Così i Greci insegnarono la physis ai primi cristiani

 di Luciano Bossina 
tratto da “Avvenire” del 28 novembre 2024


Pubblichiamo alcuni passaggi dell'intervento dal titolo “Un cosmo senza physis?” che il filologo Luciano Bossina terrà sabato alle 15.30 a Torino nell'ambito della VII edizione del Festival del Classico.

Il dibattito pubblico logora le parole: e poche sembrano altrettanto logore, negli ultimi anni, quanto natura. Di ciò che sia naturale o innaturale, «secondo» o «contro natura», sembra che ciascuno conosca il segreto, e non ne mancano le declinazioni militanti. L’indagine sulla natura, del resto, ha un plurimillenario retroterra filosofico; ma quando se ne vogliano dedurre conseguenze morali e religiose gioverebbe esser consci, almeno alle nostre latitudini, di un singolare silenzio: nella Bibbia, di fatto, il termine non esiste. Un modo originale e illuminante per leggere l’Antico Testamento è di considerare il rapporto tra l’originale ebraico e la sua antica traduzione greca. È la traduzione che gli specialisti chiamano dei «Settanta», perché una leggenda vuole che a produrla siano stati sei traduttori scelti per ciascuna delle dodici tribù di Israele (= 72). Si trattò in realtà di un lungo processo, iniziato nella prima metà del III secolo a.C., quando il greco, nel pieno dell’Ellenismo, era diventato la lingua universale. È solo grazie a questa traduzione che l’Antico Testamento ha potuto diffondersi per il mondo e raggiungere l’importanza che ha avuto nella storia: senza questa traduzione – è stato detto – Roma e Londra sarebbero ancora pagane. Ogni traduzione mette però a contatto due sistemi linguistici e culturali difformi: per questo nel confronto tra l’originale e i «Settanta» noi riusciamo a confrontare mondo biblico e mondo classico, riconoscendo non solo quale valore avessero i vocaboli ebraici e greci all’altezza cronologica dei traduttori, ma anche gli scarti (concettuali e culturali) tra le due civiltà. E i silenzi, in questi casi, parlano.

Nella letteratura e nella filosofia greca il termine physis ricorre ovunque, e si carica di valori profondi e sempre mutevoli. È in particolare il cuore di una dialettica che ha segnato tutto il pensiero greco maturo: natura e cultura, natura e legge, physis e nomos. Eppure in tutto l’Antico Testamento i traduttori non hanno mai trovato un termine equivalente: dalla genesi del cosmo all’ultimo dei Profeti non hanno mai trovato una parola ebraica che si prestasse a essere tradotta con physis. Hanno trovato molta «legge», non hanno mai trovato «natura». In effetti, né l’insieme della creazione, né la forza che dirige, alimenta e governa la realtà, né le specifiche qualità che denotano un soggetto, e ne costituiscono, come ancora noi diciamo, la sua ‘natura’, vengono definite in ebraico con un termine corrispondente. Per indicare la qualità denotante di una persona, ciò che fa di un uomo ciò che egli è (o si sente), la lingua ebraica ricorre a una radice semantica ( tb‘) che significa «imprimere», mettere un sigillo, modellare. È l’esatto parallelo del nostro «carattere»: termine greco che indica l’impressione di uno stampo. Si tratta tuttavia di un esito dell’ebraico tardo, medievale, e comunque del tutto imparagonabile alla vastità semantica dei termini che in greco e in latino indicano la physis e la natura.

Dunque la «natura» nell’Antico Testamento non c’è. È rivelatorio che nei «Settanta» il termine ricorra soltanto nei libri non già tradotti dall’ebraico, ma composti direttamente in greco (come la Sapienza o il Quarto Libro dei Maccabei): sono opere di giudei, ma di giudei a tal punto ellenizzati da non scrivere più in ebraico. Che lì la parola compaia dimostra che appena ci si immergesse nella cultura ellenica, aggirare la physis diventava difficile. Un innesto allogeno: quegli stessi autori non l’avranno mai trovata nei testi dei loro padri. Il Nuovo Testamento, che pure è scritto in greco, conferma alla perfezione questa frattura. Potrà forse suonare straniante, ma la parola «natura» nei Vangeli non c’è. E nemmeno negli Atti degli Apostoli. Gesù non l’ha mai pronunciata. La sua ebraicità si misura anche su questo piano. Certo egli poteva salire su un monte e trasfigurarsi, trarre parabole dal mondo contadino, praticare un’articolata serie di prodigi: ma nessuno dei quattro evangelisti, nell’atto di scriverne in greco, ha mai pensato che la physis potesse entrare in gioco: nemmeno nei miracoli, che pure della natura sembrano l’infrazione. Per gli Stoici Dio era physis: per Giovanni è logos, luce, vita: ma natura no. E quando i discepoli si trovarono con Gesù su una barca in tempesta, e lui «sgridò il vento e i flutti minacciosi» sino a riportare il sereno, nessuno di loro pensò che il maestro sapesse governare gli eventi «naturali». Dio aveva creato «il cielo e la terra»: non la natura. Sarà semmai Paolo, cresciuto in terra ellenizzata e avviato all’apostolato internazionale, a recuperare il termine: ma proprio perché si tratta di un recupero posticcio, ha sempre nelle sue pagine un valore anodino.

La verità è che non si può dare, nella Bibbia, una teologia della natura. Abituati a due millenni di cristianesimo, noi non siamo più in grado di capire quale dissidio dovettero provare i teologi dei primi secoli: dovevano confrontarsi con una filosofia profana che faceva della physis il luogo geometrico di qualsiasi pensiero, che dell’uomo e del divino cercava di afferrare e definire la natura, ma non potevano trovare nulla nel loro testo sacro che li soccorresse. Questa è, a ben pensarci, la grande impresa dei cristiani: riuscire, nel dogma trinitario, a definire la natura addirittura trina del proprio Dio, senza poter mai citare un solo rigo della Scrittura che di quel Dio era l’annuncio. Come ci riuscirono? Li aiutò l’esempio dei più acuti giudei ellenizzati: coloro che avevano tentato di spiegare agli imperatori romani che l’idea giudaica del nomos divino poteva disciogliersi nell’idea greca della physis. Così il giudaismo entrava nell’orbita della filosofia ellenica, la contrapposizione si ricomponeva, i silenzi si risarcivano. Ma non era solo un’esigenza filosofica: era un modo per sopravvivere alle persecuzioni, dimostrare la propria adesione, anche intellettuale, all’impero, favorire un incontro tra popoli che per millenni si erano ignorati, e ora si combattevano. Così l’ebreo Filone insegnò ai cristiani a discutere coi pagani: usando una parola che Gesù non conosceva.