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Censis: italiani sempre più anti-occidentali e sempre meno colti. Effetto denatalità: i grandi patrimoni saranno concentrati in poche mani

tratto da “Il Sole 24 ore” del 6 dicembre 2024


Il capitolo «La società italiana al 2024» del 58° Rapporto sulla situazione sociale del Paese
 
Un’Italia continuamente e pervicacemente intrappolata nella “medietà”. Ma anche un Paese sempre più animato da sentimenti anti Occidente, con gravi carenze di tipo culturale. E alle prese con uno spettro inquietante: complice la denatalità e il costante invecchiamento della popolazione, in futuro i grandi patrimoni saranno concentrati in poche mani. Una sorta di imbuto della ricchezza.
Anche quest’anno il Censis racconta l’Italia e gli italiani e tra le righe del 58esimo Rapporto sulla nostra società, presentato oggi, venerdì 6 dicembre, non esita a ricorrere all’espressione «sindrome italiana». Detto in altri termini: il Paese si muove intorno a una linea di galleggiamento, senza incorrere in capitomboli rovinosi nelle fasi recessive e senza compiere scalate eroiche nei cicli positivi. L’Italia si flette come un legno storto e si rialza dopo ogni inciampo, senza ammutinamenti. Ma la spinta propulsiva verso l’accrescimento del benessere si è smorzata. Negli ultimi vent’anni (2003-2023) il reddito disponibile lordo pro-capite si è ridotto in termini reali del 7,0%. E nell’ultimo decennio (tra il secondo trimestre del 2014 e il secondo trimestre del 2024) anche la ricchezza netta pro-capite è diminuita del 5,5%. Con il ceto medio che si sfibra (i redditi sono inferiori del 7% rispetto a vent’anni fa) guadagna terreno l’antioccidentalismo e si incrina la fede nelle democrazie liberali, nell’europeismo e nell’atlantismo: il 66% degli italiani incolpa l’Occidente dei conflitti in corso e solo il 31% è d’accordo con il richiamo della Nato sull’aumento delle spese militari.
 
Tutto questo accade mentre è in atto una “mutazione morfologica” della nazione (l’Italia è prima in Europa per acquisizioni di cittadinanza: +112% in dieci anni). Di qui, la domanda: siamo preparati dal punto di vista culturale? Sembra proprio di no. Nel Paese degli ignoranti, per il 19% Mazzini è stato un politico della prima Repubblica e per il 32% la Cappella Sistina è stata affrescata da Giotto o da Leonardo. Nel complesso, guardano anche alle tendenze dell’economia, i conti nel sistema Italia non tornano: più lavoro e meno Pil. E poi ancora carenza di personale, ipoteche sul welfare.
La crescente avversione ai valori tradizionali, dalla democrazia all’europeismo, all’atlantismo
E grandi incognite sul futuro, ancora più preoccupanti in quanto puntualmente accompagnate dalla sensazione che le cose, in fondo in fondo, non cambieranno. L’85,5% degli italiani ormai è convinto che sia molto difficile salire nella scala sociale. All’erosione dei percorsi di ascesa economica e sociale del ceto medio corrisponde una crescente avversione ai valori costitutivi dell’agenda collettiva del passato: il valore irrinunciabile della democrazia e della partecipazione, il conveniente europeismo, il convinto atlantismo.
 
Il tasso di astensione alle ultime elezioni europee ha infatti segnato un record nella storia repubblicana: il 51,7% (alle prime elezioni dirette del Parlamento europeo, nel 1979, l’astensionismo si fermò al 14,3%). Per il 71,4% degli italiani l’Unione europea è destinata a sfasciarsi, se non interverranno riforme radicali. Il 68,5% ritiene che le democrazie liberali non funzionino più. E il 66,3% attribuisce all’Occidente (Usa in testa) la colpa dei conflitti in corso in Ucraina e in Medio Oriente. Il 38,3% degli italiani si sente minacciato dall’ingresso nel Paese dei migranti, il 29,3% prova ostilità per chi è portatore di una concezione della famiglia divergente da quella tradizionale, il 21,8% vede il nemico in chi professa una religione diversa, il 21,5% in chi appartiene a una etnia diversa, il 14,5% in chi ha un diverso colore della pelle, l’11,9% in chi ha un orientamento sessuale diverso. Insomma, sottolinea il Censis, se il ceto medio si sfibra, il Paese non è più immune al rischio delle trappole identitarie.
 
Il Paese degli ignoranti
La mancanza delle conoscenze di base rende i cittadini più disorientati e vulnerabili. Per quanto riguarda il sistema scolastico, non raggiungono i traguardi di apprendimento in italiano: il 24,5% degli alunni al termine delle primarie, il 39,9% al termine delle medie, il 43,5% al termine delle superiori (negli istituti professionali il dato sale vertiginosamente all’80,0%). In matematica: il 31,8% alle primarie, il 44,0% alle medie e il 47,5% alle superiori (il picco si registra ancora negli istituti professionali, con l’81,0%). Il 49,7% degli italiani non sa indicare correttamente l’anno della Rivoluzione francese, il 30,3% non sa chi è Giuseppe Mazzini (per il 19,3% è stato un politico della prima Repubblica), per il 32,4% la Cappella Sistina è stata affrescata da Giotto o da Leonardo, per il 6,1% il sommo poeta Dante Alighieri non è l’autore delle cantiche della Divina Commedia. Mentre si discute di egemonia culturale, per molti italiani si pone invece il problema di una cittadinanza culturale ancora di là da venire (del resto, per il 5,8% il «culturista» è una «persona di cultura»). Nel limbo dell’ignoranza possono attecchire stereotipi e pregiudizi: il 20,9% degli italiani asserisce che gli ebrei dominano il mondo tramite la finanza, il 15,3% crede che l’omosessualità sia una malattia, il 13,1% ritiene che l’intelligenza delle persone dipenda dalla loro etnia, per il 9,2% la propensione a delinquere avrebbe una origine genetica (si nasce criminali, insomma), per l’8,3% islam e jihadismo sono la stessa cosa.
 
L’economia e i conti che non tornano
È alto il rischio che, dopo la vigorosa ripresa post-pandemia, peraltro sostenuta dall’indebitamento pubblico, le prospettive di crescita dell’Italia si vadano rapidamente annuvolando. I conti, rileva il Censis, non tornano. Nonostante i segnali non incoraggianti circa l’andamento del Pil, il numero degli occupati si è attestato a 23.878.000 nella media dei primi sei mesi dell’anno, con un incremento di un milione e mezzo di posti di lavoro rispetto all’anno nero della pandemia e un aumento del 4,6% rispetto al 2007. Ma la distanza tra il tasso di occupazione italiano (siamo ultimi in Europa) e la media europea resta ancora significativa: 8,9 punti percentuali in meno nel 2023. Se il tasso di attività dell’Italia fosse uguale a quello medio europeo, potremmo disporre di 3 milioni di forze di lavoro aggiuntive, e se raggiungessimo il livello europeo del tasso di occupazione, supereremmo la soglia dei 26 milioni di occupati: 3,3 milioni in più di quelli registrati nel 2023.
 
La sfida del welfare
Le sfide riguardano la sostenibilità del sistema nel futuro, anche e soprattutto sul piano economico. E il welfare è in primissima fila. Tra il 2013 e il 2023 si è registrato un aumento del 23,0% in termini reali della spesa sanitaria privata pro-capite, che nell’ultimo anno ha superato complessivamente i 44 miliardi di euro. Al 62,1% degli italiani è capitato almeno una volta di rinviare un check up medico, accertamenti diagnostici o visite specialistiche perché la lista di attesa negli ambulatori del Servizio sanitario nazionale era troppo lunga e il costo da sostenere nelle strutture private era considerato troppo alto. Al 53,8% è capitato di dover ricorrere ai propri risparmi per pagare le prestazioni sanitarie necessarie. Sul fronte previdenziale, il 75,7% pensa che non avrà una pensione adeguata quando lascerà il lavoro. In particolare, è l’89,8% dei giovani ad avere questa certezza.
 
L’imbuto dei patrimoni
Allo stesso tempo, conclude il Censis nel nuovo rapporto, si profila all’orizzonte un imponente passaggio intergenerazionale di ricchezza. Uno degli effetti nascosti della denatalità che da molti anni preoccupa il Paese è che, a causa della prolungata flessione delle nascite, il numero degli eredi si riduce, quindi in prospettiva le eredità si concentrano. Oggi le famiglie della «generazione silenziosa» (i nati prima della Seconda guerra mondiale) e del baby boom (i nati tra il dopoguerra e i primi anni ’60) detengono insieme il 58,3% della ricchezza netta delle famiglie. In attesa ci sono parte della «generazione X» (i nati tra il 1965 e il 1980), i millennial e la «generazione Z» (i nati negli ultimi decenni dello scorso secolo e nei primi anni del nuovo millennio). Quale sarà l’effetto psicologico su coloro che sanno di essere destinatari di un atto di successione? Forse una ridotta propensione al rischio imprenditoriale, compressa dalle aspettative dei potenziali rentier. Con inevitabili conseguenze in termini di rallentamento della crescita.