Pubblichiamo di seguito due pezzi tratti da “Avvenire” di Luciano Moia. Il primo del 13 febbraio 2023 e il secondo del 19 settembre 2024 su “i bambini contesi”.
Il tema è di assoluta rilevanza etica, giuridica, politica. Purtroppo la persona che lo ha sollevato e lottato contro la burocrazia giudiziaria, per riavere i suoi figli, Marinella Colombo, è scomparsa pochi giorni fa.
(NdR)
di Luciano Moia
tratto da Avvenire del 13 febbraio 2023
Genitori “orfani” e soli: «Ci sentiamo abbandonati»
Quando si spezzano i matrimoni misti, se uno dei coniugi decide di tornare in patria con il figlio, per il genitore italiano le possibilità di rivedere il piccolo sono pochissime.
Trecento o
tremila? Nessuno riesce a stabilirlo. Così il dramma dei bambini sottratti e
portati all’estero da uno dei due genitori si allarga. Dopo i nuovi casi di cui
ci siamo occupati nei giorni scorsi (vedi box a centro pagina), cerchiamo di
approfondire il tema con Marinella Colombo, esperta di diritto di famiglia
internazionale e lei stessa vittima di una vicenda di sottrazione di cui si è
parlato a lungo.
Bambini figli di
“coppie miste” portati all’estero dopo la disgregazione della famiglia. Per il
genitore italiano significa quasi sempre perdere ogni contatto con i propri
figli.
L’allontanamento con il cambio del luogo di residenza può sempre costituire un
problema, anche se il trasferimento avviene all’interno dello Stato italiano.
Il problema con l’estero consiste nel fatto che, oltre alla lontananza fisica,
ci si trova inoltre di fronte a sistemi giuridici differenti che, con il
trasloco, diventano gli unici competenti sui bambini. Tali sistemi sono
differenti perché il concetto di famiglia e di “bene del bambino” sono
culturalmente diversi in Paesi che hanno appunto una cultura differente.
Sbagliato è volerci far credere che non ci siano differenze e che i tribunali
siano in grado di tutelare i bambini.
Secondo i dati della Direzione generale per gli italiani all’estero presso il ministero degli Esteri sarebbero circa 300 ogni anno i casi di cui si ha conoscenza. Lei ha più volte detto che in realtà potrebbero essere tre volte tanto perché solo una minima parte finisce nel conteggio del ministero. E che, soprattutto, non sappiamo quanti vengono risolti. È davvero così?
Il numero dei bambini binazionali orfani di un genitore vivente è certamente in aumento, sia perché l’Italia è diventata un Paese di immigrazione, ma anche perché la situazione economica e i nostri stessi media spingono i giovani italiani a spostarsi all’estero. Non si può quantificare il fenomeno né dei bambini portati all’estero, né dei bambini italiani nati all’estero che perdono il genitore italiano, semplicemente perché non esistono tali statistiche. I genitori italiani vittime di sottrazioni, così come i ragazzi italiani che si sono trasferiti all’estero e dopo essere diventati genitori hanno perso senza un valido motivo ogni contatto con i figli vengono semplicemente lasciati soli. Spesso anche la propria famiglia in Italia prende le distanze e non crede che si possa essere privati di un diritto fondamentale senza aver commesso nulla. Questo aggiunge disperazione alla disperazione.
Perché la legislazione italiana non permette interventi più tempestivi e più mirati?
Sarò franca, perché la politica italiana non lo vuole. Per timore di incrinare i rapporti diplomatici o di perdere commesse e vantaggi economici preferisce non fare nulla.
La Convenzione dell’Aja è ancora un accordo internazionale efficace e sarebbero opportune delle modifiche?
È praticamente impossibile apportare modifiche ad una Convenzione già firmata dalla maggioranza dei Paesi del mondo. Chi propone modifiche alla Convenzione sta indicando uno specchietto per le allodole. Qualcos’altro è invece possibile e sarebbe di grande aiuto: le Convenzioni devono essere ratificate con legge nazionale, la ratifica fatta dall’Italia è ben diversa da quella per esempio della Germania. Va cambiata, perché mentre ogni Paese tutela il proprio connazionale, ancora oggi l’Italia tutela il genitore straniero. Anni fa ho scritto un libro su questo tema, “La tutela oltre la frontiera. Bambini bilingue senza voce – Bambini binazionali senza diritti”, mettendo a confronto nel dettaglio le due leggi di ratifica (https://www.bonfirraroeditore. it/prodotto/la-tutela-oltre-lafrontiera/, si trova anche online sulle principali piattaforme). Un primo importante passo, sarebbe dunque modificare la legge di ratifica del 15 gennaio 1994 n. 64 con cui il nostro Paese ha recepito questa Convenzione. Anche in questo caso ho preparato, insieme agli avvocati con cui collaboro, una proposta dettagliata di modifica. Alcuni deputati di partiti diversi avevano espresso interesse, ma non si è mai riusciti a calendarizzarla.
Lei che si
confronta con questo problema da tanti anni ritiene che la sensibilità verso
questo problema sia cresciuta o tutto rimane come prima?
Purtroppo, fino a quando l’opinione pubblica non verrà correttamente informata e la politica non deciderà di cambiare atteggiamento, la sensibilità che pur è decisamente presente negli italiani, non può emergere in mancanza di informazione. Si parla solo ogni tanto di sottrazioni e quando se ne parla, si presenta una vicenda personale tralasciando o ignorando completamente le storture che sono alla base. Quando il bambino è all’estero la prima domanda è sempre “riesce a vederlo? Quando gli ha parlato l’ultima volta?” Come se parlare una volta ogni tanto con il proprio figlio, magari di soli 4 o 5 anni, significasse fare il padre o la madre.
Quali sono gli
Stati esteri con cui è più difficile confrontarsi? Qualcuno indica come
particolarmente impenetrabile il mondo arabo. È d’accordo?
Non sono
d’accordo. Se il mondo arabo può apparire impenetrabile è però vero che è più
che noto che il diritto di famiglia dei paesi arabi è diverso dal nostro.
Alcuni Paesi arabi non hanno neppure ratificato la convenzione dell’Aja del
1980 sulla sottrazione internazionale di minori. È dunque con conoscenza di
causa che si affronta una tale unione e, se purtroppo si arriva ad una separazione,
i rischi sono noti e unanimemente riconosciuti. La solidarietà e il sostegno
non verranno comunque negati a chi è, senza dubbio e per tutti, una vittima.
Diversa è la condizione di chi si trova a separarsi da un cittadino tedesco.
Quanto racconta la propria vicenda non viene creduto. Da nessuno. La Germania è
in Europa, oltre alla Convenzione ha firmato anche i regolamenti europei in
materia, ci dicono. Nessuno crede che il diritto di famiglia tedesco sia
diverso dal nostro. Nessuno immagina che un padre non sposato, pur avendo
riconosciuto e dato il suo cognome al figlio, non ha nessun diritto sul bambino
a meno che la madre non voglia concederglielo. Nessuno crede che i giudici
tedeschi vietino i contatti (vietate anche le telefonate e i biglietti di
auguri!) ad un genitore non tedesco solo perché il genitore tedesco afferma,
senza dover provare nulla, che i figli non desiderano più vederlo/la.
Profondamente colpevole è dunque chi ordina un rimpatrio o legalizza un
trasferimento. Ogni giudice italiano che manda un bambino a vivere in Germania
(a seguito di una richiesta di rimpatrio o perché il genitore tedesco, di
solito la madre, dichiara di voler rientrare nel suo Paese) dovrebbe sapere che
è responsabile della perdita da parte del bambino del genitore italiano, di
tutta la famiglia, della lingua e della cultura italiana. Sembra un’accusa, ma
è un appello alla pesante responsabilità di cui un giudice, scegliendo tale
professione, si fa carico. Troppe vite sono state e continuano ad essere rovinate
da chi è invece chiamato a tutelarle.
di Luciano Moia
tratto da “Avvenire” del 19 settembre 2024
Aveva trascorso 18 mesi ai domiciliari, nonostante una sentenza favorevole della Cassazione, perché i tribunali italiani si erano "arresi" allo Jugendamt, il sistema tedesco di protezione dei minori.
Addio a Marinella
Colombo, la mamma milanese diventata punto di riferimento per tutti i genitori
che lottano per riavere i figli ingiustamente sottratti dalla burocrazia
giudiziaria. La donna è morta nel pomeriggio di ieri in un ospedale milanese,
stroncata da un male scoperto da poche settimane che ha avuto un’evoluzione
rapidissima. Nessuno potrà mai accertare quanto abbiano inciso sul suo fisico
minuto quei lunghi anni di sofferenza, di ansia e di rabbia trascorsi in
battaglie giudiziarie nel tentativo di recuperare i figli Leonardo e Nicolò,
prelevati a scuola dai carabinieri e portati di forza in Germania.
Era il 2009. Lo
Stato italiano si era arreso allo Jugendamt tedesco – di quella nazionalità era
infatti l’ex marito della donna - il sistema di tutela per i minori secondo cui
la provenienza dalla Germania, la presenza di un genitore tedesco o anche un
breve periodo trascorso sul suolo tedesco devono sempre avere la prevalenza.
Sistema assurdo, più volte condannato in sede europea – ci sono centinaia di
ricorsi aperti – ma tuttora vigente e a causa del quale Marinella Colombo ha
perso i suoi figli, nonostante una sentenza favorevole della Cassazione.
Sconvolta per l’ingiustizia subita, la donna nel 2010 andò a riprendersi i suoi
ragazzi con un colpo di mano e li riportò in Italia dove visse
“clandestinamente” per otto mesi. Alla fine, inseguita da un mandato d’arresto
europeo, si arrese e venne condannata a 18 mesi di arresti domiciliari e una
serie di sanzioni pesantissime che le costarono anche il pignoramento della casa.
I figli vennero di nuovo portati in Germania e a lei fu fatto divieto di
vederli. Otto anni di lontananza. Un dolore insopportabile. Ma lei non si è
arresa. È tornata a studiare. Ha preso un Master in Diritto, tutela e
protezione dei minori, ha aperto uno sportello per aiutare i genitori che, come
lei, si sono visti allontanare i figli dal sistema familiare tedesco ma anche
per altre situazioni di conflitto. In questi anni si è occupata di tantissimi
casi e ha dato una mano a decine e decine di madri e di padri resi “orfani”
dalle pieghe di una burocrazia giudiziaria talvolta cieca e insensibile.
Nel febbraio
dello scorso anno, in un’intervista che ci aveva rilasciato (vedi qui) sul problema dei bambini sottratti e portati all’estero, ci aveva
spiegato che “la Germania è in Europa, oltre alla Convenzione ha firmato anche
i regolamenti europei in materia, ci dicono. Nessuno crede che il diritto di famiglia
tedesco sia diverso dal nostro. Nessuno immagina che un padre non sposato, pur
avendo riconosciuto e dato il suo cognome al figlio, non ha nessun diritto sul
bambino a meno che la madre non voglia concederglielo. Nessuno crede che i
giudici tedeschi vietino i contatti (vietate anche le telefonate e i biglietti
di auguri!) ad un genitore non tedesco solo perché il genitore tedesco afferma,
senza dover provare nulla, che i figli non desiderano più vederlo/la.
Profondamente colpevole è dunque chi ordina un rimpatrio o legalizza un
trasferimento. Ogni giudice italiano che manda un bambino a vivere in Germania
(a seguito di una richiesta di rimpatrio o perché il genitore tedesco, di
solito la madre, dichiara di voler rientrare nel suo Paese) dovrebbe sapere che
è responsabile della perdita da parte del bambino del genitore italiano, di
tutta la famiglia, della lingua e della cultura italiana. Sembra un’accusa, ma
è un appello alla pesante responsabilità di cui un giudice, scegliendo tale
professione, si fa carico. Troppe vite sono state e continuano ad essere
rovinate da chi è invece chiamato a tutelarle”.
Proprio come la sua anche se, qualche anno fa, Marinella ha avuto la grande soddisfazione di vedere tornare i suoi figli. Diventati maggiorenni, Leonardo e Nicolò hanno potuto finalmente scegliere di vivere con quella mamma che aveva sfidato il sistema giudiziario più duro d’Europa ed era finita in carcere pur di poter riabbracciare i suoi ragazzi.