cui è stata invece raggiunta la libertà. La prima è quella fra liberazione e pratiche di libertà, la seconda è fra stati di dominio e relazioni di potere. Si tratta di distinzioni che emergono dall'esperienza delle rivoluzioni e delle lotte di liberazione di questo secolo, ma che vanno estese alle condizioni di vita politica di uno stato democratico odierno. Dopo che le rivoluzioni si sono compiute e le lotte di liberazione sono terminate con una vittoria, dopo che un'azione liberatrice ha raggiunto lo scopo, non soltanto il problema del dominio e di chi lo esercita si presenta di nuovo, ma vi si aggiunge qualcosa in più: l'autorevole legittimazione di uno stato che porta con sé anche il dominio della parola "libertà", ormai segnata dal processo rivoluzionario o liberatorio e resa sacra.
Criticare il
riprodursi di uno stato di dominio entro un contesto dove la libertà è stata
resa sacra da un processo rivoluzionario, liberatorio, democratico, diventa
allora assai difficile, se non impossibile. Si è spossessati anche del nome e
della parola. Il dominio affermato in nome della libertà, in seguito a un atto
storico che è stato effettivamente liberatorio, tende a rendere
inefficace ogni critica che ha per scopo l'uscita dalla minorità e l'autonomia.
A differenza di ciò che pensava Kant due secoli fa, oggi il problema non
è soltanto quello di realizzare, grazie alla volontà, ciò che
è già stato posto potenzialmente dalla storia, cioè un contesto di libertà
oggettiva a partire dal quale si rende possibile l'uscita dalla minorità. Oggi
si è aggiunta una complicazione: ottenute le condizioni di libertà grazie a una
rivoluzione o a una lotta di liberazione, queste, come in una sorta di
metamorfosi, finiscono con il convivere con nuovi modi di essere del dominio.
Il dominio risorge sotto le spoglie delle libertà. È ciò che è accaduto e sta
accadendo nella scuola.
Un passaggio che si presenta come una via obbligata verso la libertà nega per questo la libertà stessa. Non è detto che a un processo di liberazione si accompagni necessariamente il raggiungimento dell'autonomia. Quest'ultima, infatti, non è tanto una meta da raggiungere, ma una condizione di esistenza che non può (non deve) mai ridursi al lato oggettivo della libertà. Ma la distinzione foucaultiana fra processi di liberazione e stati di dominio introduce a un'altra distinzione, quella, già accennata, fra relazioni di potere e stati di dominio. "Le analisi che ho cercato di fare vertono essenzialmente sulle relazioni di potere. Con queste intendo qualcosa di diverso dagli stati di dominio. Le relazioni di potere pervadono profondamente le relazioni umane. Questo non significa che il potere politico sia dappertutto, ma che, nelle relazioni umane, vi è tutto un fascio di relazioni di potere, che possono esercitarsi fra individui, in seno a una famiglia, in una relazione pedagogica, nel corpo politico. L'analisi delle relazioni di potere costituisce un campo estremamente complesso; essa si imbatte talvolta in quelli che possono essere definiti i fatti o gli stati di dominio, dove le relazioni di potere, invece di essere mobili e di permettere ai diversi partner una strategia che li modifica, si trovano bloccate e fisse. Quando un individuo o un gruppo sociale giungono a bloccare un campo di relazioni di potere, a renderle immobili e fisse e a impedire ogni reversibilità del movimento - con strumenti che possono essere economici, politici o militari -, ci si trova di fronte a quello che può essere definito uno stato di dominio" (L’etica della cura di sé come pratica della libertà, in Estetica dell’esistenza, etica, politica. Archivio Foucault 3, Feltrinelli, Milano 1994).
Un passaggio che si presenta come una via obbligata verso la libertà nega per questo la libertà stessa. Non è detto che a un processo di liberazione si accompagni necessariamente il raggiungimento dell'autonomia. Quest'ultima, infatti, non è tanto una meta da raggiungere, ma una condizione di esistenza che non può (non deve) mai ridursi al lato oggettivo della libertà. Ma la distinzione foucaultiana fra processi di liberazione e stati di dominio introduce a un'altra distinzione, quella, già accennata, fra relazioni di potere e stati di dominio. "Le analisi che ho cercato di fare vertono essenzialmente sulle relazioni di potere. Con queste intendo qualcosa di diverso dagli stati di dominio. Le relazioni di potere pervadono profondamente le relazioni umane. Questo non significa che il potere politico sia dappertutto, ma che, nelle relazioni umane, vi è tutto un fascio di relazioni di potere, che possono esercitarsi fra individui, in seno a una famiglia, in una relazione pedagogica, nel corpo politico. L'analisi delle relazioni di potere costituisce un campo estremamente complesso; essa si imbatte talvolta in quelli che possono essere definiti i fatti o gli stati di dominio, dove le relazioni di potere, invece di essere mobili e di permettere ai diversi partner una strategia che li modifica, si trovano bloccate e fisse. Quando un individuo o un gruppo sociale giungono a bloccare un campo di relazioni di potere, a renderle immobili e fisse e a impedire ogni reversibilità del movimento - con strumenti che possono essere economici, politici o militari -, ci si trova di fronte a quello che può essere definito uno stato di dominio" (L’etica della cura di sé come pratica della libertà, in Estetica dell’esistenza, etica, politica. Archivio Foucault 3, Feltrinelli, Milano 1994).
I rapporti fra
genitori e figli, per esempio, sono relazioni di potere basate su gerarchie e
dissimmetrie, ma diventano stati di dominio quando non si modificano, quando
cioè la comunicazione simbolica è in una parte decisiva utilizzata per il
mantenimento e la conservazione dei rapporti così come sono.
Secondo Foucault non possono esistere società senza relazioni di potere.
Ogni atto comunicativo da parte di chi si trova più in alto nella relazione di potere (un genitore, un maestro, un terapeuta) può essere finalizzato a ricordare a colui che si trova più in basso la sua posizione e le conseguenti sottomissione e obbedienza che sono a ciò dovute.
Ogni atto comunicativo di questo tipo trasforma la relazione di potere in stato di dominio.
Dicevo prima della parola "autorità". Da essa derivano aggettivi assai diversi fra loro come autorevole e autoritario. L'autorevole implica l'esempio e l'apprendimento, l'autoritario implica l'obbedienza. Tra essere autorevoli ed essere autoritari scorre tutto il fiume che separa e nello stesso tempo unisce relazioni di potere e stati di dominio.
L’insegnamento in quanto relazione di potere è come la democrazia: combattendo gli stati di dominio, insegue, realisticamente e utopisticamente al contempo, un’improbabilità per renderla possibile. La pratica maieutica del dialogo fra amici si oppone al dominio della persuasione e della retorica nel rapporto uno-molti; l’affermazione di una dialettica dove il silenzio e la parola, come l’ascoltare e il dire, si alternano, va contro un mondo dove i molti sono esposti alla persuasione e alla seduzione dell’uno e non possono che assentire e applaudire oppure inveire e urlare come fa la plebe di fronte al capo. Qui sta, o dovrebbe stare, la simbiosi tra democrazia e utopia, tra insegnamento e autonomia, tra apprendimento e futuro.
Secondo Foucault non possono esistere società senza relazioni di potere.
Ogni atto comunicativo da parte di chi si trova più in alto nella relazione di potere (un genitore, un maestro, un terapeuta) può essere finalizzato a ricordare a colui che si trova più in basso la sua posizione e le conseguenti sottomissione e obbedienza che sono a ciò dovute.
Ogni atto comunicativo di questo tipo trasforma la relazione di potere in stato di dominio.
Dicevo prima della parola "autorità". Da essa derivano aggettivi assai diversi fra loro come autorevole e autoritario. L'autorevole implica l'esempio e l'apprendimento, l'autoritario implica l'obbedienza. Tra essere autorevoli ed essere autoritari scorre tutto il fiume che separa e nello stesso tempo unisce relazioni di potere e stati di dominio.
L’insegnamento in quanto relazione di potere è come la democrazia: combattendo gli stati di dominio, insegue, realisticamente e utopisticamente al contempo, un’improbabilità per renderla possibile. La pratica maieutica del dialogo fra amici si oppone al dominio della persuasione e della retorica nel rapporto uno-molti; l’affermazione di una dialettica dove il silenzio e la parola, come l’ascoltare e il dire, si alternano, va contro un mondo dove i molti sono esposti alla persuasione e alla seduzione dell’uno e non possono che assentire e applaudire oppure inveire e urlare come fa la plebe di fronte al capo. Qui sta, o dovrebbe stare, la simbiosi tra democrazia e utopia, tra insegnamento e autonomia, tra apprendimento e futuro.