Insegnante e scrittore
È possibile
amare e odiare una persona allo stesso tempo? Leggendo i versi di Gaio Valerio
Catullo, poeta latino del I secolo a.C., pare proprio di sì. La sua poesia
forse più celebre, composta da sue soli versi, inizia con due verbi totalmente
contrapposti: Odi et amo, ti odio e ti amo. Il poeta si rivolge a una donna,
rivelandole il contrasto insanabile che lei suscita in lui. Sa che è un
contrasto paradossale, impossibile, eppure lo vive e ne soffre. Non sa spiegare
perché; ma, dice, è così.
Un giorno lessi e commentai in classe questa poesia. Notai che una delle mie allieve era rimasta profondamente turbata: aveva gli occhi lucidi, si era soffiata il naso più volte. Non avevo osato interpellarla, ma, alla fine della lezione, fu proprio lei ad attendermi in corridoio. Mi fissò negli occhi: era una ragazza di terza superiore molto decisa. «Prof», mi disse, «non si deve più permettere di leggere certe cose in classe!». Mi spiazzò. Capii che la sua era una provocazione, che voleva comunicarmi qualcosa di più profondo, ma sul momento non seppi cosa replicare. Me la cavai con le solite frasi fatte: «Ma come? Non possiamo non leggere Catullo! È uno degli autori più importanti della letteratura latina, una pietra miliare nella storia della poesia d’amore, un autentico genio nell’esprimere l’interiorità umana…».
«No, prof» mi interruppe. «Lei non può capire. Questa poesia mi devasta. Questa poesia parla di me. Come fa uno che è morto secoli fa a dire ciò che io non riesco a esprimere?». Quasi mi commossi: «È la magia della letteratura» risposi. «Sarà. Ma è straziante. Le parole di Catullo mi distruggono dentro. Non so se lei conosce il mio ex. Mi ha sempre trattata male, mi ha mancato di rispetto, mi ha calpestata in ogni modo. Io lo detesto, la mia stima per lui è zero, forse le odio pure. E poi… poi lo vedo passare in corridoio e mi sciolgo; sento una parte di me che urla, perché non può fare a meno di lui. Perché sono così stupida?». Mi spuntò un sorriso triste. La capivo benissimo, al contrario di quanto pensava. Credo che moltissimi potrebbero capirla. «Non sei affatto stupida» le dissi. «Sei umana». Quella ragazza, forse senza saperlo, stava mettendo in luce l’eterno conflitto tra ragione e sentimento, tra cuore e cervello. Un conflitto che la nostra cultura spesso enfatizza. Quante volte abbiamo sentito dire che non si comanda al cuore, che senza sentimento la vita è vuota e il mondo è un deserto?
Spesso il sentimento rischia di diventare il parametro assoluto per le scelte. La passione giustifica tutto per il fatto che c’è, che si sente. Ciò che desidero diventa un diritto. Ciò che sento come autentico giustifica ogni mia scelta e mi deve rendere immune da ogni giudizio, perché l’unico criterio valido è, per l’appunto, l’autenticità di ciò che provo. Ma davvero questo basta a costruire relazioni significative, autentiche, durature? Io credo di no. Io credo che separare la passione dalla ragione e fare della passione l’unico criterio per le nostre scelte sia in una certa misura disumano, perché cancella alcune dimensioni fondamentali e costitutive di ciò che siamo. Non a caso molte culture antiche indicano il cuore come la sede sia dei sentimenti che del discernimento. Secondo questa visione, non c’è il cuore che sente e il cervello che ragiona, ma nel cuore sono presenti sia le passioni che la riflessione.
Nell’Iliade, dopo un aspro conflitto con Agamennone nell’assemblea dei capi achei, Achille è tentato di ammazzarlo. Il testo greco parla del suo cuore, che ondeggia tra due scelte: sguainare la spada e colpire Agamennone davanti a tutti oppure contenere il furore. Proprio in quel momento interviene Atena, la dea della saggezza, che trattiene Achille e gli suggerisce altre strade per incanalare la sua ira. Il conflitto, ma anche il discernimento e la riflessione, si svolgono dentro il cuore dell’eroe, di cui forse Atena è una personificazione. Perché noi non siamo cuore contro cervello: siamo un’unità di passione e ragione, di sentimento e riflessione. Se scegliere solo in base al sentimento può essere dannoso, può esserlo altrettanto decidere che strada prendere solo sulla base di una ragione fredda, priva di empatia, analfabeta dei sentimenti.
Cuore e cervello devono lavorare insieme perché il viaggio sia fruttuoso. Proprio come un’auto, che non può partire se è priva di carburante, ma va a sbattere se il volante, l’acceleratore e il freno non sono usati con sapienza. L’esperienza di Catullo in questo senso è emblematica. Catullo giunge a Roma molto giovane e si innamora di Clodia, una donna più anziana di lui, che nelle sue poesie chiama Lesbia, pseudonimo di origine greca. La passione per lei è travolgente: il giovane la idealizza, parla del loro rapporto come di un foedus, un patto eterno, una solidissima alleanza. Descrive la loro passione, i loro mille baci che illuminano la breve vita destinata agli uomini. Le poesie di questo periodo sono meravigliose, certamente tra i testi d’amore più belli della storia letteraria europea. Ma quando la passione dimentica il discernimento, il dolore è dietro l’angolo. Quando l’innamoramento si rifiuta di fare i conti con la realtà, diventa pericoloso. Poco a poco, Catullo scopre che Lesbia lo tradisce. La Lesbia da lui descritta esiste solo nella sua immaginazione, quel foedus tanto celebrato è un’illusione. Lesbia è una donna spregiudicata, o forse solo libera per la sua epoca. Catullo è distrutto: da qui il suo amore e il suo odio, due sentimenti ormai inscindibili, due facce della stessa medaglia.
In un’altra
famosissima poesia, Catullo contrappone due espressioni: amare e bene
velle. Ciò che ha fatto Lesbia, dice Catullo, è per lui una iniuria:
un’offesa che lo costringe ad amare di più, ma a volere meno bene. La passione
è aumentata, è incontrollabile, ma l’affetto, la stima, è nulla.
La parola amore è una delle più abusate del nostro vocabolario. Mi sono spesso
chiesto insieme ai miei studenti se Catullo amasse davvero Lesbia. Un ragazzo,
un giorno, mi rispose deciso: «No, non amava lei. Amava un ideale inesistente.
Amava la sua stessa condizione di innamoramento, non una persona reale». Penso
che quel ragazzo avesse ragione. L’innamoramento appassionato non basta a
coltivare un amore autentico. Certo, può esserne il fragoroso inizio. Ma il
seme dell’innamoramento deve germogliare, deve mettere radici, deve fare i
conti col tempo e con la sofferenza di emergere dal suolo per diventare fragile
germoglio e, infine, stabile pianta. L’innamoramento è il primo, importante
passo, ma serve altro. Servono il discernimento, la scelta, la decisione
libera. Se l’amore è solo passione che c’è o non c’è, rischia di essere più
simile a una malattia che a una relazione profonda, davvero umana.
L’innamoramento
che non evolve rischia di chiudersi nel narcisismo. Se la potenza del
sentimento non si apre all’altro reale, con i suoi limiti immensi, ma anche con
la sua sorprendente bellezza, diventa autocentrato. Ciò che l’altro mi fa
provare rischia di diventare più importante dell’altro stesso e così al centro
c’è l’io, non il tu, non il noi. L’amore diventa possesso, non dono.
Così però la violenza è dietro l’angolo. Catullo riserva a Lesbia parole
durissime, massacranti. In un componimento parla di lei chiamandola «mia
Lesbia», ma dicendo poi che la sua Lesbia si comporta da prostituta, concede
favori sessuali a chiunque passi agli incroci e nelle strade più malfamate. Il
possesso («la mia Lesbia») si trasforma immediatamente il violenza verbale, in
degradante invettiva.
Catullo è un poeta immenso, segnato da un tragico destino. Morirà infatti trentenne, lasciando al mondo e alla storia componimenti eterni. Il classici sono un dono per ciascuno di noi: parlano, provocano, scuotono. L’immortale vicenda di questo giovanissimo poeta può spingere anche noi riflettere su come viviamo le nostre relazioni, su come sappiamo arricchire il reale con i nostri ideali, ma anche sulla necessità di incarnare sempre i nostri ideali nella realtà, perché non si trasformino in vuote fantasie. Catullo siamo noi, con la nostra voglia di sentire e di amare, ma anche con il nostro desiderio di relazioni da coltivare e custodire, che si radichino nella vita, non solo in un sentimento passeggero, per quanto potente.