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La prima tempesta di Susana Chávez Castillo, la donna cancellata due volte

di Raffaella Silvestri
tratto da “Domani” del 12 novembre 2024
 
La storia della scrittrice messicana, l’attivista che ha ispirato con i suoi versi Non una di meno, è il cardine delle riflessioni fatte negli ultimi anni sull’annientamento delle opere prodotte dalle donne, la soppressione della loro storia quando muoiono per violenza di genere. La sua opera non è mai stata pubblicata in vita e la sua morte la sopravanzava. Ora esce la raccolta delle sue 57 poesie a cura e tradotte da Concita De Gregorio
Cosa resta delle donne quando muoiono? E quando muoiono per mano degli uomini? La storia di Susana Chávez Castillo è il cardine di varie riflessioni fatte negli ultimi anni: la cancellazione delle opere prodotte dalle donne, la cancellazione della loro storia quando muoiono per violenza di genere e vengono quindi raccontate solo come vittime, come nomi femminili sospesi, bloccati nell’incantesimo orrendo della retorica sul femminicidio.
C’è poi il racconto del delitto, che prende il sopravvento. L’identità e la memoria delle donne uccise sbiadiscono in favore del true crime. Anche il luogo in cui questi femminicidi avvengono arriva a rubarsi qualcosa: da Garlasco a Brembate. E, naturalmente, gli assassini, a cui viene data molta, sempre troppa voce, sia voce diretta sia intesa come spazio mediatico, commenti di amici e parenti: erano sempre brave persone, non giudicateli solo per quello che hanno fatto.
 
Paradossale che un uomo, anche nel caso in cui uccide una donna, pretenda di essere sempre qualcos’altro, definito da tante cose, rivendichi la tua narrazione sfaccettata. E la ottiene: riesce a diventare anche altro perché resta in vita, naturalmente, e perché tante voci si levano per lui, che era tanto studioso, tanto bravo ragazzo, molto preso.
Questo meccanismo è più evidente nei racconti delle violenze sessuali (non ha ucciso nessuno, non è il caso che un episodio definisca la sua vita) ma è vero anche per i femminicidi. Nel migliore dei casi c’è un eccesso di energia impiegata per analizzare la psiche dell’assassino, per isolare lui come mostro o campione di qualche patologia psichiatrica («il narcisista maligno», sembra quasi un super-villain), mentre la realtà è che “lui” era solo uno fra i tanti che riconoscono come unico modo di entrare in relazione con una donna il dominio, la cancellazione, il controllo, la sottomissione.
Nel caso di Susana Chávez c’è una doppia cancellazione: dell’opera in vita (mai pubblicata) e della sua dignità di artista da morta, perché della sua morte finora si conosceva più che della sua opera.
 
Susana Chávez Castillo è nata nel 1974 in Messico, in una città di frontiera con gli Stati Uniti chiamata Ciudad Juarez. Juarez è un luogo di cui si può dire, senza temere diffide da parte del sindaco, che ospita anche una «comunità ignorante, retrograda, omertosa, eventualmente dedita alla commissione di crimini efferati», visto che è considerata la città più pericolosa al mondo ed è un centro di narcotraffico.
Negli anni ’90 a Juarez sono state aperte delle fabbriche esternalizzate dagli Stati Uniti, chiamate maquiladoras. Impiegavano soprattutto giovani donne, manodopera a basso costo e senza tutele. Nello stesso periodo, le donne venivano uccise in grandi numeri e in modi orrendi, mutilate in un modo preciso. Solo nel 1993 sono scomparse o state uccise 4.500 donne.
Quelle registrate come morte sono meno anche perché alcune fosse comuni sono state ritrovate solo nel 2016, altre non ancora rinvenute. Ci sono varie teorie sul perché queste donne venissero uccise: perché la presenza delle maquiladoras disturbava il narcotraffico? Al contrario, era la manodopera delle donne a essere vista come concorrenza sgradita da parte degli uomini?
Forse la crescente presenza delle donne nelle strade, nel paesaggio pubblico, che sempre si ha quando le donne iniziano a lavorare fuori casa, dava fastidio? La pagina Wikipedia dedicata a “Femminicidi di Città Juarez”, nella scheda riassuntiva sulla destra indica come cause: Robberygang warsrapeserial murders. E infatti sono sempre le stesse cause: granulari, all’apparenza scollegate, apparentemente ascrivibili alla voce omicidi. Come durata: 1993-presente.
 
Susana Chávez cresce in questo contesto e in questi anni, e diventa attivista. Per prima, o fra le prime, riesce a connettere i puntini, e cioè a delineare queste uccisioni come specifica persecuzione contro le donne. Crea il motto ni una mujer menos, ni una muerta más, successivamente ripreso in Argentina come nome del movimento Ni una menos nel 2015.
 
Nella postfazione alla pubblicazione di Prima Tempesta (Sur), il primo volume di poesie di Susana Chávez, Cristina Rivera Garza scrive che l’autrice «diagnostica bene il suo tempo quando conia il concetto di “non una di più”, stabilendo ciò che all’epoca era a malapena percepito e che oggi conosciamo non solo a Ciudad Juarez, ma anche nel resto del Messico e dell’America Latina». Cristina Rivera Garza, messicana, è autrice di L’invincibile estate di Liliana (Sur, 2023), un libro stupendo che parla della vita della sorella dell’autrice, Liliana, e del suo femminicidio, e che ha ricevuto il Pulitzer al memoir e all’autobiografia.
 
Il libro è stato molto letto dal vivo, come strumento di protesta contro i femminicidi negli ultimi anni e in Italia e nel mondo. Rivera Garza ha pubblicato l’opera di Susana Chávez negli Stati Uniti per la nuova casa editrice da lei diretta, Canal Press dell’Università di Houston, e pone l’accento sulla parola connessione: «la sua poesia vuole connettere: le parole con i corpi, i corpi con le esperienze, le esperienze con le lettrici».
Ma è soprattutto una connessione con il futuro: si ha l’impressione che Susana Chávez non ci tenesse a rientrare nei circoli intellettuali del tempo né sembra che abbia fatto molto per essere pubblicata, anche se sappiamo da una testimonianza che lo desiderava.
La connessione con il futuro è data dal fatto che «scrive per riuscire a sentire» e quindi creare un senso all’esperienza da ritrovare in seguito. Rivera Garza nota che la sua poesia fatta di «un linguaggio giocherellone, semplice e colloquiale. (…) scommetteva sulla collettività del linguaggio e sulla funzione sociale che la poesia avrebbe avuto prima o dopo».
 
Chi cerca nella poesia di Susana l’attivismo può rimanere parzialmente deluso: c’è molto amore, anche nelle sue quotidiane sofferenze: «Tanto e tanto dirti/ che ti amavo come una sorella/ che alla fine ci hai creduto/ e non è stato niente». C’è molta libertà, o desiderio di libertà, e qui l’esperienza quotidiana già si interseca con l’attivismo e il lettore capisce che forse ha trovato quello che inconsciamente cercava.
Ci sono intuizioni, concetti comprensibili nel futuro (La storia d’amore è la trappola). Il linguaggio della violenza spesso si mescola al linguaggio dell’amore, per esempio nella poesia Tramonto, dedicata a una persona (per Linda Escobedo), ho segnato le parole: ossa, delitto, clandestina, sciacallo, dissolta, intrappolata, rottura. E di nuovo mi ritrovo nelle parole di Rivera Garza che dice che Città Juarez (e la sua violenza) hanno creato Susana, ma che Susana è allo stesso tempo «l’imprevisto di Juarez», come si definisce lei in un verso.
Imprevisto anche perché non si è mai fatta fermare dalla violenza, «in una città in cui si viveva quasi sotto coprifuoco, Susana ha deciso di mantenere integra la sua vita: condividere i suoi testi, fare apertamente campagna contro la violenza di genere, andare nei suoi luoghi preferiti, uscire di notte. Scrivere e scrivere». Anche Susana Chávez, nel 2011, a trentasei anni, è stata uccisa.
 
Le poesie di Prima Tempesta – il titolo della raccolta è lo stesso del blog che l’autrice ha tenuto per anni – sono state tradotte in italiano da Concita de Gregorio, che ha curato il volume, e che nella prefazione scrive questa frase potentissima: «È una flebo di luce che entra nelle vene vive di una terra e di un tempo dove ogni cosa che sia donna muore».
Leggendo questo libro ho colto a un livello più profondo il senso della parola femminicidio, anche se ne scrivo e ho studiato molto. È un concetto così abnorme e osceno, come quello di genocidio, che la mente si rifiuta di accoglierlo del tutto. Delle donne morte restano le opere. Pubblicarle, leggerle, non è solo un gesto politico. Sono gesti che ci salvano, e ci permettono di esistere più pienamente. «Lei ha segnato la strada, per tutte. Le sue poesie, inoltre, sono magnifiche».