Clarice Lispector. La scrittrice assediata dalla malinconia

 tratto da Lucy sulla Cultura del 7 dicembre 2024

Si potrebbe far cominciare tutto da una fotografia in bianco e nero, un’immagine in cui spicca un abito. Un tubino chiaro, molto attillato e decorato da svolazzanti arabeschi scuri. Una mise estiva, in contrasto con il paesaggio di tetti e comignoli che si stende davanti al parapetto di un balcone – panorama che dice sì l’estate, ma un’estate del Nord. Immagine simbolo di un particolare momento della particolarissima vita di Clarice Lispector. Segno di un nuovo inizio per lei, sebbene la foto catturi un istante che poco racconta di un inizio.

Subito dopo l’abito, è il profilo di lei a campeggiare nella foto. Giusto accennato, enigmatico, a segno di un fascino inconfondibile, speciale nel suo mistero. Clarice tiene gli occhi socchiusi: sembra annusare l’aria nel tentativo di orientarsi e acclimatarsi in un’atmosfera che è tanto nuova, quanto a lei intimamente distante. Cerca di farsi scaldare dalla luce di un sole che è facile immaginare pallido, smorto, non squillante e radioso come quello del “suo” Brasile. In quell’affacciarsi, protendersi, la postura del corpo mantiene un ché di irrigidito, come si mantenesse in difesa, senza alcuna morbidezza di abbandono e fiducia. Altri dettagli del corpo dicono tensione: la mano, stretta al bordo di un vaso con forza tale da mostrare il gonfiore delle vene dilatate dal caldo. La bocca, contratta, un po’ imbronciata. Il viso, che così assorto e teso lo stesso è bellissimo, per quanto la smorfia dell’espressione dica disagio – e poca, pochissima felicità.

Un balcone da cui ammirare una luminosa giornata del Nord Europa. Clarice Lispector se ne sta lì, gli occhi con ostinazione socchiusi. Se resta immobile non è per lasciarsi immortalare dalla macchina fotografica; l’indugiare è piuttosto ascolto interiore di un tempo sospeso. Intermezzo tra fasi che si avvicendano nello scenario mutevole di Paesi diversi, luoghi abitati cambiando troppe volte. Paesaggi che mutano continuando a restare invariabilmente mai intimi, mai suoi.

Clarice Lispector, la più grande scrittrice in lingua brasiliana, in Europa è arrivata nel 1944, accompagnando il marito, Maury Gurgel Valente, diplomatico. Dopo un viaggio lungo ed estenuante, passando per Casablanca, Algeri, Lisbona, la coppia è approdata a Napoli, e lì è rimasta a vivere per due anni. Un tempo in cui sono stati relativamente felici: certo più che nelle successive destinazioni della loro vita nomade (nomadismo che è vincolo obbligato, date le plurime promozioni di carriera per lui).

Dal 1944 al 1951 Clarice Lispector è in Europa; dal 1951 al 1959 negli Stati Uniti. Lettere e brani di diari raccontano come dopo aver lasciato il Brasile, mai si trovi davvero bene in nessun posto. Nonostante scoperte, stimoli, incontri, in questo lungo periplo lontano da “casa” sempre a mancarle è l’entusiasmo. La assedia la saudade del Brasile, nel mentre i frequenti cambi di residenza minacciano la sua fragile tenuta psichica.

Traslocare (in media ogni due/tre anni), cambiare Paesi e case, significa per Clarice Lispector restare in bilico – ma in piedi – sul filo teso che la tiene legata al suo passato. Un tempo già quello intessuto di sradicamento. Il primo strappo, molto violento, risale alla primissima infanzia. Nata il 10 dicembre 1920 a Tchetchelnik, uno shtetl (villaggio abitato da ebrei) in Ucraina, Clarice con la famiglia è stata costretta a fuggire a seguito di un terribile pogrom antisemita perpetrato dai Russi. Salpata da Amburgo, la famiglia Lispector ha raggiunto il Brasile e si è stabilita prima a Maceió e poi nella città di Recife, nel nordeste del Paese. Una partenza drammatica, esilio obbligato e improvviso che da allora per sempre segna l’amore di Clarice Lispector per il Brasile, Paese che le darà non solo accoglienza e nazionalità, anche la  lingua in cui scriverà. Se pure non lingua madre, lingua che della madre fa le veci: a Recife Clarice bambina frequenta il Ginásio Pernambucano e lì svolge i suoi studi in yiddish, ma intanto già ha scelto il portoghese di Brasile per la sua voce.

Un secondo strappo, ancora più doloroso perché vissuto con la consapevolezza tumultuosa dell’adolescenza, per lei avviene nel 1935, a seguito della morte della madre (prostrata nella psiche e nel corpo dall’incancellabile ricordo della violenza del pogrom avvenuto a Tchetchelnik). Lui vedovo, loro orfane, padre e tre figlie Lispector da Recife traslocano a Rio de Janeiro. E qui, nella cidade maravilhosa da Clarice subito amatissima, trovata una pousada (pensione) nel bairro (quartiere) di Botafogo, poco più che ventenne lei si chiude a scrivere il suo esordio/capolavoro, Perto do coraçao selvagem (Vicino al cuore selvaggio, in Italia pubblicato da Adelphi nella traduzione di Rita Desti).

A Rio de Janeiro tornerà ad abitare solo nel 1959, negli anni trascorsi all’estero, quando possibile, ci tornerà in visita e, sempre da lontano, con l’impeto di un’innamorata, continuerà a sognare e vagheggiare la città. Nel mentre ognuno dei luoghi in cui si trova ad abitare diviene tassello di un’identità composita di scrittrice che nel frattempo va prendendo forma. Solchi in successione, trame di uno sradicamento il cui dissesto solo l’intima fedeltà al lavoro pensato e vissuto con devozione riuscirà a mitigare. Napoli, Roma, Berna, Washington: in ciascun posto nuovo in cui Clarice Lispector deve imparare a stare, lo scrivere agisce per lei da cassa di risonanza. Contenimento e cura, la scrittura è misura, ampiezza, radice di volta in volta ricostruita – così inverando quello “scrivere è tornare a casa”, adagio di Anna Maria Ortese, autrice con la quale Clarice condivide più di un tratto.

Stabilizzarsi nelle parole, intessere immagini con personaggi in uno stile splendido e in tutti i sensi nuovo (timbro, lessico, strutture di narrazione sono inediti, in Brasile come altrove) è trovare riparo dall’instabilità troppo mossa delle geografie.

Tra le molte frecce incandescenti al suo arco, Clarice Lispector conta anche la virtù del sapere guardarsi da fuori. Disarmata e umile, ogni volta tornando a interrogarsi sulla portata delle parole stesse. Un cammino progressivo, come dirà in Un soffio di vita, opera pubblicata postuma: “Scrivo molto semplice e molto nudo. (…) Scrivo come scrivo senza sapere come o perché – per fatalità di voce. Il mio timbro sono io” (…) “Per scrivere, prima mi spoglio delle parole. Preferisco le parole povere che restano”.

Nudità, autenticità. Come se anche all’interno della lingua Clarice Lispector facesse traslochi, per alleggerirsi di tutto quanto è innecessario. Spostarsi da se stessa ad altre forme di sé, senza trovare vera sosta, né mai stabile definizione.

Nonostante disterro (termine nel cui significato convergono sradicamento ed esilio), fortissima saudade e qualche difficoltà pratica, il periodo in Italia (tra il 1944 e il 1947) a Clarice regala anche dei bei momenti. A Napoli, come volontaria ha lavorato all’ospedale americano, lì prestando assistenza ai feriti di guerra brasiliani. Un mattino, in strada, mentre camminava sola, da un passante colpito dalla sua bellezza si è sentita dire: “È su donne come questa che facciamo affidamento per ricostruire l’Italia”. Complimento enfatico, quasi buffo, che Clarice ricorderà come il più bello ricevuto in vita. Lei convinta di essere agli antipodi dell’idea di costruzione – di ricostruzione tantomeno –, lei che mai sente di appartenere ad altro Paese che non sia il “suo” Brasile, da quell’essere scambiata per italiana trae motivo di massima autostima. L’identità come appartenenza a una geografia si pone del resto nel suo caso solo per traslato: perché brasiliana Clarice Lispector non lo è, bensì ha scelto di esserlo (famosa una vibrante lettera scritta nel 1942 a Getùlio Vargas, Presidente del Paese, per chiedere di essere naturalizzata brasiliana). Conseguenza di una sostanziale rimozione della sua origine ucraina, la radice brasiliana Clarice la “sposa” in nome di un patto inossidabile, nel cui nodo s’intrecciano radici innestate, acquisite, ma decise a priori e per sempre.

A Napoli, l’atmosfera della città, i colori di mare e cielo, la presenza nell’aria di lapilli di lava del Vesuvio, tutto è stato suggestione e incanto, sedimento di immagini che resteranno poi come memoria luminosa. Oltre a Napoli c’è stata Roma, lì dove Giorgio De Chirico ha fatto posare Clarice Lispector per un ritratto, e proprio nel mentre la dipingeva li ha raggiunti la notizia della fine della guerra.

Poi, come una scure, nel 1946 è piombata la notizia di un ulteriore trasferimento, causa nuovo incarico per il marito diplomatico, e in tutta fretta l’Italia è stata lasciata per la Svizzera (Berna). Nell’attimo immortalato nella fotografia, nell’espressione di Clarice Lispector mentre si affaccia sull’anonimo balcone pare di leggere tutto il suo disorientamento nel nuovo, nordico mondo. Lei protesa ma tesa: la fronte ampia lasciata scoperta dai capelli ben pettinati e fermati sulle tempie con le forcine, l’ovale affilato, gli zigomi alti di europea dell’Est (che, pur senza volerlo, è). Qualcosa di meno autorevole e meno indecifrabile di quanto non sia in altri suoi ritratti fotografici, e nella sua natura. Natura sempre “vicina al cuore selvaggio”, come recita il titolo del romanzo d’esordio che nel mentre lei approdava in Europa è uscito in Brasile, un’esplosione di bellezza e novità scagliata sul paesaggio scabro dell’ambiente letterario, brasiliano e non solo.

Gli sprazzi di luce trovati tra Napoli e Roma sono già lontani. Anziché dall’energia galvanizzante dell’immediato dopoguerra in Italia, ecco la coppia Lispector / Gurgel Valente sbalzata nel rigido clima di Berna. Per Clarice, un cambiamento dagli effetti rovinosi, sin da subito e in più di un senso. Effetto più grave, la perdita di un cane, animale domestico amatissimo che per ragioni sanitarie ha dovuto lasciare in affido a Napoli. Il cane si chiama Dilermando, muore poco dopo la separazione dai padroni, e Clarice lo rimpiangerà tutta la vita. Lo descrive come “un cane italiano ma con un muso brasiliano”, icona di quell’affinità “latina” (tra Italia e Brasile) il cui pensiero, nelle difficoltà della nuova vita, la strugge ma anche la rincuora.

Se in Italia, nonostante il Brasile le mancasse tremendamente, Clarice è comunque riuscita a trovare un modus vivendi, l’equilibrio di uno stare, a Berna senso di espatrio, nostalgia, lontananza si fanno presto acuti in modo insostenibile.

Lei tuttavia bendisposta, in principio: “Berna, pelo que eu estou vendo do terraço onde escrevo, é uma cidade encantadorinha, limpíssima” ha scritto all’arrivo in Svizzera in una lettera alle sorelle Tania ed Elisa, più grandi di lei, che sempre Clarice tiene aggiornate su tutto quanto accade (fuori e dentro). “Berna, per quel che vedo dal terrazzo da cui scrivo, è una città incantevole, pulitissima”. Poi, bastano pochi giorni perché prevalga stato d’animo opposto. La città è grigia, di più: plumbea. Nessun vestito basta a proteggere dal freddo umido e pungente, non un avvenimento che riesca a bucare la patina triste che ricopre ogni momento del giorno.

“È un vero peccato che io non abbia la pazienza per apprezzare una vita tanto tranquilla come quella di Berna” scrive di nuovo alle sorelle il 5 maggio 1946; “e il silenzio che c’è a Berna ! sembra che tutte le case siano vuote, senza contare la calma delle strade. Viene voglia di essere una mucca da latte e mangiare per tutto un pomeriggio fino al calar della sera un filo d’erba. Ma non si è quella mucca e si guarda lontano, come se potesse arrivare la nave che salva i naufraghi” (da La vita che non si ferma. Lettere scelte (1941-1975) a cura di Lisa Ginzburg, Archinto 2008). La meteoropatia gioca un ruolo primario: nel grigiore bernese, il lato più malinconico e saturnino del temperamento di Clarice prende il sopravvento. Lontani e già sfocati nel ricordo i vagabondaggi tra Posillipo e il vulcano, le fughe a Roma, sbiaditi gli istanti di contentezza, pause e diversivi dai tormenti del dispatrio. A Berna solo austeri palazzi, specchi dell’angoscia sottile che troppi pomeriggi interminabili procurano. Il marito durante il giorno è al Consolato, le ore vanno attraversate da sola. Un isolamento il cui malessere presto Clarice incomincia ad alleviare andando al cinema, o alla Biblioteca pubblica dove, tra le altre cose, per nutrire la mente e placare l’agitazione dei pensieri, studia il calcolo delle probabilità.

Tanti film: con la fine della guerra, dagli Stati Uniti arrivano pellicole a profusione. Il cinema è sollievo da un tedio che sempre più si fa strada nell’animo di Clarice, magma denso, come fosse mercurio di un grigio compatto al pari di quello che balugina nel cielo smorto.

Trame e trame in cui calarsi, e almeno per qualche ora dimenticare il contesto. Ma la malinconia assedia Clarice. “Assedio” è parola chiave: nel periodo bernese scrive il romanzo La città assediata (A cidade sitiada), la cui composizione fa da àncora di salvezza e da sponda a fronte di una depressione crescente. Romanzo claustrofobico, non incompiuto ma inconcluso, perché poco riuscito. Pagine nelle quali il segno inconfondibile della scrittura di Lispector risulta sbiadito, diminuito dai pochi guizzi che l’ambiente regala alla sua straordinaria fantasia di scrittrice. Se la città di Berna è (come lei stessa la definirà) “senza demoni”, è perché il grigiore neutralizza i fantasmi – tutto, dei fantasmi: anche la loro azione più feconda. Nella cappa di nordico grigiore, nostalgia e ansia, cristallizzate, ostruiscono il flusso della vena creativa.

Fedele a se stessa e con se stessa esigente, rigorosa, la malinconia Clarice Lispector si sforza comunque di convogliarla nell’immaginazione. Ancora alle sorelle: “A Berna nessuno sembra aver bisogno dell’altro, è evidente. Tutti sono laboriosi. Buffo, ma a pensarci bene, non esiste un vero luogo dove vivere. Tutto è terra altrui, dove gli altri vivono contenti”.

Costante sensazione di non appartenenza, mentre sempre più forte si fa la saudade dei paesaggi brasiliani, fulgidi di sole, smaglianti vita, immersi nella loro vitalità che sciaborda fragorosa in lunghi giorni sin dal primo mattino intensi e dolci.

Abitando a Napoli e pensandole da lì, le città di Rio de Janeiro o Recife erano sì distanti, ma secondo un grado di lontananza foriero di un dolore sopportabile. Pensare quei luoghi dalla Svizzera è diverso: la differenza di clima scava un vuoto che paralizza Clarice. Sentirsi bene a Berna le è impossibile. In una lettera all’amico più caro, lo scrittore Lúcio Cardoso: “la mia impazienza sa essere tanto acuta da farmi male, a volte. Non ho davvero approfittato dell’Italia, così come non saprei godere davvero di nessun luogo; sento tra me e tutto frapporsi qualcosa, come fossi una di quelle persone con gli occhi coperti da una garza bianca” (lettera tratta da Todas as cartas, traduzione mia). Vedere sfocato, ovvero il meno possibile, affidandosi piuttosto a un guardare interiore. Di lì, il senso di totale smarrimento.

Come sempre le succede, Clarice si aggrappa al lavoro, e a Berna concepisce dunque il romanzo più imperfetto e fragile tra i suoi, distante sia dalla meravigliosa armonia che era stata dell’esordio, sia dal secondo libro, O Lustre (Il lampadario), difettoso nella trama, ma che è un tripudio di parole. Per quanto la salvi, lavorare a La città assediata la sfibra e la consuma. Nell’ottobre del 1947 scrive alla sorella Tania di provare, dopo infinite riscritture, un sentimento di noia: noia persino della sofferenza che comporlo le ha procurato.

“Assediata” la città, assediata Clarice Lispector da un luogo che, soffocandola, la assedia. Molti altri libri verranno, ben più felici nella elaborazione e negli esiti: La passione secondo G.HAcqua vivaL’ora della stellaLegami familiariTutti i raccontiUn soffio di vita, per citarne alcuni. E tuttavia , un po’ come un “réculer pour mieux sauter”, come una parentesi di involuzione prima di spiccare di nuovo il volo (volo che si fa altissimo quando nel 1959, dopo il divorzio, con i due figli torna finalmente a stabilirsi nell’amata Rio de Janeiro) questa fase bernese racconta per contrasto, in chiaroscuro, tutta la magnetica forza della grande, grandissima scrittrice Clarice Lispector.