ripreso da Ponza Racconta del 21 dicembre 2020
E’ di qualche
settimana fa l’articolo di Rosanna Conte sul grande vecchio, Boris Pahor, e sul suo romanzo-testimonianza Necropoli (del 1967; in
edizione italiana da Fazi; 2005). Viene ricordato l’incontro
casuale con lui, proprio al Cimitero delle Fontanelle, nel
2008. Nello stesso articolo, in Commenti, era suggerita la visione
di una scena da Viaggio in Italia di Rossellini (1954) dove
una spaesata Ingrid Bergman si aggira proprio per quelle grotte insieme ad
un’amica.
Sullo stesso tema ci è stato segnalato un bell’articolo pubblicato sul supplemento “La Lettura” del Corriere della Sera del 13 dicembre scorso, a firma di Adriano Favole:
Una ventina di anni fa, quando lavoravo a un libro comparativo sul destino del corpo dopo la morte, avevo visitato la cripta della Chiesa di San Pietro ad Aram, a Napoli. Da tempo ormai avevo familiarizzato con cimiteri, antiche sepolture, reliquie di santi cristiani più o meno famosi, reliquie di altre culture, come i crani rimodellati e dipinti del Sepik, in Nuova Guinea, o i crani incisi di sperdute isole polinesiane.
La lettura di un bel libro di Stefano de Matteis e Marino Niola Antropologia
delle anime in pena (Argo, 1997), i loro racconti della pratica
di «adozione» dei morti a Napoli, mi avevano spinto verso una città che non
conoscevo. Visitando chiese e ipogei, mi chiedevo perché la promiscuità con i
resti umani che caratterizzava nell’epoca pre-coloniale molte società
dell’Oceania fosse apparsa così esotica e barbara ai primi missionari
cristiani, al punto che fecero di tutto per sradicare quei culti «pagani»,
mentre essi stessi erano gli ultimi discendenti di una istituzione, la Chiesa,
che almeno dal III secolo dopo Cristo aveva venerato le ossa dei santi. A
pensarci bene, le reliquie sono state nella storia dell’Occidente al centro di
contese politiche e giganteschi interessi economici; hanno orientato il cammino
dei pellegrini, accompagnato la fondazione di ogni chiesa e secondo alcuni
studiosi sono all’origine di quello che, più prosaicamente, oggi chiameremmo
«turismo».
Napoli era piena
di turisti, ma l’impressione fu che non molti di loro scendessero all’ipogeo di
San Pietro. Il sito non era «patrimonializzato» come mi sarei aspettato. La
guida era una robusta donna di mezza età, con un pronunciato accento e un
maglione modesto, non del tutto a suo agio con le domande.
Quasi tutti le chiedevano perché ci fossero ormai pochi crani e lei spiegava
sbrigativamente che ora «riposavano» al cimitero delle Fontanelle. Invitava a
leggere, all’ingresso, il decreto con cui, nel 1969, Corrado Ursi, arcivescovo
al servizio del Concilio Vaticano II, aveva bandito il culto. Oggi, diceva, la
gente rispetta i crani, ma la venerazione va riservata ai santi. Provai a
chiedere perché la «Sposa», così era stato denominato uno dei resti umani
rimasti, fosse sommersa di bigliettini con preghiere e frasi di ringraziamento
e da foto a colori, presumibilmente di morti recenti. Rispose senza dare
risposta con una frase di cortesia.
L’«adozione» di
morti anonimi attraverso la cura dei loro resti, i crani in particolare, è
diffusa in diverse chiese, siti e cimiteri di Napoli. Si tratta, secondo la
tradizione, di «anime del Purgatorio», pezzentelle, che i vivi
adottano curandosi di loro e tirandole via dall’anonimato (spesso venivano dati
loro nomi come il Capitano, il Dottore, il
Soldato, il Cieco, a volte persino nomi propri come Maria
Domenica).
In una città e soprattutto in quartieri come Sanità e Secondigliano che ancora
esaltano i vincoli di reciprocità famigliare, i morti «adottati» interagiscono
per i vivi a cospetto dei Santi e della Madonna, non sempre per restituire
«favori» in forma tangibile (guarigioni, fertilità, matrimonio), ma quasi
sempre infondendo speranza, coraggio, un po’ di serenità a vite spesso segnate
dalla sofferenza.
È attorno a
questo culto che prende forma una delle più belle monografie antropologiche
recenti, Napoli sepolta (Meltemi, 2020).
L’autore, Ulrich van Loyen, è un tedesco, studioso di etnologia, di
religioni, di letteratura di viaggio. Ci gioca, Van Loyen,
sull’essere straniero, come un antropologo sbarcato da Marte che osserva i
nativi. E giocano con lui i suoi interlocutori napoletani che lo vedono come
uno che contraddice in tutto gli stereotipi del tedesco preciso, rigoroso e
puntuale.
Prendendo a prestito un’espressione dell’autore, potremmo dire che il libro è
«un intreccio di livelli mitici, individuali, locali e universali».
Il primo filo dell’intreccio è un culto dal sapore
arcaico, in realtà piuttosto recente — al cimitero delle Fontanelle l’adozione
del cranio è testimoniata dalla fine del XIX secolo, e si è irrobustita durante
la Seconda guerra mondiale, quando madri e spose vennero qui a curarsi di morti
anonimi come se fossero i loro cari dispersi al fronte. Van Loyen usa
i luoghi del culto come centri di irradiazione di percorsi di ricerca che lo
portano verso le reti famigliari dei devoti, lo spingono a indagare trame
pericolose attraverso cui il crimine organizzato «usa» i siti principali del
culto, lo conducono al cospetto di veggenti, possedute, curatrici.
Un secondo filo del
libro è il denso racconto della vita dei quartieri, in
particolare Sanità e Secondigliano. Van Loyen usa
sapientemente l’etnografia, alternando le sue riflessioni alle pagine
descrittive del suo diario di campo, senza concessioni alla pedanteria
accademica. Napoli, quella Napoli, gli appare come un mondo in perpetuo
movimento, apparentemente senza una direzione, dove circolano persone che gli
raccontano desideri, sogni e aspirazioni, dove si intrecciano progetti di
futuro e disoccupazione, droga, criminalità e gesti di altruismo quotidiano.
Tra le frequentatrici del culto delle anime ci sono madri di detenuti, che si
curano dei loro figli «scomparsi» con la mediazione di morti anonimi.
Il terzo filo, il più
robusto, dà originalità a tutto il libro. L’autore non
cade né nella trappola della «superstizione», come se il culto dei crani o ciò
che ne resta fossero una sopravvivenza arcaica, in piena contemporaneità, di
epoche tramontate. E neppure cede alla tentazione di interpretare il culto come
una «reinvenzione» postuma di tradizioni, come se i «patrimoni» resi tali da
classi agiate che si atteggiano a difensori degli umili e ne restaurano le
«vere» tradizioni, avessero saputo ridare una vivacità posticcia al culto.
Il filo robusto dell’antropologo tedesco, la sua «stoffa», è la rara capacità
di narrare quel precipitato di vite individuali e di tragedie collettive così
come esse si manifestano oggi nel culto delle anime o comunque nei luoghi in
cui giacciono i loro resti, come al cimitero delle Fontanelle. Quei luoghi sono
come vortici capaci di attrarre pensieri, riflessioni e pratiche che hanno a
che fare con il nostro essere mortali e vulnerabili, col fatto che solo
mettendoci in relazione, tra noi e con chi è vissuto prima di noi, possiamo in
parte arginare le tragedie della vita.
Alle Fontanelle sembrano addensarsi le crisi collettive che hanno segnato la città:
epidemie di peste, colera, vaiolo che hanno prodotto migliaia di corpi anonimi;
terremoti come quello del 1980 che portò alla chiusura di diversi siti
sepolcrali; le eruzioni del Vesuvio; la guerra e l’uso delle cripte come
rifugio antiaereo.
Nei siti del culto delle anime del Purgatorio ci sono soprattutto, con tutta la
loro carica di drammaticità e sofferenza, le vite degli uomini e soprattutto
delle donne che Van Loyen ha incontrato. Vedove, madri che
hanno perso figlie e figli, pensionati che preparano pasti per i poveri,
implorando la loro «intercessione» contro la malattia della solitudine.
Il culto dei
morti a Napoli, come dimostra tra l’altro l’attenzione riservata alla scomparsa
di Maradona, non è né una sopravvivenza né un patrimonio: è un addensarsi
di vite che, a loro modo, riflettono la fragilità umana.
In una contemporaneità che ha estromesso la morte, che l’ha resa «pornografica»
come diceva Goffrey Gorer, i teschi e i crani che punteggiano Napoli, sopra e
sotto la città, le danno il volto di una metropoli fragile, nella quale
mortalità e vulnerabilità convivono con la vita.
Come direbbe Bruno Latour, forse Napoli, o almeno i quartieri frequentati da un
empatico antropologo tedesco, non è mai stata moderna, ma non è neppure
arcaica.
[Adriano Favole, da “la Lettura”, inserto culturale del Corriere della Sera del 13 dic. 2020]