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Ci sono due Americhe che non si parlano

Martedì 5 novembre si dovrebbe sapere chi ha vinto la corsa alla presidenza degli Stati Uniti d’America. Elezioni che non riguardano solo il popolo USA, ma tutto il mondo.
Il pezzo che segue ci aiuterà a capire perché è così incerto il risultato e per quale motivo, con tutta probabilità, occorreranno tempi lunghi per conoscere l’esito delle elezioni.
(NdR)

 
“Ci sono due Americhe che non si parlano (e questo peserà sul voto)”
 
di Giorgio Ferrari
tratto da Avvenire del  30 ottobre 2024

 
Il 5 novembre forse sapremo chi avrà vinto la lunga corsa alla Casa Bianca. Diciamo forse, perché il risultato elettorale non è del tutto garantito né dal riconoscimento del verdetto delle urne né dal moto di rivolta che si potrebbe innescare in caso di sconfitta di Donald Trump.
Parafrasando T.S. Eliot e l’incipit de La terra desolata, il suo lancinante poema scritto cent’anni fa, verrebbe da dire: “Novembre è il più crudele dei mesi”. Ma non tanto per l’incertezza di una campagna elettorale che fino all’ultimo ha visto appaiati di stretta misura i due concorrenti con l’effetto di far precipitare dal podio la pseudo-scienza dei sondaggi, quanto perché nella rissosa battaglia per aggiudicarsi lo Studio Ovale si sono viste due Americhe, queste sì ben distinte e crudelmente indifferenti e ignare l’una dell’altra: l’America di Kamala Harris e Donald Trump e l’America degli americani.
 
La prima è stata letteralmente manipolata e inghiottita dal denaro, con una spesa complessiva di almeno 16 miliardi di dollari (miliardi, non milioni) offerti dai “donors” (i donatori) ai due candidati, configurando con ciò tra Congresso e Casa Bianca l’elezione federale più costosa della storia americana. Denaro che ha esaltato e proiettato alle stelle del firmamento mediatico le figure dei due avversari e dei loro running-mate, Tim Walz e J.D. Vance e insieme quelle dei grandi comprimari come l’influentissimo Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo e insieme il più munifico: al punto da aver indetto una lotteria che elargisce un milione di dollari al giorno estraendo a sorte tra i fan di Trump.
 
La seconda America è quella degli elettori e soprattutto dei non-elettori. Un’America profonda nella quale il nostro giornale ha scavato cercando di aggirare le facili verità preconfezionate dai mass media e trovandovi due diverse schiere di cittadini accomunati da una sfiduciata rassegnazione. Alcuni voteranno turandosi il naso per Kamala Harris, altri voteranno per disperazione per “The Donald”, che ha promesso loro un’irrealizzabile Shangri-la, fatta di deportazione di massa di immigrati illegali, di sbrigativi salvacondotti per l’alleato israeliano («Finisca fino in fondo il proprio lavoro»), di impercorribili accordi di pace fra Russia e Ucraina da stipulare in ventiquattr’ore grazie ai buoni uffici della Casa Bianca.
 
Entrambe le categorie sono del tutto indifferenti al ruolo internazionale dell’America, ritagliandosi viceversa un neghittoso egoismo attento principalmente all’inflazione e all’immigrazione illegale. Due contingenze che hanno finito per ribaltare consolidate e tradizionali propensioni di voto: dai neri della Georgia che disertano il richiamo dei dem e strizzano l’occhio a Trump, ai blue collars degli Stati in bilico dei Grandi Laghi, che temono la crisi dell’automobile e abbandonano a favore di Trump quel consenso fluviale che aveva ottenuto a suo tempo Barack Obama.
E a proposito di Obama una domanda è d’obbligo: funziona ancora l’endorsement di un ex presidente le cui scelte hanno impoverito la classe media? Ovvero, Obama è ancora una figura spendibile a sostegno di Kamala? Quesito che prima o poi ci si dovrà porre a proposito dei tanti personaggi dello star system accorsi a bordo ring in soccorso dei dem, da Bruce Springsteen a Eminem, da Taylor Swift a Beyoncé, la cui efficacia nell’influenzare il voto della Z generation – quella che si affaccia per la prima volta alle urne – è ancora tutta da dimostrare. Di accertata resta solo la disaffezione dei latinos nei confronti dei democratici.
 
Più scalpore semmai potrebbe destare la scelta – meglio forse dire: la non-scelta – di due giganti dell’informazione liberal come il Los Angeles Times di Patrick Soon-Shiong e il Washington Post di Jeff Bezos, che per la prima volta non hanno fornito alcuna indicazione di voto negando il rituale endorsement al candidato democratico. Brutto segno. O forse un segnale molto preciso di come la partita della Casa Bianca sia così platealmente estranea al Paese reale da indurre il tycoon proprietario di Amazon e l’editore del Los Angeles Times a guardare più ai propri interessi economici (Trump promette sgravi fiscali e benefici agli ultraricchi) che alla filiera dei propri abbonati. Anche qui, due Americhe che non si parlano e si ignorano.