tratto da “Pangea” del 21 gennaio 2025
Sulla
copertina del “piccolo dramma” spicca una parola: Zavist. Invidia.
La parola cinge, a ghigliottina, Mozart e Salieri, microscopico,
pressoché perfetto testo teatrale di Aleksandr Puškin: meditato dal 1826, fu
scritto quattro anni dopo, in un delirio dell’ingegno a cui vanno ascritti,
quell’anno, oltre al consueto lavoro sull’Onegin, Il convitato
di pietra, Gli zingari, i Versi composti in tempo d’insonnia.
Secondo
la versione di Tommaso Landolfi, così attacca, nel monologo iniziale, Salieri:
“Sono invidioso. Invidio; con tormento,
profondamente, invidio – O cielo! Dunque
dov’è giustizia, quando il sacro dono,
quando il genio immortale non compenso
d’amore ardente, non di dedizione,
di sudori, di zelo, è, di preghiere –
ma illumina la testa d’un ozioso
vagabondo, d’un folle?”
Il dono fa capitolare la ‘storia dell’arte’: ricapitola tutto ciò che si è fatto, disfacendolo. È un gorgo di luce – dunque: un buco nero. Nulla sarà più come prima.
Non è neppure questione di genio, roba con cui intavolare questioni a pranzo, roba che ha un prezzo. Il dono invalida il genio – gli subentra il miracolo. L’inspiegabile.
Fa bene Salieri a contorcersi tra le spire dell’invidia, ispirato all’assassinio: uno come Mozart non permette continuità all’arte, rompe lo schema progressivo della cultura, non gli importa il bene dell’umanità – perché è lui stesso figura del Bene. Mozart incenerisce ciò che c’è – l’arte che fa fermentare buoni sentimenti, salottiere chiacchiere, solatii cuori in pelagio, impelagati nell’emozione – perché ad altre verticali ci incoraggia, ci scassa. Taglia le funi, scatena, non concede ancoraggi: in lui siamo trascinati – d’improvviso, la lingua che si parlava un attimo prima e paventava albe pare rigida, rugginosa, al tramonto; qui, qualcosa d’inaudito ruggisce.
vivo e raggiunga ancora nuova altezza?
Solleverà con ciò l’arte? No; essa
cadrà di nuovo, appena egli scompaia:
a noi non lascerà suo successore.
A che serve egli? Come un cherubino,
alcun canto celeste ci ha trasmesso,
per, suscitata in noi brama senz’ali,
figliuoli della polvere, involarsi!
Dunque, invòlati! quanto prima, meglio”.
Soltanto
l’invidioso – sia lode ai suoi molteplici biforcuti occhi – riconosce fattura
angelica nel fare di Mozart. Cherubica è la sua arte: non può avere seguaci,
non chiede seguito, non serve. Essa, mai serva, inservibile, accade –
e schianta.
Invidia, indivia della bocca, foresteria di malefici,
indifeso desiderio di indiarsi – e così: farsi diavolo.
Jacques de Backer, Invidia, 1570 ca.
Antonio Salieri,
maestro di cappella presso la corte asburgica di Vienna, è stato uno
straordinario compositore, tra i grandi del suo tempo. Di fronte al dono,
tuttavia, non c’è scala di grandezza che regga; il dono non arride a chi si
applica, con strenua dedizione; appicca là dove non dovrebbe; non appiana le
sorti, le spiazza. Armida, Semiramide, La secchia rapita e Il
pastor fido non valgono Don Giovanni, Le nozze di Figaro, Il
flauto magico. Probabilmente, l’invidia di Salieri nei confronti di Mozart
è esagerata, forse infondata: in noi resiste la truce, laccata figura del
musicista interpretato da Murray Abraham nel film di Miloš Forman del 1984. In
quel caso, l’invidia di Salieri è, artisticamente, più affascinante del
fantomatico folleggiare di Amadeus/Tom Hulce.
Così scrive Eridano Bazzarelli commentando Mozart e Salieri, con parole da radicare, a rasoiate, nell’oggi:
Così scrive Eridano Bazzarelli commentando Mozart e Salieri, con parole da radicare, a rasoiate, nell’oggi:
“Salieri arriva al bello, Mozart vola nella sfera del sublime… e il sublime è semplicemente ‘terribile’, distrugge i mediocri, è come lo sguardo ardente di un dio. […] Il mozartismo è un puro dono degli dèi e delle muse, è l’opera assoluta che nasce dalla più profonda e misteriosa intuizione, quella che sono i Dante, i Michelangelo, i Mozart posseggono. È questo il sacro dono, che agli altri è precluso. Per quanto una rana cerchi di gonfiarsi non diventerà mai grande come un toro. Questa distinzione è particolarmente utile in tempi oscuri come i nostri, tempi in cui la poesia sembra del tutto morta, in cui si è voluta cancellare ogni distinzione fra il genio e coloro che non lo sono (miriadi). L’epoca in cui certi metodi critici (strutturali, matematici, psicoanalitici ecc.) hanno contribuito, in modo osceno, a rinnegare tale distinzione, che è invece l’unico principio di ogni sapienza nel campo dell’arte”.
Il soccombente di Thomas Bernhard è il frutto romanzesco del Mozart e Salieri di Puškin. Da un lato, la levità levita in assassinio – nel modo più laido, l’avvelenamento: nove pagine, un testo-libellula, uno stiletto di vetro. Dall’altro, l’ingresso, con strazio e stuolo verbale, nell’invidia. Anche il libro di Bernhard si concentra su un musicista: in questo caso, il dono è in dote a Glenn Gould.
“Appena si sedeva al pianoforte, subito Glenn si raggricciava tutto, pensai, e allora sembrava una bestia, ma a guardarlo più attentamente pareva uno storpio, e se lo si guardava ancora più attentamente appariva come quell’uomo bello e intelligente che in effetti era… Amava le definizioni limpide e odiava tutto ciò che è impreciso. Autodisciplina era una delle parole da lui predilette, la diceva di continuo… Con se stesso era l’uomo più spietato che si potesse immaginare. Non si concedeva la più piccola inesattezza. Detestava le persone che parlano senza aver finito di pensare, dunque detestava quasi tutta l’umanità. E da questa umanità da lui detestata si era in effetti ritratto già da più di vent’anni”.
Un dono non va educato, non va edulcorato; afferrare un dono: stringere il singulto. Sbrindellarsi nel dono.
Uno degli attacchi d’invidia più virulenti della nostra letteratura accadde nella notte tra il primo e il due febbraio del 1609, nell’attuale via Garibaldi, a Torino. Gaspare Murtola, onesto poeta genovese, quarantenne, spara “cinque palle ben grosse” contro Gianbattista Marino. Segretario di Carlo Emanuele I, lirico rispettato a corte, Murtola non poteva accettare che Marino, poeta dotato del dono, d’insuperabile energia, lo oscurasse, gli succedesse nei favori del duca. Come può, d’altronde, un satellite obliare il sole, mascherarsi dei suoi raggi?
Gli scambi di
sonetti imprecatori tra i due sono esilaranti. Murtola nel Ritratto del
Marino fa quel che può:
Marino, questa tua fisonomia,
a dirti il ver, non mi piace niente,
perché dimostra a tutti apertamente
che sei ritratto d’ogni furberia.
La faccia è aguzza, e par che di can sia,
ché perciò latri e sei un maldicente;
e con la lingua pessima e mordente
assali ognun, che va per la sua via.
L’altro non aspetta il destro per mitragliarlo di versi, alcuni, come questi, di esaltante cattiveria:
Murtola, tu ti stilli e ti lambicchi
quel cervellaccio da giocar a scacchi,
e da far orioli ed almanacchi;
e ti sprucchi, collepoli e rincricchi.
Ma, mentre in tutti i buchi il naso ficchi,
e con tuoi versi tutto ’l mondo stracchi,
ognun t’appende dietro i tricchi tracchi,
e ti manda a la forca che t’appicchi.
O grande archimandrita degli allocchi,
o supremo archifanfano de’ cucchi,
o burbucione, o matto da tarocchi;
e non ti accorgi omai che tu ci hai secchi?
Vattene ad abitar tra’ mamalucchi,
o farai meglio a conversar coi becchi!
Che meraviglia quando i poeti si sfidavano ad armi verbali: invidia, odio, vendetta sono, a volte, buon ingrediente per galvanizzare il genio, ingrigito da vecchie arcadie e ricami.
Ad ogni modo, l’invidioso tremò, tentennò, fallì. Marino dichiarò il giorno dell’assalto “per me sempre memorabile”; descrive l’accaduto a un amico in questo modo:
“…su la strada maestra presso la piazza publica, poco innanzi alle ventiquattro ore, mentre ch’io di lui non mi guardava, mi appostò con una pistoletta carica di cinque palle ben grosse, e di sua propria mano molto da vicino mi tirò alla volta della vita. Delle palle tre ne andarono a colpire la porta d’una bottega che ancora se ne vede segnata; l’altre due mi passarono strisciando su per lo braccio sinistro e giunsero a ferire il Braida nel fianco (giovane virtuoso, ben nato e mio parziale amico, il quale mi era allora a lato e veniva meco passeggiando)”.
Il “parziale amico” di Marino, Braida, ebbe brade ferite, presto curate; Murtola fu incarcerato, poi graziato – si dice, per intercessione di Marino. Licenziato dalla corte dei Savoia – nel suo ruolo gli succedette il rivale –, Murola continuò a trescare. Pochi mesi dopo, l’Inquisizione torchiò Marino, accusato di troppi difetti quanto a moralità e a religiosità. Nel 1611 il poeta fu incarcerato per debiti; dunque, partì per Parigi, dove visse tra vasti onori. Quanto a Murtola, svanì in vari incarichi romani.
Intrighi peripatetici della sorte: di Murtola non sappiamo, liricamente, quasi più nulla – scrisse un poema sacro, Della creazione del mondo, assai sfottuto da Marino. D’altra parte, anche Marino, ritenuto un dio del suo tempo, uno che si è incaricato del secolo tutto modificando mode e gusti fino ad allora canonizzati, imitato in ogni corte europea, è diventato una nota nelle antologie scolastiche, un poeta letto a tratti, un dio a babordo, inespresso, come le antiche divinità, comunque soggette al fato – e invidiose, a volte.
Marino, questa tua fisonomia,
a dirti il ver, non mi piace niente,
perché dimostra a tutti apertamente
che sei ritratto d’ogni furberia.
La faccia è aguzza, e par che di can sia,
ché perciò latri e sei un maldicente;
e con la lingua pessima e mordente
assali ognun, che va per la sua via.
L’altro non aspetta il destro per mitragliarlo di versi, alcuni, come questi, di esaltante cattiveria:
Murtola, tu ti stilli e ti lambicchi
quel cervellaccio da giocar a scacchi,
e da far orioli ed almanacchi;
e ti sprucchi, collepoli e rincricchi.
Ma, mentre in tutti i buchi il naso ficchi,
e con tuoi versi tutto ’l mondo stracchi,
ognun t’appende dietro i tricchi tracchi,
e ti manda a la forca che t’appicchi.
O grande archimandrita degli allocchi,
o supremo archifanfano de’ cucchi,
o burbucione, o matto da tarocchi;
e non ti accorgi omai che tu ci hai secchi?
Vattene ad abitar tra’ mamalucchi,
o farai meglio a conversar coi becchi!
Che meraviglia quando i poeti si sfidavano ad armi verbali: invidia, odio, vendetta sono, a volte, buon ingrediente per galvanizzare il genio, ingrigito da vecchie arcadie e ricami.
Ad ogni modo, l’invidioso tremò, tentennò, fallì. Marino dichiarò il giorno dell’assalto “per me sempre memorabile”; descrive l’accaduto a un amico in questo modo:
“…su la strada maestra presso la piazza publica, poco innanzi alle ventiquattro ore, mentre ch’io di lui non mi guardava, mi appostò con una pistoletta carica di cinque palle ben grosse, e di sua propria mano molto da vicino mi tirò alla volta della vita. Delle palle tre ne andarono a colpire la porta d’una bottega che ancora se ne vede segnata; l’altre due mi passarono strisciando su per lo braccio sinistro e giunsero a ferire il Braida nel fianco (giovane virtuoso, ben nato e mio parziale amico, il quale mi era allora a lato e veniva meco passeggiando)”.
Il “parziale amico” di Marino, Braida, ebbe brade ferite, presto curate; Murtola fu incarcerato, poi graziato – si dice, per intercessione di Marino. Licenziato dalla corte dei Savoia – nel suo ruolo gli succedette il rivale –, Murola continuò a trescare. Pochi mesi dopo, l’Inquisizione torchiò Marino, accusato di troppi difetti quanto a moralità e a religiosità. Nel 1611 il poeta fu incarcerato per debiti; dunque, partì per Parigi, dove visse tra vasti onori. Quanto a Murtola, svanì in vari incarichi romani.
Intrighi peripatetici della sorte: di Murtola non sappiamo, liricamente, quasi più nulla – scrisse un poema sacro, Della creazione del mondo, assai sfottuto da Marino. D’altra parte, anche Marino, ritenuto un dio del suo tempo, uno che si è incaricato del secolo tutto modificando mode e gusti fino ad allora canonizzati, imitato in ogni corte europea, è diventato una nota nelle antologie scolastiche, un poeta letto a tratti, un dio a babordo, inespresso, come le antiche divinità, comunque soggette al fato – e invidiose, a volte.