Vince meritatamente «La stanza accanto» di Pedro
Almodóvar, il Gran premio della giuria all’italiano «Vermiglio» di Delpero.
Volpi a Kidman e Lindon. Peccato solo la sceneggiatura a Salles. «Queer» grande
escluso.
Questi sì che
son leoni che ruggiscono, graffiano, mordono. La giuria di Huppert, alla guida
di una squadra di spessore (Gray, Haigh, Holland, Mendonça Filho, Sissako,
Tornatore, von Heinz, Ziyi), ha guardato alla qualità, ma soprattutto alla
politica per una competizione che ha visto un solo film eccezionale, quello che
ha vinto, La stanza accanto di Pedro Almodóvar, uno molto
buono, Ainda Estou aqui di Walter Salles, una sorpresa
italiana, Vermiglio, e per il resto pellicole ben confezionate, che
hanno convogliato stelle con cui abbagliare il red carpet, o tenuto fede al
Cencelli della distribuzione geografica o di genere.
Ma la vittoria di Almodóvar compensa tutto. La stanza accanto con Tilda Swinton e Julianne Moore ribadisce l’eutanasia come diritto fondamentale, quello di poter scegliere come terminare la propria vita dignitosamente quando il dolore la rende insopportabile. Swinton è Martha, una corrispondente di guerra, affetta da un cancro terminale, e Ingrid, interpretata da Moore, è una scrittrice di fama, che riprende a frequentare Martha, appena saputo della sua malattia.
Almodóvar rastrema i sentimenti, li calibra, c’è partecipazione ma non lacerazione, mentre i colori accesi sono limitati al vestiario. La sua vena barocca si mette da parte per dare un messaggio di umanità e di speranza, positivo nella solidarietà e nella trasmissione dell’amore attraverso un rapporto basato su generosità e accoglienza.
Ma la vittoria di Almodóvar compensa tutto. La stanza accanto con Tilda Swinton e Julianne Moore ribadisce l’eutanasia come diritto fondamentale, quello di poter scegliere come terminare la propria vita dignitosamente quando il dolore la rende insopportabile. Swinton è Martha, una corrispondente di guerra, affetta da un cancro terminale, e Ingrid, interpretata da Moore, è una scrittrice di fama, che riprende a frequentare Martha, appena saputo della sua malattia.
Almodóvar rastrema i sentimenti, li calibra, c’è partecipazione ma non lacerazione, mentre i colori accesi sono limitati al vestiario. La sua vena barocca si mette da parte per dare un messaggio di umanità e di speranza, positivo nella solidarietà e nella trasmissione dell’amore attraverso un rapporto basato su generosità e accoglienza.
Gran premio della Giuria all’italiano Vermiglio di Maura Delpero
Bella sorpresa
il gran premio della Giuria a Vermiglio di Maura Delpero, un
incoraggiamento al cinema italiano di sguardo differente, originale,
universale. Con la fotografia di Michail Kričman, che rende il paesaggio un
personaggio accanto a quello del maestro di scuola di Tommaso Ragno e della
giovane sposa Lucia (Martina Scrinzi), Delpero racconta le famiglie spezzate
dalla Seconda guerra mondiale, private delle figure maschili in grado di andare
al fronte. Lo fa in un contesto alpino, con il dialetto della trentina Val di
Sole, dove il modo di vivere così schivo e sacrificato tocca corde di ricordi
familiari ancestrali, comuni a tutti.
La regia è andata a The Brutalist di Brady Corbet con Adrien Brody protagonista, che tiene sulle spalle la storia di László Tóth, architetto ungherese emigrato negli Stati Uniti nel 1947, importatore della corrente del brutalismo in America. Dalla povertà alla rinnovata fama che aveva in patria, da una storia di dipendenza agli oppiacei al ricongiungimento familiare, ai fantasmi dell’Olocausto: forse troppi fili si snodano in maniera non sempre lineare e sobria, tranne lui, Brody, che rimane sempre all’altezza del suo personaggio, anche nella cenere.
La regia è andata a The Brutalist di Brady Corbet con Adrien Brody protagonista, che tiene sulle spalle la storia di László Tóth, architetto ungherese emigrato negli Stati Uniti nel 1947, importatore della corrente del brutalismo in America. Dalla povertà alla rinnovata fama che aveva in patria, da una storia di dipendenza agli oppiacei al ricongiungimento familiare, ai fantasmi dell’Olocausto: forse troppi fili si snodano in maniera non sempre lineare e sobria, tranne lui, Brody, che rimane sempre all’altezza del suo personaggio, anche nella cenere.
A Nicole Kidman la Coppa Volpi femminile
A questo punto
avremmo voluto scrivere che la Coppa Volpi femminile è andata a Fernanda Torres
per Ainda Estou aqui di Walter Salles, premiato solo per la
sceneggiatura di Murilo Hauser e Heitor Lorega su cui il regista di Central
do brasil ha girato una storia di dittatura nel suo Paese,
dall’omonimo libro di memorie di Marcelo Rubens Paiva. Protagonista del film
inizialmente è lui, Marcelo, ex deputato di centro sinistra, ma soprattutto il
suo sequestro da parte dell’esercito. Poi entra in scena la moglie Eunice,
Fernanda Torres, che persegue la verità sull’omicidio del marito, ottenendone
il certificato di morte a distanza di oltre vent’anni dal delitto, con una
determinazione e una forza cui inchinarsi. Nonostante la statuaria Torres, la
migliore interpretazione femminile se l’è aggiudicata Nicole Kidman per Babygirl di
Halina Reijn.
Anche qui la lettura del premio è politica. Una regista donna che cambia l’immaginario di erotismo e potere: non più uomo maturo con una giovane, ma, al contrario, una top manager che si abbandona al rischio e alla fantasia di una sessualità spinta con uno stagista. Kidman purtroppo non era in sala per il lutto per la scomparsa della madre. Anche se il tema affrontato da Jouer avec le feu di Delphine e Muriel Coulin è importante, Huppert deve aver fatto pesare il suo ruolo da presidente per far assegnare la Volpi maschile a Vincent Lindon. Siamo in una Francia proletaria e di provincia, dove il sempre bravissimo Lindon è il ferroviere cinquantenne Pierre. Vedovo, si trova ad allevare da solo i due figli, Louis (Stefan Crepon) e Fus (Benjamin Voisin), trasmettendo ideali di uomo di sinistra convinto. Mentre Louis si trasferisce a Parigi a studiare all’università, Fus, metalmeccanico, si perde nella fascinazione per l’estrema destra. Il film è una disamina politica e sociologica dell’ascesa dell’estremismo di destra che trova conferma nelle recenti elezioni in Germania e nella divisione che corrode la Francia anche dopo la nomina da parte di Macron di Barnier, facendo infuriare Mélenchon. Si aggiunge la vena psicologica dell’incomunicabilità tra un padre e un figlio nel tradimento ideologico.
Peccato per Daniel Craig nei panni di Lee, protagonista del romanzo parzialmente autobiografico Queer di William S. Burroughs, anche se il film ha seguito troppe piste, finendo per ingarbugliarsi in un mescolone di generi, da Indiana Jones ai classici hollywoodiani. Bellissima però la prima parte sull’innamoramento di Lee per un giovane selvatico e autocentrato (Drew Starkey), grazie a cui Craig esce dalle parti di macho. La pericolosa e continua messa in discussione del diritto all’aborto, dove non si sia già giunti a renderlo illegale, è l’unica ragione per cui dare il premio speciale della giuria ad April della georgiana Dea Kulumbegashvili, storia della ginecologa Nina (Ia Sukhitashvili), indagata dopo la morte di un neonato durante il parto per la sua attività di mammana. Il dramma apre le porte a quadri di squallore e deprivazione sociale, conseguenza della sottrazione dei diritti primari. Lo stile feroce non è sempre empatico rispetto alla pena femminile.
Di nuovo la Francia, infine, nel palmares con Leurs enfants après eux dei gemelli Ludovic e Zoran Boukherma. Cresciuti nella scuola di cinema gratuita fondata da Luc Besson, ambientano il loro film nel 1992, loro anno di nascita. Ma forse il premio era inevitabile, perché era l’unico film che potesse individuare con il Mastroianni un chiaro attore emergente. È Paul Kircher per il ruolo di Anthony, che nella calda estate della provincia vive il primo amore e la prima rivalità, contro il ribelle del quartiere, Hacine (Sayyid El Alami), figura esiziale per la sua famiglia. Quanto al futuro, la più bella frase l’ha detta Brady Corbet: «Per tutti i bambini che meritano un mondo senza confini e senza passaporto».
Anche qui la lettura del premio è politica. Una regista donna che cambia l’immaginario di erotismo e potere: non più uomo maturo con una giovane, ma, al contrario, una top manager che si abbandona al rischio e alla fantasia di una sessualità spinta con uno stagista. Kidman purtroppo non era in sala per il lutto per la scomparsa della madre. Anche se il tema affrontato da Jouer avec le feu di Delphine e Muriel Coulin è importante, Huppert deve aver fatto pesare il suo ruolo da presidente per far assegnare la Volpi maschile a Vincent Lindon. Siamo in una Francia proletaria e di provincia, dove il sempre bravissimo Lindon è il ferroviere cinquantenne Pierre. Vedovo, si trova ad allevare da solo i due figli, Louis (Stefan Crepon) e Fus (Benjamin Voisin), trasmettendo ideali di uomo di sinistra convinto. Mentre Louis si trasferisce a Parigi a studiare all’università, Fus, metalmeccanico, si perde nella fascinazione per l’estrema destra. Il film è una disamina politica e sociologica dell’ascesa dell’estremismo di destra che trova conferma nelle recenti elezioni in Germania e nella divisione che corrode la Francia anche dopo la nomina da parte di Macron di Barnier, facendo infuriare Mélenchon. Si aggiunge la vena psicologica dell’incomunicabilità tra un padre e un figlio nel tradimento ideologico.
Peccato per Daniel Craig nei panni di Lee, protagonista del romanzo parzialmente autobiografico Queer di William S. Burroughs, anche se il film ha seguito troppe piste, finendo per ingarbugliarsi in un mescolone di generi, da Indiana Jones ai classici hollywoodiani. Bellissima però la prima parte sull’innamoramento di Lee per un giovane selvatico e autocentrato (Drew Starkey), grazie a cui Craig esce dalle parti di macho. La pericolosa e continua messa in discussione del diritto all’aborto, dove non si sia già giunti a renderlo illegale, è l’unica ragione per cui dare il premio speciale della giuria ad April della georgiana Dea Kulumbegashvili, storia della ginecologa Nina (Ia Sukhitashvili), indagata dopo la morte di un neonato durante il parto per la sua attività di mammana. Il dramma apre le porte a quadri di squallore e deprivazione sociale, conseguenza della sottrazione dei diritti primari. Lo stile feroce non è sempre empatico rispetto alla pena femminile.
Di nuovo la Francia, infine, nel palmares con Leurs enfants après eux dei gemelli Ludovic e Zoran Boukherma. Cresciuti nella scuola di cinema gratuita fondata da Luc Besson, ambientano il loro film nel 1992, loro anno di nascita. Ma forse il premio era inevitabile, perché era l’unico film che potesse individuare con il Mastroianni un chiaro attore emergente. È Paul Kircher per il ruolo di Anthony, che nella calda estate della provincia vive il primo amore e la prima rivalità, contro il ribelle del quartiere, Hacine (Sayyid El Alami), figura esiziale per la sua famiglia. Quanto al futuro, la più bella frase l’ha detta Brady Corbet: «Per tutti i bambini che meritano un mondo senza confini e senza passaporto».