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Selfie, o il diritto al narcisismo

Reclamare la nostra immagine significa reclamare un futuro.


di Giorgiomaria Cornelio
tratto da Il Tascabile del 29 ottobre 2024 

Giorgiomaria Cornelio ha co-fondato l'atlante Navegasión, inaugurato con il film "Ogni roveto un Dio che arde”. È poeta, curatore del progetto ”Edizioni Volatili”, e redattore di “Nazione Indiana”. Suoi interventi sono apparsi su “Le parole e le cose”, “Doppiozero”, “Antinomie”.

Tutto inizia da due autoritratti. Il primo mostra un uomo con l’aspetto del Cristo, che ci fissa imperturbabilmente, avvolto in un abito sontuoso e bordato di pelliccia. Accanto al ritratto, un’iscrizione posta dall’artista: “Io Albrecht Dürer di Norimberga, all’età di ventotto anni, con colori appropriati ho creato me stesso a mia immagine”. È l’inizio del XVI secolo, e quella di Dürer diventerà una delle opere più note del Rinascimento. Il secondo autoritratto mostra invece due giovani ragazze bionde che sorridono mentre si stanno scattando una fotografia con il cellulare nel mezzo di una festa. È il 2006, ma la vera didascalia dell’autoritratto giungerà solo nel 2017, con un “tweet”: “11 anni fa oggi, Io e Britney Spears abbiamo inventato il selfie!”. A twittare è Paris Hilton.

Cosa hanno a che fare queste due opere così diverse, che fanno schiantare insieme tempi e modalità espressive apparentemente inconciliabili? Secondo Matt Colquhoun, autore di un saggio, Narciso, in cui le esamina entrambe come creazione emblematiche, tanto Dürer quanto Hilton stanno reclamando il loro diritto al narcisismo. Quel diritto che Jacques Derrida, in Droit de regards, articola così: “si può amare solo se stessi. […] Il diritto al narcisismo va ristabilito, ha bisogno di tempo e di mezzi. Più narcisismo. Sempre più narcisismo”. A un primo impatto, questo diritto sembrerebbe un’ulteriore aberrazione, un cocciuto insistere su una delle grandi piaghe della contemporaneità, che ammorba ogni forma comunicativa. Ciononostante, quando analizzata fino in fondo, la questione del narcisismo spalanca di fronte a noi l’immagine di un processo radicalmente trasformativo, un’ecologia dei “sé” che suggerisce come il selfie possa costituire una fondamentale pratica di iniziazione al mondo. Per capire ciò, bisogna però partire da più lontano.


Osservando per la prima volta la sua immagine riflessa in uno specchio d’acqua, Narciso non si riconosce. S’innamora di se stesso proprio in virtù di questo primo distacco, di una dissomiglianza che lo acceca. Quando arriva alla verità, oramai è troppo tardi: impossibilitato a raggiungere quell’immagine, si lascia morire. Al suo posto, spunterà il fiore che proprio da Narciso prende il nome. Trasformazione, dissomiglianza accecamento… Più ancora che l’amore, è questo non-riconoscersi, questo tentativo di afferrare un’immagine che sfugge a marcare il mito del giovane Narciso, e a farne una figura indissolubilmente legata alle arti. Fu Leon Battista Alberti, nel De pictura, a dire che “quel Narcisso convertito in fiore” fosse l’inventore della pittura: “che già ove sia la pittura fiore di ogni arte, ivi tutta la storia di Narcisso viene a proposito”. Come se l’atto di tracciare segni, di fissare ciò che si dilegua fosse il principio della creazione artistica, segnandone da subito il destino di spettralità e di morte, ma anche la necessità di trasformazione continua. In principio è la rovina. Ogni segno implica un accecamento, il momento in cui la mano che traccia deve abbondonare la vista dell’oggetto ritratto, e annegare nell’oscurità della matita, del pennello, di una memoria non immediata, in cui spesso si sprofonda – proprio come Narciso. Ciò che ritraggo non esaurisce l’oggetto ritratto. Tutto ciò vale soprattutto nel self-portait, dove l’immagine che più dovrebbe appartenerci è condannata a non coinciderci, a restituirci una discrepanza.

Leggiamo in Derrida che “rovina è ciò che accade all’immagine a partire dal suo primo sguardo. Rovina è l’autoritratto, il viso fissato come memoria di sé, ciò che resta o ritorna come uno spettro non appena al primo sguardo su di sé una raffigurazione si eclissa. […] La rovina è l’esperienza stessa” (Memorie di cieco. L’autoritratto e altre rovine). Eppure, non è forse questa impossibilità di esaurire l’immagine di sé la potenza dell’autoritratto, e la sua forza trasformativa? Nell’iscrizione dell’ Autoritratto con pelliccia, Albrecht Dürer dice volutamente “ho creato me stesso”, e non dipinto “così come sono davvero”. Emerge già in lui una condizione che caratterizzerà nei secoli a venire lo spirito dell’autoritratto: l’atto ciò di ricrearsi – di rimettersi al mondo – attraverso il processo artistico. Ciò è evidente passando in rassegna le altre opere di Dürer, come l’Autoritratto con fiore d’eringio o l’Autoritratto con guanti, dipinto due anni prima di quello con pelliccia. Al di là del proposito di presentarsi come membro di un’aristocrazia spirituale, l’intensità delle variazioni inscenate da un’opera all’altra restituisce il tentativo dell’artista di non sigillarsi in un volto definitivo, e di includere altri sé. Come nota Matt Colquhoun, i cambiamenti nell’aspetto dell’artista nell’Autoritratto con pelliccia potrebbero essere “il risultato di una migliorata abilità pittorica, oppure – come alcuni sostengono – potrebbero essere il frutto di un’invenzione. Dürer non somiglia quasi più a sé stesso, al vero Dürer. Come se avesse sovrapposto un filtro cristologico al proprio volto, il ritratto del 1500 non rappresenta né Dürer né Gesù ma una figura intermedia e immaginaria”.

Osservando per la prima volta la sua immagine riflessa in uno specchio d’acqua, Narciso non si riconosce.
Da Dürer a Paris Hilton, questo spazio intermedio e immaginario è probabilmente lo spazio proprio di ogni ritratto – la sua condizione d’esistenza. Peraltro, è interessante notare come Colquhoun scelga l’espressione filtro cristologico per indicare questa zona d’indecisione – “né Dürer né Gesù” – rappresentata nel ritratto, come si trattasse di un’immagine ricavata in un’app per modificare il viso. Dalle lenti che scegliamo di utilizzare per fare una fotografia fino ai filters veri e propri proposti da Instagram, Tiktok o FaceApp, molto dell’autoritratto dipende dai filtri che adottiamo. O meglio: la potenza del selfie è sempre potenza del filtro.

Filtri alieni
Il primo filtro è la palpebra. La condizione del vedere è collegata necessariamente a questa momentanea cecità: sbattere le palpebre per distribuire il liquido lacrimale ed evitare così che la cornea si secchi. Lo facciamo dalle quindici alle venti volte al minuto, senza neanche accorgercene. Questo “filtro” permette di vedere e vederci: non ci sarebbe sguardo senza il suo bagno d’oscurità. Allo stesso tempo, lo sbattere di palpebre, il “battito di ciglia” è stato uno dei primissimi ostacoli del ritratto fotografico. Come è noto, i tempi di esposizioni richiesti dalla fotografia ai suoi esordi erano lunghissimi, e ciò obbligava le persone a mantenere un’immobilità particolarmente faticosa per produrre un buon ritratto. Nel 1839, Daguerre appuntava che “la mobilità della figura umana presenta difficoltà (che necessitano essere superate) per ottenere completo successo nei ritratti”; ciò valeva soprattutto per gli occhi. Come racconta Colquhoun:

Anche se in studio si potevano fissare teste e corpi con piccole strutture – marchingegni che sembravano più strumenti di tortura medievali che accessori di una nuova tecnologia – gli occhi delle persone tendevano a muoversi. Come Daguerre aveva già dimostrato, tutto ciò che si muove durante un’esposizione prolungata difficilmente apparirà nella foto finale e, per quanto un fotografo potesse insistere, nessuno riusciva a tenere gli occhi aperti per dieci lunghi minuti di esposizione. Fu qui che il ritratto fotografico incontrò il suo vero nemico: il battito di ciglia. Grazie alle sue irresistibili intrusioni, in molti dei primi ritratti le persone hanno gli occhi vitrei o, in alcuni casi, sembrano non avere gli occhi. Tanti fotografi addirittura consigliavano ai loro soggetti di chiuderli, pensando inspiegabilmente che ciò li avrebbe fatti sembrare un po’ meno morti. Altri optavano per dipingere dei bizzarri occhi.

Nonostante la drastica riduzione dei tempi di esposizione, che dal dagherrotipo arriva all’istantaneità del selfie scattato con la telecamera interna del cellulare, il fantasma continua in qualche modo a infestare i nostri ritratti, le nostre immagini (phantasmata). Non più soltanto nella foto “mossa”, ma nell’esercizio di spettralità prodotto dal moltiplicarsi di lenti e filtri con quali interveniamo sul nostro aspetto, proseguendo a “dipingere” altri occhi, producendo “allucinazioni persistenti di altre possibilità di esistenza” (Narciso). Potremmo dire che la mobilità della figura umana di cui parla Daguerre – quell’incessabile sbattere di palpebre – indica ancora oggi una resistenza al ritratto assoluto: è un sussulto che fa tremolare la nostra immagine. Qualcosa, in noi, sempre si muove, non permane in un’unica identità, ci “fantasma”: fa di noi forme ininterrottamente rinnovate.

È qui allora che l’esercizio del selfie comincia a rivelarsi come scenario collettivo di iniziazione al mondo. Fin dal suo primissimo esempio – l’autoritratto fotografico realizzato da Robert Cornelius nel 1839 – scattarsi una fotografia richiede di venire a patti con uno sfasamento, ritrovarsi in una non-coincidenza tra noi e noi stessi. Contro ogni evidenza forensica, in fotografia quasi sempre non ci assomigliamo – ci riconosciamo altri. “Riconoscersi” scrive a tal proposito François Noudelmann, “è riconoscere l’inconvenienza a se stessi, accettare la discordanza e arrischiarsi allo scarto annichilente a costo di perdervisi, di ritrovarsi” (Image et Absence). Perdersi e ritrovarsi: movimento iniziatico che stacca la nostra immagine da due superstizioni moderne legate al controllo.


La prima è quella di un’identità fissa: “siamo questo e basta”. La fotografia, selfie dopo selfie, ci dice invece che è il nostro corpo è in trasformazione – che transitiamo da una posa e l’altra, da un corpo all’altro; che non siamo mai davvero del tutto in carica. Come nei versi magnifici di Antonella Anedda: “ogni sette anni si rinnovano le cellule / adesso siamo chi non eravamo./ Anche vivendo – lo dimentichiamo – / restiamo in carica per poco” (Historiae). Questo sentimento serba però una potenza ecologica: dismette la centralità del possesso umano, ci dice che non siamo padroni di nulla, ma piuttosto una cosa tra le altre – in relazione con le altre, e con le loro trasformazioni.

La seconda superstizione legata al controllo è quella che non possiamo sfuggire alle immagini che riceviamo, che in qualche modo gli altri hanno prodotto su noi e attraverso noi. Proprio perché diffusa ovunque, la minaccia della fotografia intrattiene sempre un rapporto con la liberazione di altri possibili. Lo spiega Colquhoun: “è il potenziale insito nell’onnipresenza sociale e nell’accessibilità della fotografia. Anche se gran parte della nostra comprensione del mondo moderno ci raggiunge attraverso le immagini, siamo consapevoli di poterle generare autonomamente, di distaccarci da quelle che riceviamo e, invece, crearne altre nostre” (Narciso). Ecco perché l’autoritratto di Britney Spears e Paris Hilton è un’opera emblematica della contemporaneità: esso riconosce al selfie la potenza di reclamare un’immagine di noi diversa da quella che ci viene gettata contro, tanto nei tabloid quanto negli album di famiglia. Rovesciando la catastrofe estetica del ritratto generalista, della sintesi generazionale (“la vostra è una generazione tremenda, così fatta”), il selfie, se non moralizzato, ci chiama a reagire, a produrci in una contro-cultura antidotale alla devastazione che abbiamo attorno.

Perdersi e ritrovarsi: movimento iniziatico che stacca la nostra immagine dalla superstizione moderna del controllo.
Potenza sempre adolescenziale dell’immagine che non fa mai in tempo a venire a maturità, esattamente come le tecnologie che la veicolano; ma anche strumento imprescindibile di iniziazione, che in molti rivendicano in maniera molto più avventurosa di quanto di solito emerga dalla visione superstiziosa del narcismo generazionale. Basta fare un giro tra i trend più “weird” della rete, analizzando i molteplici procedimenti con cui soggettività altrimenti marginalizzate riescono a generare uno spazio di espressione proprio attraverso il modo in cui veicolano e modificano la propria immagine. Ecco: il selfie oggi ci permette di filtrare quello che di noi vogliamo lasciare trapelare, di usare i filtri che preferiamo, che riteniamo più appropriati per rifarci un’altra natura, estranea a quella che ci viene attribuita in maniera automatica. Siamo altrove, transitiamo sempre, mutiamo forma. Ci ricreiamo: come con Dürer e il suo “filtro cristologico”.

È qui la magnifica ossessione: la nostra immagine va reclamata, e insieme non ci appartiene mai del tutto, mai in maniera autenticamente compiuta. Umiltà della fotografia, ma anche suo dono centrale. Ci dispossessa di noi, e allo stesso tempo ci fa “ritrovare” attraverso una pratica di narcisismo extraterrestre. Vedersi davvero significa “vedersi altri”, entrare in contatto con quello che il filosofo Timothy Morton chiama un “non-te” in te: “quello che definiamo comunemente narcisismo è la forma minimale di questo essere in relazione con l’alieno-in-me” (Ecologia oscura). Questo procedimento è tanto più interessante quanto più si addentra nei pericoli del “consumismo”. Facciamo un esempio: un selfie su Instagram viene visto come una “degradazione” dell’arte del ritratto, una sua mercificazione. E tuttavia, il potenziale è proprio qui: un selfie postato su Instagram ci degrada, ci fa “scemare in altezza” (degradare), ci deprime a livello delle cose, ci permette di stare in nuova relazione con loro. Passando in rassegna il feed di Instagram, scorgiamo sorprendenti traiettorie di incontro e urto, forme di relazione “stranamente” erotiche: la copertina di un libro thriller, un animale da compagnia, uno slime, un frutto esotico, un paio di addominali ben oliati, la riproduzione di un’incisione rinascimentale, e in mezzo a tutto “noi” – il nostro ritratto (che a ben vedere è dato anche dall’unione di queste diverse cose).

Ciò avviene in maniera più radicale nelle “storyes”, che infatti sono maggiormente impiegate rispetto ai post, soprattutto dalle nuove generazioni di utenti. Le storyes montano insieme video, meme e frammenti fotografici, li fanno urtare tra loro e poi in un attimo svaniscono nel nulla – in uno sbattere di palpebre. Le storyes intessono una gigantesca narrazione collettiva che si dà da una parte come fuga e spettralità (“this story is no longer available”), e dall’altra come dialogo alieno ed erotico con un ambiente molto più ampio di quello circoscritto nel solo recinto umano. Scrive Dominic Pettman:

oggi l’ecologia dei media costituisce una parte profonda e ineluttabile dell’ecologia libidinale, anche se proprio questi media operano per farci pensare a tutt’altro. In effetti, il mediascape è la nostra via d’accesso primaria a una concezione di ambiente più ampia, che supera il contesto vicino e diretto nel quale siamo inseriti. […] Siamo creature incarnate che formano un continuum con un reticolato meta-naturale di fenomeni nidificati cui diamo fugace rifugio (atomi, sostanze chimiche, impulsi, istinti, sensazioni).

Un selfie su IG, degradandoci, ci mette nella condizione di apprezzare l’occulto traffico delle cose, il loro mormorio, la potenza agente della materia che ci attraversa, e di cui quasi mai siamo davvero padroni. Sembra bizzarro affermarlo, ma la lezione del “feed” è diversa dal facile moralismo, o dall’invito a una crociata iconoclasta (“distruggiamo tutti i social con i loro falsi idoli”): abbiamo perso il posto centrale che credevamo di avere. Siamo depressi, siamo inevitabilmente melancolici. E forse è un bene.

Malinconie
Quando Albrecht Dürer realizza la sua incisione più famosa, Melencolia I, sono passati quasi quattordici anni dall’Autoritratto con pelliccia. Datata 1514, Melencolia I marca una grande distanza dai ritratti giovanili. Il processo di consolidazione dell’Io, a cui l’influenza di Lutero aveva fornito una spinta imprescindibile verso quello che poi finirà per diventare l’etica dell’individualismo protestante e lo spirito del capitalismo, pone a Dürer una serie di interrogazioni che incidono la sua riflessione artistica. “Con i suoi autoritratti giovanili”, Dürer “aveva affermato la nuova concezione europea dell’io”; in maturità, “mentre la supremazia dell’individuo si consolidava culturalmente – anche grazie alla sua influenza artistica -, l’arte di Dürer diventava sempre più cupa e malinconica, perfino pessimistica, rispetto a questa nuova concezione dell’io e del suo posto nel mondo” (Narciso). Pur contenendo altre figure, Melencolia I, questo enigma irrisolvibile affrontato da Camerarius e Vasari, da Panofsky e Saxl, da Yates e innumerevoli altri studiosi e appassionati, è considerato una specie di autoritratto spirituale di Dürer, una forma di interrogazione sul processo artistico che spinge il narcisismo verso quella dimensione – quello scemare tra le cose – che è la sua potenza trasformativa.


Mai come in questa incisione il ritratto è dato dalla concatenazione attiva tra oggetti, segni e figure: angeli sorridenti oppure tristi, putti, pipistrelli serpentati, cani smagriti, bilance, attrezzi da orefici e falegname con implicazioni biografiche e alchemiche, macine, comete, scale a pioli che, come in uno strano sogno di Giacobbe o di moderna allucinazione dreamcore, conducono fuori dal bordo; e poi ancora quadrati magici, paesaggi raggelati un attimo primo di essere travolti da un’onda, volti occultati tra le linee che richiedono all’osservatore di mutare continuamente il punto di osservazione, di inclinare il proprio sguardo. La concatenazione innesca sentieri di lettura costantemente biforcuti, dove l’iniziale secchezza dell’incisione è bagnata continuamente dall’umidore delle sue tante interpretazioni, non di rado in aperta contraddizione. Melencolia è, prima di tutto, questo stato di consegna all’ambiguità delle cose; un’ambiguità “pervasiva” che fa di essa “un’opera d’arte postmoderna realizzata nel sedicesimo secolo”.

Ad affermarlo è David Ritz Finkelstein, scienziato e professore di fisica a cui si debbono alcuni dei contributi più importanti sul funzionamento dei buchi neri. È curioso notare, come fa Carlo Rovelli, che “a capire l’aspetto prospettico dell’orizzonte dei buchi neri sia stato un fisico teorico affascinato da Albrecht Dürer”, che proprio a Melencolia I ha rivolto un attentissimo studio, Manifesto della melanconia (recentemente pubblicato in Italia), in cui il mistero dell’incisione diventa un modo per ribadire ciò che era già covato nell’“aspetto prospettico” del Rinascimento, ossia il suo implicito relativismo, l’impossibilità, per quanto agognata, di raggiungere una verità o mathesis universale. Passando in rassegna tutti gli elementi di Melencolia I, anche quelli profondamente occultati (come i tanti volti nascosti nell’ottaedro), Finkelstein segue Dürer, ne tallona ogni spostamento, ogni variazione del tratto, ogni errore “ragionato” o indizio del puzzle, arrivando ad abbracciare come forma metodologica la scomposizione dei punti di vista adottata dall’incisore. “Oggi, come già per Vico, la verità è costruita, e non scoperta” scrive il fisico, e questo carattere di fabbricazione e menzogna, di speculazione e perpetuo ricrearsi delle verità è inaugurato non soltanto dal messaggio filosofico di Melencolia I, ma proprio dalla materia dell’incisione, dai calcoli e dagli elementi più reconditi che contribuiscono a creare il mistero e l’equivocità di questo “autoritratto” spirituale. Per Finkelstein l’aspetto meno ambiguo dell’incisione è certamente la sua ambiguità:

Dürer ci dice chiaramente che non possiamo conoscere nulla in modo chiaro: l’ottaedro è un romboedro tronco con un asse verticale, o una lastra inclinata verso l’orizzonte; ci sono quattro facce subliminali nell’ottaedro, o nessuna; la città sta per essere distrutta, oppure no; l’angelo è triste o è sorridente; il demone è buono oppure cattivo; la casa ha finestre o non ne ha; la melanconia è la tristezza ispirata dall’inaccessibilità dell’assoluto, o una frenesia creativa ispirata dall’influsso di Saturno, o lo sgomento causato dall’uscita del mondo celeste dal proprio asse. Quello che vediamo dipende da noi, e da dove guardiamo.

Quello che vediamo dipende da noi, e da dove guardiamo. Melencolia I mette alla prova la risolutezza dei nostri codici interpretativi, mischiando tanto le facoltà della psiche umana (mens imaginatiomens ratio e mens contemplatrix) quanto gli ordini gerarchici tra mondi. Questo autoritratto porta il narcisismo all’estremo del suo specchiamento nell’oscurità, in uno sprofondare nell’abisso dell’incerto in cui l’identità si volatizza, si dissolve, si distribuisce nel conglomerato di materie differenti. È l’espressione dell’influsso melancolico: quella degradazione a livello delle cose che però, mettendo in crisi l’assolutezza dell’individualismo, ci restituisce una promessa di convivenza ecologica con tutto ciò che non è immediatamente “umano”. Sotto l’influsso melanconico “l’unità dell’io sembra scomporsi in una molteplicità di attori che conducono ciascuno il proprio gioco” commenta Jean Starobinski nell’Inchiostro della melanconia, un lungo trattato dove il medico e scrittore ginevrino ripercorre la storia dei trattamenti per la malinconia. Apprendiamo così che nell’influsso melancolico stanno mischiati tanto il pericolo quando la risorsa: tutto dipende dalla concentrazione di questo veleno medicinale.

Medici e filosofi hanno a lungo attribuito il malanno saturnino alla “bile nera”, una specie di fuoco oscuro, di colla limacciosa, “di catrame vischioso e freddo” che “invadendo tutte le reti dell’organismo, ostruisce il corso degli spiriti vitali”. Il veleno melanconico si tramuta di frequente in acedia, “gravezza, torpore, assenza di iniziativa, disperazione totale riguardo alla salvezza”. Ugualmente, una rancida disperazione sembra invadere oggi molti dei discorsi sul futuro, facendo dell’acedia un turbamento sintomatico della nostra epoca – esattamente come l’aberrazione narcisistica del selfie. Potremmo anzi dire che questi due fenomeni si parlano: che rispondono entrambi a un discorso sempre aperto sull’immaginazione. Il veleno medicinale della malinconia diventa pericoloso quando le immagini che nutre sono fatte solo di desolazione, di torpore, di automatismo: come una patina grigia sovrapposta a ogni nostro ritratto, o paesaggio del futuro.

Il veleno medicinale della malinconia diventa pericoloso quando le immagini che nutre sono fatte solo di desolazione, di torpore, di automatismo.

Pensiamo a un filtro che imponga sopra ogni immagine lo stesso slogan già preso da Fisher come emblematico del realismo capitalista: “there is no alternative”. Non c’è alternativa. Un eccesso di immagini disperate, assunte senza alcuna discriminazione, può portare a una soprassaturazione mitica, al sentimento di essere travolti da qualcosa che non possiamo in alcun modo arginare; la soprassaturazione, quando non manipolata attivamente, conduce a uno stadio dell’immaginazione non più trasformativo, ma pietrificante. Ci occorre, allora, una forma di farmacologia favolosa che ci purghi da questo eccesso di immagini desolate, esattamente come l’elleboro funzionava da veleno depurativo per la cura della melanconia, nonostante il principio fosse ben lontano da una “verità” scientifica (il carattere irritante di questa pianta poteva causare vomito e feci emorragiche, che una volta evacuate venivano scambiate per la bile nera).

Lo abbiamo affermato sopra: reclamare la nostra immagine significa reclamare un futuro. Non accettare in maniera inerte l’eccesso di ritratti sconfitti, sterili, familiari, automatici, ma discriminarli e produrne di attivi, capaci di reinventare una visione del futuro politeistica, non nata soltanto nell’unico segno di “dio della disperazione”: il realismo capitalista. Abbiamo bisogno di altro. Se il narcisismo ci conduce alla melanconia, un rapporto fecondo con essa può insegnarci la necessità di quello che Starobinski chiama antidotismo psichico, connettendosi a un momento particolare della storia della melanconia. Siamo nel Rinascimento, e il trattamento farmacologico combina tre grandi gruppi, ognuno con una miriade di ricette e metodi: gli evacuativi, che purgano, gli alterativi, che diluiscono, i confortativi, che stimolano il vigore e la gioia. “Sciroppi, pozioni, pillole, tavolette, canditi, paste, marzapani, decotti, elisir, muschiati, elettuari, oppiati…. profusioni di droghe che vuole rispondere al polimorfismo dei sintomi della malinconia” leggiamo in Starobinski. Il Rinascimento attinge il suo arsenale terapeutico da ogni dove; tutto avviene come se i medici

si ingegnassero a offrire al malinconico, avvalendosi anche della moltiplicazione dei farmaci, lo spettacolo di una diversità felice e di una produttività inesauribile. Non è forse questo un beneficio per l’esistenza del malinconico, che è monotona e si chiude nella convinzione della sua povertà e della sua sterilità? Senza che i terapeuti vi avessero davvero pensato, la lora polifarmacia e la loro polipragmasia attuavano una sorta di antidotismo psichico, contrapponendo tesori di un vasto universo all’avvilita indigenza del malinconico. Il mondo non è così piccolo e così vuoto come te lo immagini!

Se da un lato lo spettacolo “di una produttività inesauribile” ci rimanda immediatamente al linguaggio capitalista, alla sua visione estrattiva, edulcorata e consolatrice di fronte alle crisi che stiamo vivendo (sciroppi, pillole, canditi, marzapani…), dall’altra l’aspetto veramente interessante di questo antidotismo psichico riguarda la capacità di rispondere alla fissazione della catastrofe con un’immaginazione radicalmente polimorfa, un’attenzione percettiva ai tesori del mondo che non teme di spingersi nelle zone selvatiche dello sguardo. Una delle risorse della malinconia – a rischio di passare per una necessaria degradazione – è proprio il suo innescare in noi la richiesta di un’attenzione diversa verso quanto ci circonda, sottraendo le cose al loro aspetto consueto e naturalizzato. L’universo è ben più di un regno sciupato, fatalmente sterile: quando lo osserviamo con audacia ci restituisce una molteplicità cangiante, enigmatica, non risolta – come forme danzanti in uno specchio magico.

Metafisiche dello specchio
“Quante volte Narciso bacia vanamente questo fonte ingannatore! Quante volte vi affonda le braccia senza potersi raggiungere! Che cosa vede? Non lo sa: ma ciò che vede lo divora; lo stesso errore che inganna i suoi occhi li eccita. […[ Il fantasma che vedi non è che il riflesso della tua immagine; senza consistenza di per sé, esso appare e resta con te; con te si allontanerà, se potrai allontanarti”. La più nota, tra le narrazioni su Narciso, è quella tracciata da Ovidio nelle Metamorfosi, che raccoglie in sé tutte le ossessioni legate al narcisismo sopravvissute fino a oggi.

“Menzogna, errore, inganno e illusione, inafferrabile, fuggitivo… Il meccanismo poetico e una metafisica dello specchio e dei suoi mondi ambigui sono definiti con poche parole da Ovidio” sostiene Jurgis Baltrušaitis nella sua ricognizione sulla catottrica – ovvero la parte dell’ottica che studia i fenomeni di riflessione. Chiediamoci: il meccanismo poetico e la metafisica dello specchio delineati da Ovidio come fenomeni narcisistici non sono anche formidabili strumenti di manomissione dell’io, metodi di deformazione della “natura”, forme di apprendistato alla molteplicità? Quel “fantasma” che vediamo riflesso ha davvero nessuna consistenza? Oppure interviene sul mondo, agisce, anche se in maniera spettrale?

Lo specchio magico ci rivela, nella realtà che credevamo completamente svelata, un suo aspetto ancora ignoto.
Se Narciso rimanda sempre all’arte di specchiarsi, e di specchiarsi in una abissale cecità, una storia dello specchio è, a sua volta, un’epica dell’artificio, dell’alienità, del pericolo di quanto tecnologicamente deforma lo stato naturale delle cose. Lo specchio d’acqua poteva già essere ingannatore, e tutto ciò che viene dopo non fa che corrompere ulteriormente il riflesso umano. Lo sostengono, in epoche diverse, Platone (429-347 a.C.), Lucrezio (98-52 a.C.), Plinio (23-79 d.C.), Apuleio (II sec.), Aulo Gellio (Il sec.); lo esplicita Baltrušaitis in poche righe:

Lo specchio, in origine semplice superficie d’acqua o di pietra liscia che riproduceva esattamente le forme riflesse, si corruppe parallelamente allo sviluppo dell’industria umana. I lineamenti deformati, carpiti nelle cavità di un vaso o di uno scudo, segneranno il seguito di questa evoluzione innescata dalla scoperta dei metalli compiuta da una generazione perversa. Il mondo vi si trasfigura nella lussuria e nel fasto. Perciò lo specchio diventa, alla fine, un oggetto pernicioso per eccellenza. Gli Antichi ne hanno sempre profondamente avvertito l’aspetto ingannevole e artificioso.

Ecco allora la potenza, innaturale e metamorfica, dello specchio, di ogni specchio – superficie o filtro deformante che sia. Ecco l’artificio, tecnologico e incantatore, che oggi viene additato come il pericolo supremo di una generazione di “giovani” fatalmente traviati, malati di narcisismo, che non sanno più godersi la Natura. Specchio delle mie brame, da Biancaneve ad Arbasino… L’arte di specchiarsi confonde alto e basso, dissomiglia, deprava. Ci apre, quando rivolgiamo contro di noi la telecamera interna del cellulare, a quella pratica di narcisismo extraterreste di cui abbiamo parlato sopra, e che consiste appunto nello specchiarsi per ritrovare altro, per giocare con la propria immagine, per pervertirsi, per reclamarsi, per scoincidere. Lo specchio genera spettri: sta a noi non moralizzarli, ma osservarli nel loro vagare, per vedere dove conducono – verso quali altri possibili. Per questo è sempre interessante scorrere le descrizioni dei bizzarri specchi elencati dal gesuita Athanasius Kircher e da Gaspar Schott nel XVII secolo: sorta di filtri deformanti dell’umano, superfici di contagio animale che sembrano uscire ora dalle Metamorfosi, ora da FaceApp, ora dalle allucinazioni stregonesche di Johannes Heidenberg, quel Tritemio che fu abate benedettino di Sponheim e temibile occultista.

“Si tratta” racconta Baltrušaitis “di specchi in cui ci si vede con una testa di animale o con quella di un’altra persona. Il dogma di Tritemio relativo alla metempsicosi sarebbe così dimostrato dalla catottrica. Ciò avveniva quando, nei riflessi di uno specchio, si sostituiva ai lineamenti reali un’immagine dipinta o scolpita. Teste di animali – asino, rinoceronte, capra, gru – si formano anche direttamente negli specchi deformanti a sezione ellittica o negli specchi sbalzati. Lo specchio a S trasforma il volto umano in testa di cavallo. […] Realtà e allucinazione, i mondi generati da questi strumenti di precisione rivelano una reversibilità delle cose: la certezza di ciò che appare e l’incertezza di ciò che è” (Lo specchio).

Come accadeva nell’enigma melancolico di Dürer, anche lo specchio magico interroga l’affidabilità dei nostri sensi, l’attendibilità del nostro punto di vista. Esso ci rivela, nella realtà che credevamo completamente svelata, un suo aspetto ancora ignoto. Esercitando il diritto al narcisismo, specchiandoci attraverso filtri non più soltanto “naturali”, ci iniziamo ad altre possibilità di esistenza, talvolta ben più enigmatiche di quelle quotidiane, e non sempre facilmente accettabili. L’amore in fondo consiste proprio in questa fedeltà – alle persone, alle cose – anche quando si scoprono altre rispetto a quello che vorremmo. L’universo è dissomigliante, non riducibile a un’unica rappresentazione – almeno per ora. San Paolo, nella Prima lettera ai Corinzi, ci metteva in guardia: “Videmus nunc per speculum in aenigmate”. Ora vediamo le cose attraverso uno specchio, per enigmi, ma un giorno le vedremo faccia a faccia. Il diritto al narcisismo è il diritto a vederci, ad amarci così: come nient’altro che enigmi.