tratto da Lucy sulla Cultura del 17 Settembre 2024
Oggi SOPHIE,
produttrice e musicista, avrebbe compiuto 38 anni. Con la sua musica e la sua
personalità ha indicato nuove strade e arricchito la vita di molti.
I just don’t have so much fun looking back […] The future seems more real.
I just don’t have so much fun looking back […] The future seems more real.
Che cosa
definisce un artista? Forse la sua opera, quella che rimarrà nel tempo? O la
capacità di avere un’eco oltre la musica, di intravedere un nuovo pattern
dentro al sistema, di aprire nuove strade? Forse, al di là di tutto questo, ci
sono le relazioni.
Le relazioni che un artista riesce a creare tra generi esistenti e non ancora esistenti, tra passato e futuro, tra esseri umani. SOPHIE è stata una producer sperimentale senza mai uscire dagli argini del pop, anzi entrandoci talmente a fondo da riuscire ad allargarli, a dar loro una forma della sua idea di pop.
Le relazioni che un artista riesce a creare tra generi esistenti e non ancora esistenti, tra passato e futuro, tra esseri umani. SOPHIE è stata una producer sperimentale senza mai uscire dagli argini del pop, anzi entrandoci talmente a fondo da riuscire ad allargarli, a dar loro una forma della sua idea di pop.
Quando ho
iniziato a scrivere di musica trovavo il panorama elettronico alquanto noioso;
lavoravo per «VICE», e questo mi portava a fingere di trovare interessanti e
innovative tracce più simili a esercizi masturbatori che a lavori
artisticamente compiuti bramando segretamente il pop, anche nelle sue
declinazioni più estreme e kitsch. Forse ero semplicemente queer.
Ho sempre associato un certo tipo di elettronica dritta e meccanica a uno status quo straight, sia a livello strutturale sia per una tendenza a escludere leggerezza e autoironia – una serie di preconcetti mischiati assieme che si fanno postura: la VERA musica coincide solo e unicamente con la seriosità, la pesantezza, la difficoltà di ricezione, ristrettezza della tua audience: atrofizzando la musica di ricerca in un pattern limitante che la distinguesse (atto adolescenziale o complesso napoleonico?) nettamente da quell’universo frivolo e plebeo che era il pop.
Ricordo perfettamente il giorno in cui ho sentito per la prima volta Bipp. Già dai primi cinque secondi era chiarissimo che contenesse una nuova visione – sfacciata, orgogliosa, estrema, quasi parodistica e infantile con quella voce pitchata alla chipmunks – di quel pop di cui implicitamente bisognava vergognarsi. Ma era altrettanto chiaro che tutto attorno a quel nucleo parossistico ci fosse qualcosa di molto serio proprio perché non si prendeva sul serio, o forse talmente serio da mettere in discussione ciò che eravamo abituati a considerare tale: qualcosa di serio, come lo sono sono le scoperte rivoluzionarie di elementi chimici, formule matematiche o pianeti.
Intorno a quel nucleo c’era una corazza sonora da astronave aliena, una produzione sinestetica (“this song makes me hear shapes” citando un commento su un suo video), ipnotica, malinconica, speranzosa e sbalorditiva, proprio perché difficile da ricondurre a qualsiasi suono del passato. Non avevo mai sentito niente del genere, eppure era così vicino, così comprensibile, così familiare e assieme così artificiale.
Ho sempre associato un certo tipo di elettronica dritta e meccanica a uno status quo straight, sia a livello strutturale sia per una tendenza a escludere leggerezza e autoironia – una serie di preconcetti mischiati assieme che si fanno postura: la VERA musica coincide solo e unicamente con la seriosità, la pesantezza, la difficoltà di ricezione, ristrettezza della tua audience: atrofizzando la musica di ricerca in un pattern limitante che la distinguesse (atto adolescenziale o complesso napoleonico?) nettamente da quell’universo frivolo e plebeo che era il pop.
Ricordo perfettamente il giorno in cui ho sentito per la prima volta Bipp. Già dai primi cinque secondi era chiarissimo che contenesse una nuova visione – sfacciata, orgogliosa, estrema, quasi parodistica e infantile con quella voce pitchata alla chipmunks – di quel pop di cui implicitamente bisognava vergognarsi. Ma era altrettanto chiaro che tutto attorno a quel nucleo parossistico ci fosse qualcosa di molto serio proprio perché non si prendeva sul serio, o forse talmente serio da mettere in discussione ciò che eravamo abituati a considerare tale: qualcosa di serio, come lo sono sono le scoperte rivoluzionarie di elementi chimici, formule matematiche o pianeti.
Intorno a quel nucleo c’era una corazza sonora da astronave aliena, una produzione sinestetica (“this song makes me hear shapes” citando un commento su un suo video), ipnotica, malinconica, speranzosa e sbalorditiva, proprio perché difficile da ricondurre a qualsiasi suono del passato. Non avevo mai sentito niente del genere, eppure era così vicino, così comprensibile, così familiare e assieme così artificiale.
Esistono persone-ponte.
Sono sempre esistite. Tempo fa ho assistito alla resa finale di una residenza
teatrale di Odete, musicista e performer portoghese. L’artista aveva riletto la
storia del teatro evidenziando le narrazioni di persone trans e presentava un
dialogo con protagonista Tiresia, l’indovino cieco della mitologia greca.
Brevissimo excursus Wikipedia (proprio preso da Wikipedia):
Tiresia passeggiando sul monte Cillene (o secondo un’altra versione Citerone), incontrò due serpenti che si stavano accoppiando e ne uccise la femmina perché quella scena lo infastidì (secondo una variante egli si limitò solamente a dividerli percuotendo prima la femmina e successivamente il maschio). Nello stesso momento Tiresia fu tramutato da uomo a donna. Visse in questa condizione per sette anni provando tutti i piaceri che una donna potesse provare. Passato questo periodo venne a trovarsi di fronte alla stessa scena dei serpenti. Questa volta uccise il serpente maschio e nello stesso istante ritornò uomo. Un giorno Zeus ed Era si trovarono divisi da una controversia: se in amore provasse più piacere l’uomo o la donna. Non riuscendo a giungere a una conclusione, poiché Zeus sosteneva che fosse la donna mentre Era sosteneva che fosse l’uomo, decisero di chiamare in causa Tiresia, considerato l’unico che avrebbe potuto risolvere la disputa essendo stato sia uomo sia donna. Interpellato dagli dei, rispose che il piacere si compone di dieci parti: l’uomo ne prova solo una e la donna nove, quindi una donna prova un piacere nove volte più grande di quello di un uomo. La dea Era, infuriata perché Tiresia aveva svelato un tale segreto, lo fece diventare cieco, ma Zeus, per compensare il danno subito, gli diede la facoltà di prevedere il futuro e il dono di vivere per sette generazioni: gli dei greci, infatti, non possono cancellare ciò che hanno fatto o deciso altri dei.
“Non avevo mai sentito niente del genere, eppure era, così vicino, così comprensibile, così familiare e assieme così artificiale”.
Tiresia è una persona trans (trans-trans per la precisione) e la sua doppia transizione lo ha reso un individuo-ponte: pare raccontasse alle donne come dare piacere agli uomini e viceversa, e anche questo lo rendeva scomodo e inviso a molti. Le persone queer spesso assolvono a questa funzione.
Tiresia passeggiando sul monte Cillene (o secondo un’altra versione Citerone), incontrò due serpenti che si stavano accoppiando e ne uccise la femmina perché quella scena lo infastidì (secondo una variante egli si limitò solamente a dividerli percuotendo prima la femmina e successivamente il maschio). Nello stesso momento Tiresia fu tramutato da uomo a donna. Visse in questa condizione per sette anni provando tutti i piaceri che una donna potesse provare. Passato questo periodo venne a trovarsi di fronte alla stessa scena dei serpenti. Questa volta uccise il serpente maschio e nello stesso istante ritornò uomo. Un giorno Zeus ed Era si trovarono divisi da una controversia: se in amore provasse più piacere l’uomo o la donna. Non riuscendo a giungere a una conclusione, poiché Zeus sosteneva che fosse la donna mentre Era sosteneva che fosse l’uomo, decisero di chiamare in causa Tiresia, considerato l’unico che avrebbe potuto risolvere la disputa essendo stato sia uomo sia donna. Interpellato dagli dei, rispose che il piacere si compone di dieci parti: l’uomo ne prova solo una e la donna nove, quindi una donna prova un piacere nove volte più grande di quello di un uomo. La dea Era, infuriata perché Tiresia aveva svelato un tale segreto, lo fece diventare cieco, ma Zeus, per compensare il danno subito, gli diede la facoltà di prevedere il futuro e il dono di vivere per sette generazioni: gli dei greci, infatti, non possono cancellare ciò che hanno fatto o deciso altri dei.
“Non avevo mai sentito niente del genere, eppure era, così vicino, così comprensibile, così familiare e assieme così artificiale”.
Tiresia è una persona trans (trans-trans per la precisione) e la sua doppia transizione lo ha reso un individuo-ponte: pare raccontasse alle donne come dare piacere agli uomini e viceversa, e anche questo lo rendeva scomodo e inviso a molti. Le persone queer spesso assolvono a questa funzione.
Come SOPHIE, che
è stata ponte tra generi, tra underground e pop, tra generazioni diverse, tra
materiale e immateriale, organico e software.
L’anno scorso ho presentato Neon Screams (pubblicato in Italia da Nero col titolo Autotune Theory), libro che scandaglia il senso dell’autotune in generi come drill, trap, bashment e così via. “L’autotune era nato per uniformare le voci”, scrive Mackintosh, “togliendo incongruenze e rigidità naturali, ma qua viene usato per destabilizzare l’enunciazione, accentuando tremolio, estensione e confusione.”
Un po’ per ignoranza un po’ per una spinta anarco-rivendicativa, quando ho presentato il libro insieme Matteo Grilli (che saluto) abbiamo deciso di parlare di altri percorsi dell’alterazione vocale, in particolare di quello inaugurato da SOPHIE e dal collettivo PC Music che legava l’alterazione vocale al superamento del genere: “L’uso di Sophie di voci pitchate, come quelle di Cecile Believe su tracce come Faceshopping moltiplica le possibilità espressive della sua musica. Proprio come la realtà del viso di SOPHIE (‘I’m real when I shop my face’), la sua voce e le voci che campionava sono del corpo e del cloud, vivono nel pomo d’Adamo e nei circuiti stampati” scrive Sessi Kuwabara Blanchard in un articolo dal titolo How SOPHIE and Other Trans Musicians Are Using Vocal Modulation to Explore Gender.
Certo, ci sono dei precedenti, come le voci alien(ant)i e infestate in Silent Shout, album dei The Knife del 2006, in cui Karin Dreijer rifiuta di assumere una forma, e di conseguenza, un genere riconoscibile. In quel caso, però, il distacco dell’artista dal personaggio polimorfo che regge la sua performance (e lo fa tutt’ora nel progetto solista di Dreijer Fever Ray) rendeva più difficile l’identificazione del pubblico con il percorso personale dell’artista.
L’anno scorso ho presentato Neon Screams (pubblicato in Italia da Nero col titolo Autotune Theory), libro che scandaglia il senso dell’autotune in generi come drill, trap, bashment e così via. “L’autotune era nato per uniformare le voci”, scrive Mackintosh, “togliendo incongruenze e rigidità naturali, ma qua viene usato per destabilizzare l’enunciazione, accentuando tremolio, estensione e confusione.”
Un po’ per ignoranza un po’ per una spinta anarco-rivendicativa, quando ho presentato il libro insieme Matteo Grilli (che saluto) abbiamo deciso di parlare di altri percorsi dell’alterazione vocale, in particolare di quello inaugurato da SOPHIE e dal collettivo PC Music che legava l’alterazione vocale al superamento del genere: “L’uso di Sophie di voci pitchate, come quelle di Cecile Believe su tracce come Faceshopping moltiplica le possibilità espressive della sua musica. Proprio come la realtà del viso di SOPHIE (‘I’m real when I shop my face’), la sua voce e le voci che campionava sono del corpo e del cloud, vivono nel pomo d’Adamo e nei circuiti stampati” scrive Sessi Kuwabara Blanchard in un articolo dal titolo How SOPHIE and Other Trans Musicians Are Using Vocal Modulation to Explore Gender.
Certo, ci sono dei precedenti, come le voci alien(ant)i e infestate in Silent Shout, album dei The Knife del 2006, in cui Karin Dreijer rifiuta di assumere una forma, e di conseguenza, un genere riconoscibile. In quel caso, però, il distacco dell’artista dal personaggio polimorfo che regge la sua performance (e lo fa tutt’ora nel progetto solista di Dreijer Fever Ray) rendeva più difficile l’identificazione del pubblico con il percorso personale dell’artista.
Scrive Janus
Rose in un
articolo dal titolo SOPHIE Showed Me The
Cybernetic Divinity of Being Trans, pubblicato da «VICE» nel febbraio 2021,
a pochi giorni dalla sua morte.
“Songs like ‘Immaterial’ speak to the bizarre, alien, and unknowable nature
of the self—the body merely a vessel that we can shape and re-create to our
liking. We don’t owe anyone a sufficiently convincing backstory. In the world
SOPHIE envisions, we can change our bodies because we want to. We can
transition because we want to.”
La musica di
SOPHIE è inscindibile dal concetto di transness come qualcosa
che ha a che fare con le possibilità trans-umane della tecnologia,
l’alienizzazione, l’ascesa di creature aliene-animali dell’universo di Matthew
Barney.
La potenza di SOPHIE si è svelata lentamente, così come lei, nel tragitto dal gum-pop industriale, chirurgico, in qualche modo staccato dalla realtà corporea anche in virtù dell’uso di voci pitchate (come la sua stessa voce nella prima intervista concessa a BBC Radio1).
Da quell’embrione,
progressivamente, SOPHIE si è incarnata in se stessa fino all’uscita del suo
album Oil of Every Pearl’s Un-Insides, che apriva a un orizzonte
nuovo, in alcuni momenti talmente corporeo da trascendere nell’etereo, con
pezzi e video come It’s Okay to
Cry – apice del tragitto di transizione di SOPHIE stessa da
immateriale a fisico, in cui finalmente scopriva il suo volto, la sua voce e il
suo corpo:
“I just felt like I could use my body more as a material, as something to express through and not fight against, and that was really the shift that happened.” (Arte TRACKS, 2018)
“La mia prima impressione fu che fosse stato trasportato sul nostro pianeta da una civiltà aliena in un sistema solare lontano per accelerare la nostra vita intellettuale” diceva un professore dell’Università della California del matematico Grothendieck (in Quando abbiamo smesso di capire il mondo di Benjamín Labatut).
Ed è una sensazione simile quella che ha portato un’intera generazione a considerare SOPHIE non soltanto una musicista rivoluzionaria, ma una figura quasi profetica. Insieme a lei si apre la speranza di una nuova umanità – simile a quella della trilogia Xenogenesis di Octavia Butler – che scopre l’erotismo della tecnologia, l’osmosi dell’alieno e dell’umano in un linguaggio sensuale, tentacolare, trans-genere. E insieme quella volontà di esistere ed essere libere di accarezzare il mondo che è estremamente, radicalmente umana.
Da questo nuovo paradigma è nata una generazione di artisti queer che non hanno soltanto cambiato il modo in cui si fa musica, ma anche e soprattutto l’orizzonte semantico, politico e culturale di quell’anti-gender musicale. Sottogeneri come nightcore, hyperpop, bubblegum pop e happy hardcore, caratterizzati dall’imprescindibile legame con il pop cheesy da classifica, iniziarono a conquistare i club, destrutturandone i canoni e posizionandosi agli antipodi dello snobismo elitario che stava rendendo l’underground musicale un posto decisamente noioso. La rivoluzione ha riguardato soprattutto il modo in cui ci si raduna: piattaforme, feste e universi di riferimento per le persone queer di tutto il mondo, in cui sentire se stessi, gli altri, la comunità in un abbraccio che ha il calore di quando finalmente vai a vivere da solo in una casa tutta tua.
“Da questo nuovo paradigma è nata una generazione di artisti queer che non hanno soltanto cambiato il modo in cui si fa musica, ma anche e soprattutto l’orizzonte semantico, politico e culturale”.
Per fare onore alla citazione in esergo, non mi sembrava giusto parlare di SOPHIE al passato, perché è impossibile declinarla se non al presente-futuro, a come sta influendo e continuerà a influire sulla nostra cultura, non più soltanto nell’underground – ne è prova il fenomeno BRAT di quest’estate, adottato persino dalla campagna presidenziale di Harris, che non sarebbe mai esistito se SOPHIE non avesse forgiato il pop di Charli XCX (di cui è stata producer). È come se in nuce, in quelle prime sequenze, nelle parole di Bipp, fosse già scritto il futuro.
La potenza di SOPHIE si è svelata lentamente, così come lei, nel tragitto dal gum-pop industriale, chirurgico, in qualche modo staccato dalla realtà corporea anche in virtù dell’uso di voci pitchate (come la sua stessa voce nella prima intervista concessa a BBC Radio1).
“I just felt like I could use my body more as a material, as something to express through and not fight against, and that was really the shift that happened.” (Arte TRACKS, 2018)
“La mia prima impressione fu che fosse stato trasportato sul nostro pianeta da una civiltà aliena in un sistema solare lontano per accelerare la nostra vita intellettuale” diceva un professore dell’Università della California del matematico Grothendieck (in Quando abbiamo smesso di capire il mondo di Benjamín Labatut).
Ed è una sensazione simile quella che ha portato un’intera generazione a considerare SOPHIE non soltanto una musicista rivoluzionaria, ma una figura quasi profetica. Insieme a lei si apre la speranza di una nuova umanità – simile a quella della trilogia Xenogenesis di Octavia Butler – che scopre l’erotismo della tecnologia, l’osmosi dell’alieno e dell’umano in un linguaggio sensuale, tentacolare, trans-genere. E insieme quella volontà di esistere ed essere libere di accarezzare il mondo che è estremamente, radicalmente umana.
Da questo nuovo paradigma è nata una generazione di artisti queer che non hanno soltanto cambiato il modo in cui si fa musica, ma anche e soprattutto l’orizzonte semantico, politico e culturale di quell’anti-gender musicale. Sottogeneri come nightcore, hyperpop, bubblegum pop e happy hardcore, caratterizzati dall’imprescindibile legame con il pop cheesy da classifica, iniziarono a conquistare i club, destrutturandone i canoni e posizionandosi agli antipodi dello snobismo elitario che stava rendendo l’underground musicale un posto decisamente noioso. La rivoluzione ha riguardato soprattutto il modo in cui ci si raduna: piattaforme, feste e universi di riferimento per le persone queer di tutto il mondo, in cui sentire se stessi, gli altri, la comunità in un abbraccio che ha il calore di quando finalmente vai a vivere da solo in una casa tutta tua.
“Da questo nuovo paradigma è nata una generazione di artisti queer che non hanno soltanto cambiato il modo in cui si fa musica, ma anche e soprattutto l’orizzonte semantico, politico e culturale”.
Per fare onore alla citazione in esergo, non mi sembrava giusto parlare di SOPHIE al passato, perché è impossibile declinarla se non al presente-futuro, a come sta influendo e continuerà a influire sulla nostra cultura, non più soltanto nell’underground – ne è prova il fenomeno BRAT di quest’estate, adottato persino dalla campagna presidenziale di Harris, che non sarebbe mai esistito se SOPHIE non avesse forgiato il pop di Charli XCX (di cui è stata producer). È come se in nuce, in quelle prime sequenze, nelle parole di Bipp, fosse già scritto il futuro.
I can make you feel better, if you want to
I can make you feel better, and you know you will…
Virginia W. Ricci
Virginia W. Ricci è autrice. È stata head of content di Noisey e editor di VICE Italia e ha collaborato con numerose realtà editoriali e programmi televisivi.