Giornata della Memoria 2025
Se c’è stato un testimone vero, che è riuscito a significare la relazione tra
storia e memoria, dell’esperienza della deportazione degli ebrei in campi di
concentramento e sterminio, che ha avuto bisogno di tutto l’impegno per
raccontare ciò che gli occhi avevano visto, le orecchie sentito, i corpi
patito, nello sforzo titanico di restituire con la narrazione tutto
l’inimmaginabile orrore, questo è sicuramente Primo Levi, nei suoi libri “Se
questo è un uomo” ma soprattutto nella “La tregua”. Da “La tregua” riportiamo
di seguito uno delle testimonianze più toccanti e terribili, quello del piccolo
Hurbinek, un bimbo forse nato ad Aushwitz e lì sicuramente morto, che Primo
Levi definisce il senza nome, con l’impellenza della parola, quella
parola che Hurbinek pronuncerà grazie all’ostinazione amorosa del giovane
Hanek, giovane uomo vicino di letto dello scrittore. Nelle parole di Levi c’è
tutto il dolore e la fatica della testimonianza ma anche della paura di non
essere creduti (nella Prefazione di Se questo è un uomo, dirà “Mi
pare superfluo aggiungere che nessuno dei fatti è inventato”). È proprio la
potenza delle parole, quelle di Primo Levi, che danno la testimonianza della
breve vita di un bimbo di cui nulla resterebbe, e che ai primi giorni del marzo
del ‘45 morì “libero ma non redento”.
“Hurbinek era un nulla, un figlio della morte, un
figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui,
non sapeva parlare e non aveva nome: quel curioso nome, Hurbinek, gli era stato
assegnato da noi, forse da una delle donne, che aveva interpretato con quelle
sillabe una delle voci inarticolate che il piccolo ogni tanto emetteva. Era
paralizzato dalle reni in giù, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come
stecchi; ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto, saettavano
terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di
scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La parola che gli mancava, che nessuno si era curato
di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza
esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice,
che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena.
Nessuno, salvo Henek: era il mio vicino di
letto, un robusto e florido ragazzo ungherese di quindici anni. Henek passava
accanto alla cuccia di Hurbinek metà delle sue giornate. Era materno più che
paterno: è assai probabile che, se quella nostra precaria convivenza si fosse
protratta al di là di un mese, da Henek Hurbinek avrebbe imparato a parlare;
certo meglio che dalle ragazze polacche, troppo tenere e troppo vane, che lo
ubriacavano di carezze e di baci, ma sfuggivano alla sua intimità. Henek invece, tranquillo e testardo, sedeva accanto
alla piccola sfinge, immune alla potenza triste che ne emanava; gli portava da
mangiare, gli rassettava le coperte, lo ripuliva con mani abili, prive di
ripugnanza; e gli parlava, naturalmente in ungherese, con voce lenta e
paziente. Dopo una settimana, Henek
annunciò con serietà, ma senza ombra di presunzione, che Hurbinek «diceva una
parola». Quale parola? Non sapeva, una parola difficile, non ungherese:
qualcosa come «mass-klo», «matisklo». Nella notte tendemmo l’orecchio: era
vero, dall’angolo di Hurbinek veniva ogni tanto un suono, una parola. Non
sempre esattamente la stessa, per verità, ma era certamente una parola
articolata; o meglio, parole articolate leggermente diverse, variazioni
sperimentali attorno a un tema, a una radice, forse a un nome. Hurbinek continuò finché ebbe vita nei suoi
esperimenti ostinati. Nei giorni seguenti, tutti lo ascoltavamo in silenzio,
ansiosi di capire, e c’erano fra noi parlatori di tutte le lingue d’Europa: ma
la parola di Hurbinek rimase segreta. Hurbinek,
che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un
albero; Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all’ultimo respiro,
per conquistarsi l’entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale
lo aveva bandito; Hurbinek, il senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era
pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morì ai primi giorni
del marzo 1945, libero ma non redento. Nulla resta di
lui: egli testimonia attraverso queste mie parole.” - Primo Levi “La tregua”.
Per non dimenticare. MAI.
Maria Vittoria Montemurro