tratto da “Il Tascabile” del 9.9.24
Irene Frau ha studiato filosofia estetica a Milano, lavorando su Walter Benjamin e la Scuola di Francoforte. Vive fra Cagliari e Roma.
Sono passati dieci anni dalla pubblicazione della raccolta Les années 10 (2014) di Nathalie Quintane, poetessa, attivista e insegnante francese. Due dei testi della selezione, Una visita di Marine Le Pen in provincia e Le preposizioni, sono stati tradotti e pubblicati di recente anche in Italia, sotto il titolo di Stand up (2020, Tic Edizioni, tradotto da Michele Zaffarano). Nella seconda parte del volume, la narratrice coincide con l’autrice che si interroga su quali siano le particelle linguistiche adatte a indicare il verso della relazione fra i poveri e chi non lo è, dal momento in cui si appartiene a un’altra classe, alla classe media o alla classe dei lavoratori intellettuali. Quintane prende in analisi l’uso della preposizione per e prosegue scartando una serie di pietismi grammaticali, assumendo come punto di partenza il riconoscimento del proprio status:
Non c’è
in corso nessuna discussione con i poveri.
I poveri vivono nei loro angoletti, nelle loro periferie, nelle zone rurali più
sperdute, dove solo i corvi arrivano a portare i rifornimenti. Io invece me ne
sto qua sul mio computer a battere tasti.
Un’indagine di tipo fenomenologico, nella quale l’identificazione del narratore con l’autore biografico pone il soggetto narrante come un Io in opposizione dialettica al mondo, alle cose, agli oggetti materici e alle loro astrazioni.
In Senza tetto né legge Varda compone poesia in immagini crude, come Quintane scrive poesia in prosa, esercitando il suo sguardo sul mondo, sugli oggetti del quotidiano che osserva e descrive a partire dalla sospensione del giudizio, quasi in senso husserliano. La sua è un’indagine di tipo fenomenologico nella quale l’identificazione del narratore con l’autore biografico pone il soggetto narrante come un Io in opposizione dialettica al mondo, alle cose, agli oggetti materici e alle loro astrazioni. L’Io narrante di Quintane prende le distanze dal dispositivo letterario dell’autofiction, lavorando per sottrazione e lasciando che resti ciò che nello sguardo accomuna chiunque: una sorta di soggetto banale, nell’accezione arendtiana, e che occupa un punto di vista politico nel fare poesia. Ricerca e sceglie l’uso di un linguaggio modesto, capace di calcare sul reale contorno delle cose. Manifesta le sue intenzioni politiche fra le pagine di Pomodori (2010) dove racconta della sua esperienza ai festival di poesia, ponendosi contro ogni complicità richiesta dall’industria culturale e le sue logiche di profitto per le quali, se la letteratura non è accessibile alla massa, se il grande pubblico preferisce far festa, allora è la letteratura a dover diventare festa. La festa è il fantasma che:
Mette il
sigillo chiude il sintagma dopo che hanno fatto girare tutti gli aggettivi
tutti i nomi:
lettura-performance performance letteraria (al festival En toutes lettres nel
giugno del 2009) festa della performance (al festival Les bouquinades di
Marsiglia sempre nel giugno del 2009).
Il movimento attrattivo che dal margine conduce verso il palcoscenico è raffigurato da Andrea Arnold in Fish Tank (2009) a partire dal punto di vista di Mia, un’adolescente dell’Essex, nella periferia a Est di Londra. La camera a mano di Arnold, insegue la protagonista come i fratelli Dardenne in Rosetta (1999), ma i percorsi tracciati dalle giovani sono diametralmente opposti, accomunati solo da un’affannosa frenesia che le spinge verso la rivalsa. Per appartenere a una comunità Rosetta sceglie il lavoro, Mia la fama. Arnold la pedina mentre si esercita per diventare una ballerina di street dance, l’unica speranza di rivalsa in suo potere.“You dance like a black” le dice Connor, il fidanzato di sua madre, interpretato da Michael Fassbender, per motivarla a esercitarsi. Lui proviene da un contesto sociale più fortunato e meno disfunzionale e sembra prendere a cuore l’educazione di Mia. Le presta la sua videocamera per registrare un’audizione di ballo, quasi come se volesse condividere il suo privilegio con l’adolescente di periferia e salvarla dalle condizioni precarie nelle quali si è trovata costretta a crescere. In realtà, le intenzioni di Connor non sono affatto edificanti: mira a possedere il corpo della ragazza, non alla sua liberazione.
Una scena che racconta lo sguardo, la percezione comune, che si esercita su una certa categoria di poveri, avvertita pericolosamente incomprensibile dalle classi più agiate a partire dall’abbigliamento e dalla partecipazione agli oggetti del quotidiano.
Al pari di Fish Tank, anche Bande de filles (2014) è costellato da pestaggi e clip musicali, animati da battle in stile hip hop fra giovanissime afrodiscendenti dell’estrema periferia parigina. Nella sua interpretazione da cinéma de banlieue, Céline Sciamma si concentra sulla brutalità fra bande di ragazze adolescenti, rivali senza alcuna ragione apparente e identiche nell’abbigliamento, nelle acconciature, nelle movenze e nelle condizioni sociali. Sciamma e la direttrice della fotografia Crystel Fournier dipingono di luce blu chiaroscurale i corpi delle ragazze vestite tutte uguali, dai capelli crespi domati in contropermanenti chimiche, con giubbotti succinti in finta pelle e le labbra appesantite da rossetti sgargianti, mentre competono fra risse e balletti, sempre rigorosamente in mezzo alla strada. In Bande de filles il rapporto con le cose, i prodotti e il loro carico simbolico, è sia estetico, sia etico perché identitario. La protagonista è Mariem, quando porta la tuta e le treccine arrampicate sulla nuca, ma diventa Vic quando liscia la sua chioma e indossa abiti rubati, con appese le placche antitaccheggio. Sciamma definisce i contorni di uno stereotipo, altrimenti inafferrabile per i non poveri, e inquadra da vicino i piedi della ragazza mentre si sfila le Jordan Air, prima che suo fratello la riempia di botte. Il destino di Mariem (aka Vic) è già tracciato ed è identico a quello di sua madre: lavorare di notte, quando i ricchi dormono, pulire i loro uffici, le loro abitazioni, servirli nell’ombra. Anche per questo, i poveri sono un mistero:
Perché i
poveri sono così, sono una sorpresa permanente. Hai voglia a cercare di
limitare
al massimo i rischi della sorpresa e di spiegare in modo chiaro, anzi
chiarissimo, quello che sta succedendo, prima in dieci frasi e poi in cinque;
hai voglia a reclutare team di grafici, di psicologi e di sociologi, di
educatori di montagna, di spie nascoste dentro i computer: alla fine, le urne
danno il loro verdetto e dopo è troppo tardi. O peggio: non c’è nessun verdetto,
silenzio.
Il feticismo verso gli oggetti dei poveri da televisione rispetto a quello dei non-poveri, non è diverso nelle dinamiche, quanto nell’intensità con la quale si dà come fenomeno. In Stand up (2014) Quintane sostiene come i poveri partecipino dell’oggetto a un livello superiore:
Consapevoli come siamo del fatto che se davvero riusciamo a raccontare cosa sia un povero è solo perché noi non siamo più poveri, o solo perché non siamo più completamente poveri.
Le attese nei pressi delle pensiline sono i luoghi nei quali i non poveri potrebbero fare esperienza ravvicinata delle soggettività ai margini. Si tratta di spazi neutri nei quali le classi sociali si mescolano, senza contaminarsi.
Quintane suggerisce che le attese nei pressi delle pensiline sono i luoghi nei quali i non poveri potrebbero fare esperienza ravvicinata delle soggettività ai margini. Si tratta di spazi neutri nei quali le classi sociali si mescolano, senza contaminarsi. Del resto, le ambientazioni legate ai mezzi di trasporto pubblici sovente sono presenti nel cinema di critica sociale. In Senza tetto né legge Mona e i suoi compagni di viaggio bivaccano in una stazione ferroviaria, zona franca per chi non ha padroni e terra di confine fra le classi. In Bande de filles Mariem si muove in autobus e in metropolitana, dove i binari separano le faide tra bande. Sia sullo schermo, sia nelle periferie delle città i trasporti pubblici fungono da luoghi di interconnessione fra soggettività agli antipodi. Lo racconta Pietro Marcello in Il passaggio della linea (2007), dove per sessanta minuti si attraversa l’Italia a bordo di un treno notturno, sul quale viaggiano principalmente lavoratori, da sud a nord. Il titolo del film celebra il romanzo di Georges Simenon, dal quale Marcello ha estratto una frase, scelta per aprire il documentario:
Tre volte ho attraversato la linea di confine, la prima volta di frodo, con l’aiuto di un contrabbandiere, in qualche modo, almeno una volta legittimamente, sicuramente sono stato uno dei rarissimi che sono tornati di spontanea volontà al punto di partenza.
Il primo viaggiatore a rivolgersi alla telecamera è un uomo anziano dagli occhi chiari di nome Arturo. Dice che in treno la casa è assicurata, di aver sempre seguito la corrente del destino che lo ha portato a fare il pezzente, quindi a diventare “il più potente del mondo”. Una premessa alle immagini che scivolano fuori dal finestrino del treno, mentre i passeggeri nominano Poggio Reale, Velletri, la 167 o Scampia, parlano di decreti di espulsione e delle ingiustizie incassate sin dall’infanzia. Gli annunci sonori scandiscono gli arrivi e le partenze, gli sportelloni sbattono, componendo la colonna sonora assieme alle musiche di Marco Messina e Mirko Signorile. Lungo il tragitto, Marcello non intervista i passeggeri, ma li ascolta mentre si lasciano trasportare dai pensieri della notte. Ogni confidenza è intervallata da transizioni che assomigliano a carrellate diegetiche. La camera inquadra lo scorrere dei paesaggi fuori dal finestrino della carrozza e lascia che i tralicci, le luci, i cantieri, i palazzi delle periferie e le mareggiate diano forma al filo della narrazione. I poveri sono in movimento dalle periferie al centro, verso gli oggetti del loro desiderio, orientati dalla fame e dalla ricerca di uno status sociale diverso da quello assegnato dalla società che li respinge. I poveri sono in movimento quando insorgono in sommosse, senza alcuna guida. Chi partecipa alle insurrezioni fa parte del popolo, la comunità di chi non ha un posto, così come lo intende Quintane in Pomodori:
Un popolo
è ciò che si mette in campo per sfuggire all’invisibilità decretata
dall’assenza di controllo sul destino sociale dei singoli. Il Popolo è la
risposta attraverso i fatti (attraverso il popolo) alla mancanza di esistenza
nella vita collettiva.
Il Popolo sarebbe ciò che si mette in campo, ciò che esercita un potere (per
esempio quello di assumere il controllo della strada e degli spazi pubblici,
quello di saccheggiare, distruggere o costruire in modi alternativi) quando non
ci sono altre possibilità.
Il passaggio di linea e La bocca del lupo sono due documentari dal linguaggio lirico, dove lo sguardo del regista si dissolve; ciò che resta può essere definito come espressione di un realismo poetico, che accomuna chiunque tenti di avvicinarsi agli ultimi senza pretendere di poterli comprendere in un’inquadratura, in un paragrafo o nel verso di una poesia. Solo così è possibile trattenere lo scarto tra i non poveri e i poveri poiché, parafrasando il celebre verso di Friedrich Hölderlin, “ciò che resta lo fondano i poeti”.