tratto da Avvenire del 4 dicembre 2024
I cronisti locali, chi scrive era tra quelli, ricordano i suoi lunghi e complessi interventi in consiglio comunale, con citazioni che andavano da Kafka a Rilke, da Etty Hillesum a Karl Popper. I “colleghi” di maggioranza e opposizione ascoltavano in silenzio rispettoso, qualcuno per dovere d’ufficio e forse per l’impossibilità di imbastire una qualsivoglia replica, altri contenti che una noiosa seduta serale si potesse trasformare nell’occasione di imparare qualcosa.
Era ben noto a tutti che la presenza di Borgna sulla poltrona più importante del consiglio comunale fosse un “prestito” a tempo limitato, quasi sproporzionato rispetto al ruolo che lo psichiatra già rivestiva nella sua attività professionale a livello nazionale. Già in quegli anni era tra i principali e più significativi esponenti della psichiatria fenomenologica e della psicologia esistenziale. Uno studioso originale e controcorrente per le convinzioni psichiatriche dell’epoca. Borgna aveva contestato i criteri di approccio tradizionale e aveva rigettato ogni forma di riduzionismo biologico.
Per lui l’interpretazione naturalistica delle patologie mentali, secondo cui le cause della sofferenza sono da ricercare nel malfunzionamento dei centri cerebrali, riusciva a cogliere solo un aspetto del problema. E, di conseguenza, si diceva convinto che la cura non potesse avvenire solo con farmaci né, tantomeno, con altre terapie invasive. Non accettava però neppure di essere definito un esponente della cosiddetta “antipsichiatria”.
La sua prassi clinica era fondata sul dialogo e sul confronto “culturale” con il paziente, anzi con le pazienti, quelle che anche dopo aver abbandonato la direzione dell’ospedale psichiatrico, non smettevano di cercarlo e di andarlo a trovare. E lui non sapeva sottrarsi: “Ho studiato a lungo la psiche femminile – raccontava – ho accolto la sofferenza di tante donne e posso dire di essere più adatto ad assistere e a confortare la solitudine di un’anima femminile rispetto a una maschile”. Non a caso, tra i suoi sterminati riferimenti culturali, mistiche, poetesse e filosofe hanno rappresentato un gruppo privilegiato, un ambito antropologico a cui non poteva rinunciare. Amava Emily Dickinson e Simone Weil, Teresa di Lisieux e Antonia Pozzi. Citava spesso Virginia Wolf e il suo sguardo sulla malattia come cambiamento spirituale, come “desolazione e deserto dell’anima”, ma anche Chiara d’Assisi come paradigma di mitezza e di apertura all’altro e alla sua sete interiore.
L’elenco delle sue opere supera abbondantemente lo spazio previsto per questo articolo. Possiamo solo dire che ha saputo alternare produzione specialistica – con alcuni studi importanti sulla depressione, sulla schizofrenia e sulla follia come esperienza di conoscenza e di sapere – a opere più divulgative tra cui alcune, come Nei luoghi perduti della follia (2008); Le emozioni ferite (2009); La solitudine dell’anima (2011); Di armonia risuona e di follia (2012); La dignità ferita (2013); La fragilità che è in noi (2014); Il tempo e la vita (2015); Parlarsi (2015) sono diventate altrettanti best-seller. Ha scritto anche un saggio dedicato a Clemente Rebora, uno dei suoi poeti preferiti (Apro l’anima e gli occhi. Coscienza interiore e comunicazione).
Insomma, uno scienziato umanista, un uomo buono e profondo, che per tutta la sua lunga vita ha frequentato e abbracciato la fragilità riconoscendone l’assoluta dignità umana con uno sguardo originale, proiettato verso quell’invisibile di fronte a cui preferiva fermarsi, guardarlo da lontano, con il rispetto e la consapevolezza degli uomini colti e saggi che osservano e riflettono l’“indicibile silenzio”, come lui amava definire il mistero dell’esperienza di Dio.