di Enrico
De Angelis
tratto da “Valigia blu” del 7 dicembre 2024
tratto da “Valigia blu” del 7 dicembre 2024
Il 27 novembre
scorso gruppi armati dell’opposizione hanno lanciato l’operazione “Deterring
Aggression” (Dissuadere l’aggressione) nel Nord della Siria. Solo tre giorni
dopo, il 29, sono entrati ad Aleppo, la seconda città più grande del paese,
incontrando pochissima resistenza.
La maggior parte dei ribelli nel Nord fa capo al Syrian Salvation Government (SSG), che governa le aree rimaste sotto il controllo dell’opposizione successivamente alla rivolta/guerra civile, e di cui la città di Idlib è al momento la capitale.
A presiedere il SSG è principalmente Hayat Tahrir al Sham (HTS), la cui base, con il nome di Jabhat al Nusra, è stata fondata da ISIS, per poi distaccarsene e dichiararsi affiliata ad Al Qaeda. Nel 2017, in seguito all’alleanza con altri gruppi islamisti, nasce HTS così come è strutturata oggi.
Altri gruppi armati operanti nel Nord Ovest a sud di Idlib, fino ai dintorni di Hama, si sono uniti all’attacco. Questi includono il Syrian National Army (SNA) che fa capo al Syrian Interim Government (SIG), il governo dell’opposizione siriana ufficiale, appoggiato dalla Turchia.
L’avanzata
appare inarrestabile. Il 5 dicembre, dopo un assedio di pochi giorni, anche
Hama cade sotto il controllo dei ribelli. In questo caso l’evento è importante
per diversi motivi.
Primo, mentre con la presa di Aleppo si poteva pensare che fosse un successo dovuto in gran parte all’effetto sorpresa, l’avanzata successiva sembra indicare il contrario. Infatti né i bombardamenti russi e dell’aviazione siriana, né il ripiegamento “strategico” delle forze del regime di Damasco sembrano riuscire ad arrestare i gruppi armati.
Secondo, Hama è strategicamente importante perché costituisce un nodo cruciale tra il Nord e il Sud, ma anche verso la costa, abitata prevalentemente da popolazioni Alawite, che tradizionalmente costituiscono la parte della società più leale al regime.
Terzo, ha un
valore simbolico importante. La città è stata il teatro dei massacri del 1982,
che ha visto l’uccisione di decine di migliaia di persone e che hanno di fatto
messo fine alla rivolta dei Fratelli Musulmani cominciata nel 1976. L’episodio
costituisce uno spartiacque storico in Siria, un rimosso collettivo dal peso
equivalente al silenzio imposto dal regime su quegli avvenimenti negli anni
successivi. Per i siriani, Hama era divenuta il termine di paragone quando si
trattava di misurare la capacità di ferocia del regime, ma anche il significato
delle vittorie rivoluzionarie dopo il 2011 e il poter finalmente, in
quell’occasione, documentare i crimini commessi e la fine di quello che viene
definito ‘il regno del silenzio’, che era riuscito perfino a pretendere di
ignorare un eccidio di 40.000 morti.
Infine, ha un valore simbolico anche perché, negli anni di rivolta e di guerra civile, i ribelli non erano mai riusciti a occuparla (a differenza di una parte consistente di Aleppo, che avevano dovuto abbandonare solo nel dicembre 2016, a seguito di uno dei bombardamenti aerei più violenti e indiscriminati della storia).
Una prevedibile sorpresa?
Il colonnello Hassan Abdul Ghani, il responsabile delle operazioni, ha dichiarato che il principale obiettivo sarebbe espandere le “aree sicure” e di consentire così di far tornare le popolazioni sfollate durante la guerra nei loro luoghi di origine (in Siria circa 7 milioni di persone sono rifugiati interni).
Idlib era
l’ultima delle quattro zone di de-escalation tracciate da Russia, Turchia e
Iran ad Astana nel 2017 per stabilizzare il paese dopo la guerra civile. Il
cessate il fuoco, mediato da Turchia e Russia nel 2020, era stato interrotto
diverse volte sia per scontri interni tra le fazioni armate, che a causa di
bombardamenti russi e di incursioni dei loro alleati sul terreno, che avevano
causato centinaia di morti anche tra i civili nel quasi completo silenzio
internazionale. Ma questi episodi non erano mai sfociati in guerra aperta.
Se l’obiettivo era inizialmente quello di colpire alcune posizioni strategiche da cui erano partiti i bombardamenti e le incursioni contro Idlib, la portata del successo militare ha immediatamente modificato le ambizioni dei ribelli. Il capo del SIG ha recentemente annunciato l’operazione Fajr al-Hurriya (L’alba della libertà) con l’intento di “liberare” il Nord Est governato dall’amministrazione autonoma del Nord Est e dalle forze siriane democratiche (SDF), prevalentemente curde e appoggiate dagli Stati Uniti.
Ma perché proprio adesso?
Pare che le forze ribelli abbiano pianificato l’attacco da tempo (diverse fonti sostengono fosse in preparazione da almeno due mesi e che il governo turco li abbia frenati). Il motivo principale probabilmente è che hanno contato (e per ora pare a ragione) sull'indebolimento della Russia, dell’Iran e di Hezbollah, o perlomeno sul fatto che la loro attenzione fosse concentrata altrove. La Russia è impegnata in Ucraina. L’Iran deve fare i conti con l’invasione israeliana in Libano, le tensioni con Israele e Stati Uniti, e un’erosione rapida della sua influenza nella regione. Hezbollah, con la leadership decimata, è nel mezzo di un cessate il fuoco precario, che Israele viola a ripetizione.
L’attacco mette a nudo anche lo stato precario della Siria post guerra civile, un paese distrutto in cui una vera e propria ricostruzione non è mai avvenuta, colpito dalle sanzioni, con la lira che ha perso il 99% del suo valore dal 2011 e il 90% dei siriani che vivono sotto la soglia di povertà, i tagli ai sussidi e delle infrastrutture quasi inesistenti.
In questo
contesto, Bashar al Assad e la presidenza hanno accentrato sempre piú nelle loro
mani attività e beni economici, tagliando anche fuori alcuni degli uomini
d’affari vicini al regime, come Rami Makhlouf, che erano prosperati durante le
liberalizzazioni degli anni 2000.
Se queste mosse
hanno consentito al regime di navigare il disastro economico, non hanno di
certo contribuito ad alleviare il declino delle condizioni di vita della
popolazione. Ne sono una prova le proteste a Sweida, nel sud del paese a
maggioranza drusa, ma anche un malcontento crescente che si è fatto sentire
nelle zone generalmente più leali, come quelle sulla costa e a Damasco, anche
se mai sfociate in manifestazioni vere e proprie.
La guerra ha
anche creato vuoti di potere locali che sono stati riempiti da milizie e bande
armate, su cui un regime così povero di risorse può fare ben poco. Dietro la
facciata della vittoria e della riconquista della maggior parte del paese, in
altre parole, c’è la realtà di uno Stato tenuto insieme da chi l’ha salvato, e
in primis Iran e Russia. Anche il loro appoggio, d’altra parte, ha comportato
costi esigenti, con entrambi i paesi che hanno messo le mani su risorse e settori
economici vitali.
In questo
contesto, si può capire che un esercito mal pagato, mal
equipaggiato, con alle spalle un paese in rovina, possa essere crollato di
fronte all’attacco improvviso di HTS e dei suoi alleati.
Secondo il
ricercatore siriano Suhail al Ghazi (ex fellow al TIMEP e attualmente basato in
Italia), sentito da Valigia Blu, le ragioni interne sono ancora più
importanti di quelle esterne. L’esercito siriano nel Nord si preoccupava più
che altro di taglieggiare e arrestare i civili che passavano per gli
innumerevoli checkpoint della regione. Né era pronto a una difesa efficace
contro un attacco di questo tipo. Quando l’attacco è avvenuto, i ribelli hanno
trovato sul proprio cammino equipaggiamento militare e carri armati (il cui
carburante era probabilmente stato venduto al mercato nero) abbandonati
dall’esercito siriano e dai russi.
Dall’altra parte del confine, a Idlib, la storia è diversa. HTS è riuscita negli ultimi anni a consolidare il suo potere, sia rafforzando sostanzialmente le sue capacità militari (inclusi droni e dispositivi di monitoraggio), sia risolvendo alcune delle tensioni interne con altri gruppi islamisti così come con clan e famiglie locali, e allo stesso tempo, come stiamo vedendo oggi, cambiando linguaggio e modo di comunicare. La prima occasione propizia in questo senso l’ha offerta il terremoto del febbraio 2023, quando HTS ha cercato per la prima volta di presentarsi come gestore responsabile degli aiuti internazionali e ottenere legittimità, aprendo anche ai giornalisti stranieri.
Tutto questo in
una regione, quella del Nord Ovest, che in questi anni è riuscita lentamente a
risalire, grazie alla relativa calma e alla sua inclusione nella sfera
d’interesse turca, con i benefici economici che ne conseguono. Infine, anche
l’atteggiamento nei confronti delle minoranze religiose, dopo anni di violenze
e repressione, è cambiato ed è diventato molto più accomodante.
Tra speranza e paura: le prime reazioni
In Siria è particolarmente difficile leggere le situazioni in bianco e nero.
L’attacco dei ribelli, dicevamo, ha colto di sorpresa tutto il mondo, inclusi i siriani della diaspora, ovvero coloro che hanno dovuto abbandonare il loro paese a causa della guerra o perché perseguitati dal regime.
Di sicuro, nessuno si aspettava un’avanzata così rapida e schiacciante. Questo ha creato, soprattutto inizialmente, un sentimento misto di gioia (finalmente la Siria torna sotto i riflettori di tutto il mondo, e con le forze del regime in ritirata) e di ansia (sia perché ad avanzare sono pur sempre prevalentemente gruppi islamisti con a capo un movimento di origine qaedista, sia per la possibile escalation di violenza e i bombardamenti russi e siriani).
Era ed è difficile prevedere le conseguenze di una “liberazione” di Aleppo, una città antica e cosmopolita in cui convivono cristiani, armeni, e curdi, da parte di forze estremiste come HTS. Video di prigionieri alawiti minacciati di morte, e la notizia di 600 cadetti alawiti scomparsi (poi liberati in uno scambio di prigionieri) sembrano confermare alcune di quelle paure. Anni di guerra civile hanno lasciato dietro di sé risentimenti e desiderio di vendetta. Non è un caso quindi che, mentre i ribelli avanzano verso Homs, migliaia di persone lasciano la città per rifugiarsi sulla costa.
Ancora più caute
e spaesate le reazioni tra gli Stati occidentali che invitano a una
de-escalation, in quanto preoccupati per le ripercussioni politiche, mentre le
organizzazioni di diritti umani e l’ONU si focalizzano sull’impatto sui
civili (a oggi decine di morti, soprattutto in seguito
ai bombardamenti russi e dell’aviazione siriana, e migliaia di sfollati).
“Senza una
giustizia credibile non ci sarà fine alle sofferenze che i siriani hanno
sopportato, a prescindere da chi controlla il territorio”
Dall’altra parte, le immagini dei prigionieri politici liberati dalle famigerate prigioni del regime ad Aleppo e Hama. Per chi non conosce l’inferno di quelle prigioni è difficile poter afferrare il significato politico e umano dell’apertura di quelle porte. In Siria, solo dal 2011, decine di migliaia di persone sono state incarcerate dal regime, e migliaia sono morte all’interno, sotto tortura o uccise, come l’attivista e programmatore siro-palestinese Basel Safadi, per citarne solo uno di quelli che ho conosciuto di persona. Di migliaia di altri, come il padre dell’attivista Wafa Mustafa, non se ne sa più nulla. Le famiglie siriane all’estero hanno anche fondato un’organizzazione, Families for Freedom, per evitare che i loro cari vengano dimenticati e lasciati al loro destino.
Le paure
tuttavia sembrano diminuire negli ultimi giorni. HTS pare molto attenta a
rassicurare le minoranze (anche se gli alawiti e gli sciiti meno di cristiani,
curdi e drusi). Decine di annunci e messaggi video da parte di soldati sul
posto, e dei vertici dell’organizzazione, a partire da Abu Mohammad Al Julani,
il suo leader, promettono tolleranza nei confronti di tutti, di voler costruire
una Siria per tutti e persino di voler dissolvere HTS per creare una struttura civile/militare di governo più
inclusiva.
Sono anche
circolati video di cristiani ad Aleppo che accolgono i nuovi arrivati, e di
gente a Salamieh, una cittadina a maggioranza Ismaelita, non lontana da Hama,
che scende nelle strade in massa per salutarli.
Quello che sta riuscendo forse a convincere le minoranze, sostiene al Ghazi, non è solo la comunicazione di HTS, ma soprattutto la disciplina che i ribelli stanno dimostrando al momento: nessun atto di vendetta personale, di violenza incontrollata, di saccheggi e prepotenze.
I siriani, provati da anni di guerra civile e difficoltà economiche, potrebbero accettare di buon grado il cambiamento, anche se non necessariamente ideale, se avvenisse senza ulteriori bagni di sangue, e se portasse un miglioramento delle condizioni di vita. In questo senso, afferma sempre al Ghazi, le questioni ideologiche e religiose contano poco, e la domanda che si pongono è semplicemente: “cosa offrite?”.
In parte questa stanchezza e disillusione spiega anche il collasso delle forze del regime, e la scarsa volontà dei suoi soldati di sacrificarsi ancora per un regime che non solo si è macchiato di crimini inauditi, ma che non offre più niente.
Cosa succederà dopo?
L’operazione pare aver colto tutti di sorpresa. La Siria era da tempo uscita dalle priorità dell’agenda politica, ed era stata messa da parte anche dai media internazionali e regionali. Tra gli addetti ai lavori, e i siriani della diaspora, già se ne parlava come di un conflitto dimenticato. Certo si sapeva che il paese era tutt’altro che stabile, soprattutto dal punto di vista economico, ma si pensava anche che il regime di Bashar al Assad avesse più o meno la situazione sotto controllo.
La guerra
infinita: tredici anni di conflitto in Siria
Gli Stati arabi avevano già cominciato un processo di riavvicinamento, spinto dall’Arabia Saudita, durante il 2023, e soprattutto in seguito al terremoto che ha colpito la Turchia e il nord del paese in quell’anno. Entro maggio, la Siria era stata reintegrata ufficialmente nella Lega Araba. Intanto, Erdogan aveva gradualmente cominciato a usare parole più concilianti nei confronti del nemico Assad. Infine, il processo di normalizzazione si è esteso all’Europa. In questo caso il processo è stato guidato proprio dall’Italia e appoggiato da dieci paesi. Il 22 novembre, l’ambasciatore italiano è tornato a Damasco.
La
normalizzazione si basava sull’idea che ormai di dovesse accettare la presenza
del regime e che si dovesse aprire un dialogo in relazione a una serie di
problemi: i rifugiati prima di tutto, il traffico di droga, e il contrasto
all’influenza russa e ancora di più iraniana. Con buona pace per tutti quei
siriani che continuano senza sosta a chiedere giustizia per la repressione e i
crimini di guerra prima e soprattutto durante la rivolta/guerra
civile.
Non è facile prevedere il dopo. Se l’avanzata procederà rapidamente come nei giorni scorsi, i ribelli potrebbero arrivare presto anche a Homs, che a quel punto taglierebbe fuori il sud del paese e lascerebbe completamente isolate le regioni costiere.
Intanto, mentre Erdogan invita Assad a negoziare una soluzione politica, il regime promette battaglia, comunicando alla gente di Hama che la città sarà riconquistata. La minaccia però appare al momento poco credibile. L’Iran ha detto che nel caso ce ne fosse bisogno, sarebbe pronto a mandare altre forze. Hezbollah ha sostenuto che continueranno ad appoggiare le forze dell’esercito siriano. Ma in concreto appare molto remota la possibilità che arrivino forze fresche, e consistenti, che siano quelle del partito di dio libanese o quelle delle milizie sciite filo-iraniane in Iraq. La Russia sembra già pronta a defilarsi.
La Turchia, d’altra parte, che, pur non supportando o dirigendo direttamente l’attacco, ne era certamente informata, potrebbe essere interessata a togliere ancora territori alla regione dell’amministrazione autonoma amministrata dai curdi, anche conosciuta come Rojava, che però significherebbe entrare in collisione con le SDF alleate degli americani.
Diverse fonti suggeriscono che dopo la conquista di Homs le potenze regionali potrebbero insistere per una soluzione politica negoziata. Ma, intanto, si comincia a muovere anche il Sud, nelle regioni di Daraa e di al Sweida. La struttura di carta del regime siriano pare prendere fuoco da molti lati.
Ora in molti sperano che il regime di Damasco possa finalmente cadere.
La maggior parte dei ribelli nel Nord fa capo al Syrian Salvation Government (SSG), che governa le aree rimaste sotto il controllo dell’opposizione successivamente alla rivolta/guerra civile, e di cui la città di Idlib è al momento la capitale.
A presiedere il SSG è principalmente Hayat Tahrir al Sham (HTS), la cui base, con il nome di Jabhat al Nusra, è stata fondata da ISIS, per poi distaccarsene e dichiararsi affiliata ad Al Qaeda. Nel 2017, in seguito all’alleanza con altri gruppi islamisti, nasce HTS così come è strutturata oggi.
Altri gruppi armati operanti nel Nord Ovest a sud di Idlib, fino ai dintorni di Hama, si sono uniti all’attacco. Questi includono il Syrian National Army (SNA) che fa capo al Syrian Interim Government (SIG), il governo dell’opposizione siriana ufficiale, appoggiato dalla Turchia.
Primo, mentre con la presa di Aleppo si poteva pensare che fosse un successo dovuto in gran parte all’effetto sorpresa, l’avanzata successiva sembra indicare il contrario. Infatti né i bombardamenti russi e dell’aviazione siriana, né il ripiegamento “strategico” delle forze del regime di Damasco sembrano riuscire ad arrestare i gruppi armati.
Secondo, Hama è strategicamente importante perché costituisce un nodo cruciale tra il Nord e il Sud, ma anche verso la costa, abitata prevalentemente da popolazioni Alawite, che tradizionalmente costituiscono la parte della società più leale al regime.
Infine, ha un valore simbolico anche perché, negli anni di rivolta e di guerra civile, i ribelli non erano mai riusciti a occuparla (a differenza di una parte consistente di Aleppo, che avevano dovuto abbandonare solo nel dicembre 2016, a seguito di uno dei bombardamenti aerei più violenti e indiscriminati della storia).
Una prevedibile sorpresa?
Il colonnello Hassan Abdul Ghani, il responsabile delle operazioni, ha dichiarato che il principale obiettivo sarebbe espandere le “aree sicure” e di consentire così di far tornare le popolazioni sfollate durante la guerra nei loro luoghi di origine (in Siria circa 7 milioni di persone sono rifugiati interni).
Se l’obiettivo era inizialmente quello di colpire alcune posizioni strategiche da cui erano partiti i bombardamenti e le incursioni contro Idlib, la portata del successo militare ha immediatamente modificato le ambizioni dei ribelli. Il capo del SIG ha recentemente annunciato l’operazione Fajr al-Hurriya (L’alba della libertà) con l’intento di “liberare” il Nord Est governato dall’amministrazione autonoma del Nord Est e dalle forze siriane democratiche (SDF), prevalentemente curde e appoggiate dagli Stati Uniti.
Ma perché proprio adesso?
Pare che le forze ribelli abbiano pianificato l’attacco da tempo (diverse fonti sostengono fosse in preparazione da almeno due mesi e che il governo turco li abbia frenati). Il motivo principale probabilmente è che hanno contato (e per ora pare a ragione) sull'indebolimento della Russia, dell’Iran e di Hezbollah, o perlomeno sul fatto che la loro attenzione fosse concentrata altrove. La Russia è impegnata in Ucraina. L’Iran deve fare i conti con l’invasione israeliana in Libano, le tensioni con Israele e Stati Uniti, e un’erosione rapida della sua influenza nella regione. Hezbollah, con la leadership decimata, è nel mezzo di un cessate il fuoco precario, che Israele viola a ripetizione.
L’attacco mette a nudo anche lo stato precario della Siria post guerra civile, un paese distrutto in cui una vera e propria ricostruzione non è mai avvenuta, colpito dalle sanzioni, con la lira che ha perso il 99% del suo valore dal 2011 e il 90% dei siriani che vivono sotto la soglia di povertà, i tagli ai sussidi e delle infrastrutture quasi inesistenti.
Dall’altra parte del confine, a Idlib, la storia è diversa. HTS è riuscita negli ultimi anni a consolidare il suo potere, sia rafforzando sostanzialmente le sue capacità militari (inclusi droni e dispositivi di monitoraggio), sia risolvendo alcune delle tensioni interne con altri gruppi islamisti così come con clan e famiglie locali, e allo stesso tempo, come stiamo vedendo oggi, cambiando linguaggio e modo di comunicare. La prima occasione propizia in questo senso l’ha offerta il terremoto del febbraio 2023, quando HTS ha cercato per la prima volta di presentarsi come gestore responsabile degli aiuti internazionali e ottenere legittimità, aprendo anche ai giornalisti stranieri.
Tra speranza e paura: le prime reazioni
In Siria è particolarmente difficile leggere le situazioni in bianco e nero.
L’attacco dei ribelli, dicevamo, ha colto di sorpresa tutto il mondo, inclusi i siriani della diaspora, ovvero coloro che hanno dovuto abbandonare il loro paese a causa della guerra o perché perseguitati dal regime.
Di sicuro, nessuno si aspettava un’avanzata così rapida e schiacciante. Questo ha creato, soprattutto inizialmente, un sentimento misto di gioia (finalmente la Siria torna sotto i riflettori di tutto il mondo, e con le forze del regime in ritirata) e di ansia (sia perché ad avanzare sono pur sempre prevalentemente gruppi islamisti con a capo un movimento di origine qaedista, sia per la possibile escalation di violenza e i bombardamenti russi e siriani).
Era ed è difficile prevedere le conseguenze di una “liberazione” di Aleppo, una città antica e cosmopolita in cui convivono cristiani, armeni, e curdi, da parte di forze estremiste come HTS. Video di prigionieri alawiti minacciati di morte, e la notizia di 600 cadetti alawiti scomparsi (poi liberati in uno scambio di prigionieri) sembrano confermare alcune di quelle paure. Anni di guerra civile hanno lasciato dietro di sé risentimenti e desiderio di vendetta. Non è un caso quindi che, mentre i ribelli avanzano verso Homs, migliaia di persone lasciano la città per rifugiarsi sulla costa.
Dall’altra parte, le immagini dei prigionieri politici liberati dalle famigerate prigioni del regime ad Aleppo e Hama. Per chi non conosce l’inferno di quelle prigioni è difficile poter afferrare il significato politico e umano dell’apertura di quelle porte. In Siria, solo dal 2011, decine di migliaia di persone sono state incarcerate dal regime, e migliaia sono morte all’interno, sotto tortura o uccise, come l’attivista e programmatore siro-palestinese Basel Safadi, per citarne solo uno di quelli che ho conosciuto di persona. Di migliaia di altri, come il padre dell’attivista Wafa Mustafa, non se ne sa più nulla. Le famiglie siriane all’estero hanno anche fondato un’organizzazione, Families for Freedom, per evitare che i loro cari vengano dimenticati e lasciati al loro destino.
Quello che sta riuscendo forse a convincere le minoranze, sostiene al Ghazi, non è solo la comunicazione di HTS, ma soprattutto la disciplina che i ribelli stanno dimostrando al momento: nessun atto di vendetta personale, di violenza incontrollata, di saccheggi e prepotenze.
I siriani, provati da anni di guerra civile e difficoltà economiche, potrebbero accettare di buon grado il cambiamento, anche se non necessariamente ideale, se avvenisse senza ulteriori bagni di sangue, e se portasse un miglioramento delle condizioni di vita. In questo senso, afferma sempre al Ghazi, le questioni ideologiche e religiose contano poco, e la domanda che si pongono è semplicemente: “cosa offrite?”.
In parte questa stanchezza e disillusione spiega anche il collasso delle forze del regime, e la scarsa volontà dei suoi soldati di sacrificarsi ancora per un regime che non solo si è macchiato di crimini inauditi, ma che non offre più niente.
Cosa succederà dopo?
L’operazione pare aver colto tutti di sorpresa. La Siria era da tempo uscita dalle priorità dell’agenda politica, ed era stata messa da parte anche dai media internazionali e regionali. Tra gli addetti ai lavori, e i siriani della diaspora, già se ne parlava come di un conflitto dimenticato. Certo si sapeva che il paese era tutt’altro che stabile, soprattutto dal punto di vista economico, ma si pensava anche che il regime di Bashar al Assad avesse più o meno la situazione sotto controllo.
Gli Stati arabi avevano già cominciato un processo di riavvicinamento, spinto dall’Arabia Saudita, durante il 2023, e soprattutto in seguito al terremoto che ha colpito la Turchia e il nord del paese in quell’anno. Entro maggio, la Siria era stata reintegrata ufficialmente nella Lega Araba. Intanto, Erdogan aveva gradualmente cominciato a usare parole più concilianti nei confronti del nemico Assad. Infine, il processo di normalizzazione si è esteso all’Europa. In questo caso il processo è stato guidato proprio dall’Italia e appoggiato da dieci paesi. Il 22 novembre, l’ambasciatore italiano è tornato a Damasco.
Non è facile prevedere il dopo. Se l’avanzata procederà rapidamente come nei giorni scorsi, i ribelli potrebbero arrivare presto anche a Homs, che a quel punto taglierebbe fuori il sud del paese e lascerebbe completamente isolate le regioni costiere.
Intanto, mentre Erdogan invita Assad a negoziare una soluzione politica, il regime promette battaglia, comunicando alla gente di Hama che la città sarà riconquistata. La minaccia però appare al momento poco credibile. L’Iran ha detto che nel caso ce ne fosse bisogno, sarebbe pronto a mandare altre forze. Hezbollah ha sostenuto che continueranno ad appoggiare le forze dell’esercito siriano. Ma in concreto appare molto remota la possibilità che arrivino forze fresche, e consistenti, che siano quelle del partito di dio libanese o quelle delle milizie sciite filo-iraniane in Iraq. La Russia sembra già pronta a defilarsi.
La Turchia, d’altra parte, che, pur non supportando o dirigendo direttamente l’attacco, ne era certamente informata, potrebbe essere interessata a togliere ancora territori alla regione dell’amministrazione autonoma amministrata dai curdi, anche conosciuta come Rojava, che però significherebbe entrare in collisione con le SDF alleate degli americani.
Diverse fonti suggeriscono che dopo la conquista di Homs le potenze regionali potrebbero insistere per una soluzione politica negoziata. Ma, intanto, si comincia a muovere anche il Sud, nelle regioni di Daraa e di al Sweida. La struttura di carta del regime siriano pare prendere fuoco da molti lati.
Ora in molti sperano che il regime di Damasco possa finalmente cadere.