Ci sono suicidi
che pensati, immaginati, lavorati dall’inconscio spingono all’emulazione, sono
icone contagiose. Poi ci sono suicidi che funzionano invece come muse: non
avrai mai risposte ma l’eco del vuoto ti dà comunque una direzione. La
direzione di Sguardi penetranti e obliqui è quella di un album
di famiglia che da un lato, e a un livello soggiacente, stringe «in un solo
nodo le biografie di ogni donna con quella di Evelyn» (p. 7), dall’altro crea
«un intreccio di storie di molte donne, tutte fotografe, che hanno attraversato
un buon pezzo del secolo passato» (p. 8). Il libro si compone così di venti
fotografie-metonimia e di venti microbiografie che, per brevità ed esemplarità,
ricordano le vidas idealizzate dei trovatori provenzali. E
appunto Mazzucchelli fa qualcosa che ricorda i gesti di salvezza culturale di
certi scriptoria medievali, perché assembla un iconotesto che
trascende le mere finalità del saggio e si installa in una zona più intima e
collettiva: «L’album che ne risulta è la sintesi di tante affinità elettive. Il
dato comune è l’appartenenza: ciascuna di queste donne condivide con me una
parte del proprio volere e sentire, e io sento di appartenere a tutte loro
perché, assieme, rappresentano una storia ideale nella quale posso riflettermi
e costruire la mia storia reale» (pp. 10-11). L’ordine è quello di una specie
di genealogia: antenate (Grete Stern, Margaret Bourke-White, Lee Miller, Eve
Arnold), nonne (Ruth Orkin, Lisetta Carmi, Sabine Weiss, Carla Cerati, Letizia
Battaglia, Chiara Samugheo, Grace Robertson), madri (Sarah Moon, Libuše
Jarcovjáková, Nan Goldin, Jitka Hanzlová), sorelle (Luisa Lambri, Jessica
Backhaus, Viviane Sassen, Moira Ricci, Rinko Kawauchi). Ogni generazione ha una
connotazione precisa: irrequietezza, ribellione, trasgressione, riflessività.
Ma non è questione di parabola o di percorso evolutivo, si tratta di un corpo a
corpo nel tempo per fare emergere «con la maggiore nettezza possibile ciò che
le donne non sono e non vogliono essere». (p. 7)
In presenza di
un vuoto spinto, di una lacuna, di un gran silenzio emotivo e cognitivo la
domanda «perché?» è la più inappropriata, è la meno raccomandabile. Inutile
chiedersi perché Evelyn McHale si sia suicidata, qualunque risposta sarebbe
insufficiente. Al contrario, amplificare la vibrazione muta è l’unico modo per
fare spazio a risposte “penetranti e oblique”, come appunto le venti fotografe
di questo libro sono ciascuna a suo modo un album di risposte a interrogativi
non ancora formulati. Gli interrogativi non formulati, a me pare, sono
contenuti nelle fotografie. Prendiamo ad esempio il ritratto di Margaret
Bourke-White che precede la sua “vita”. Il suo studio è all’ultimo piano del
Chrysler Building e Margaret decide di compiere un gesto simmetrico e opposto a
quello di Evely McHale sull’Empire State Building. Anche lei si sporge dal
davanzale, e striscia con una macchina fotografica decisamente ingombrante su
una delle otto aquile che, come gargolle, si protendono sul vuoto. Lì, invece
di cadere sul marciapiede sottostante, Margaret si fa fotografare dal suo
collaboratore e lancia simbolicamente verso l’alto un’immagine promozionale di
sé che esprime audacia e determinazione. Nel suo esorcizzare la caduta e la
paura del salto, formula implicitamente una serie di domande su chi “non vuole
essere”, su quali marciapiedi non vuole sfracellarsi, e al tempo stesso sceglie
i vuoti necessari nei quali sente di dover saltare, per rimettersi in
discussione, per ridefinire il proprio ruolo artistico e conoscitivo. Così
lascia New York per l’altra America, quella della siccità del 1934,
quella della povertà nera e bianca nel Sud rurale, nel 1941 fotografa il cielo
di Mosca bombardata dai Tedeschi, nel 1945 vede aprirsi i cancelli di
Buchenwald, poi fotografa Gandhi, il Sudafrica dell’apartheid, e infine sposta
tutto il lavoro sul proprio corpo malato di Parkinson. Dalla foto “eroica” del
1935 un salto nel vuoto, quello che ha scelto lei, lungo non una manciata di
secondi, ma trentacinque anni.
Oppure Grace Robertson. Stazioni ferroviarie, cantieri, piscine, campi sportivi, scuole, salotti, parchi pubblici, fiere, mostre, bambine che fanno i compiti, gallerie, mercati di bestiame, sale da ballo. Una fotografa che sa mimetizzarsi e che per questo arriva a toccare la verità più semplice, più innocente, quell’infraordinario che è quasi perfettamente invisibile e che invece è un altro abisso sospeso sotto la pelle delle apparenze. Bourke-White e Robertson. Poi ce ne sono altre diciotto. Così Silvia Mazzucchelli firma un libro intenso, scritto davvero bene, che a fine lettura ti lascia la sensazione di aver fatto visita a una comunità di sguardi sul mondo che hanno reso quel mondo a volte più intelligibile, a volte più misterioso e muto. Un libro di domande e di non-risposte che proprio per questo rendono ancora più forte il significato della fotografia, perché dietro ogni fotografia c’è una storia, e dietro ogni storia c’è una vita. L’immagine fotografica è sempre un morceau choisi, un lampo ambiguo su cui l’interpretazione può inciampare, in cui il fuoricampo funziona come un emporio di metafore, o quantomeno di dubbi. È anche una metonimia, il pegno di qualcosa che non c’è, oppure che non si dà, o che nasconde una cosa proprio mostrandone un’altra. Accade qualcosa del genere in Sguardi penetranti e obliqui, ed è come se questo libro di fotografe e fotografie, in maniera mimetica, sapesse riprodurre con le parole l’ontologia e la fenomenologia della “camera chiara”. Perché le immagini sono solo ventuno, ma sembrano molte di più, come la tavola di un Bilderatlas a cui ciascuno aggiunge i propri scatti, quelli che ha immaginato leggendo ed entrando in queste vite, oppure quelli che venuti dalla sua vita conscia o inconscia continuano a dilatare il vuoto e il desiderio del salto.