di Lucia Capuzzi
A cinque anni,
sei mesi e sei giorni di distanza, il Venezuela è tornato al “valzer dei due
presidenti”. Uno è sempre lo stesso: Nicolás Maduro. Il rivale stavolta non è
l’astro nascente dell’opposizione Juan Guaidó, pronto a reclamare la guida del
Paese per una presunta vacanza di potere. Al suo posto c’è l’anziano e
compassato ex-diplomatico Edmundo González, rappresentante designato del fronte
anti-chavista che, domenica, ha partecipato alle elezioni con un vantaggio
compreso tra i 10 e i 20 punti secondo i sondaggi indipendenti. Non è questa,
però, l’unica differenza. Ad essere drasticamente cambiato è lo scenario
internazionale. La guerra in Ucraina e la conseguente fame mondiale di energia
hanno reso particolarmente appetibile per Washington – ma anche per l’Ue – il
petrolio di Caracas. Le licenze parziali a Chevron per acquistare il greggio
venezuelano rientrano in quest’ottica. Per Maduro, l’occasione era ghiotta.
Dopo le sanzioni draconiane all’industria petrolifera da parte
dell’Amministrazione Trump, grande sostenitrice di Guaidó, la presidenza Biden
offriva una finestra opportunità per rientrare nei mercati internazionali e
puntellare il fragile recupero economico degli ultimi anni.
Una convergenza
singolare di interessi da cui è nato il dialogo di Doha. Nel corso del 2023,
rappresentanti di Usa e Venezuela si sono incontrati in segreto in Qatar. Il
negoziato è culminato nell’accordo di Barbados del 23 ottobre scorso tra
governo e opposizione per un “voto libero e trasparente”, premessa necessaria della
normalizzazione internazionale. Questo spiega perché il fronte anti-chavista
abbia sentito questa volta di avere la possibilità reale di scalzare Maduro, al
potere dal 2013.
La presenza di
osservatori internazionali - con tutti i limiti, molte delegazioni sono state
respinte all’ultimo - doveva suggellare la democraticità del processo, unica
garanzia per un nuovo corso con Washington e Unione Europea.
Reale o frutto
di manipolazione, la vittoria di Maduro si rivela una sconfitta della strategia
che egli stesso ha perseguito negli ultimi due anni. Il Venezuela ha fallito
nel convincere l’Occidente di avere rispettato gli impegni presi. Il verdetto
del Consiglio elettorale nazionale appare tutt’altro che inoppugnabile. Non
solo perché la maggioranza dei suoi esponenti e lo stesso capo sono fedelissimi
del presidente. L’esito è arrivato in ritardo ed è stato dato solo il risultato
complessivo. L’opposizione, in particolare, sostiene di non avere avuto accesso
alle copie cartacee delle schede per verificare la corrispondenza con i
conteggi digitali. Al grido di brogli, subito ha attribuito la presidenza a
Edmundo González.
Cinque anni, sei
mesi e sei giorni dopo, rispunta lo spettro dei “due presidenti”. Era uno degli
scenari possibili. Il più preoccupante. Maduro ostenta sicurezza. “Volevano
fare un golpe contro di me, il mondo rispetti la sovranità del Venezuela”, ha
tuonato appena sono stati diffusi i risultati. Anche il leader, però, sa che le
elezioni di domenica potrebbero rivelarsi un boomerang. Il Venezuela si trova
di nuovo sulla linea di faglia fra i due blocchi geopolitici. Russia, Cina,
Iran e, i soliti alleati latinoamericani, Cuba, Nicaragua, Honduras e Bolivia,
si sono schierati al fianco di Maduro. Washington, Bruxelles ma anche i vicini
progressisti di Cile e Colombia hanno espresso dubbi e preoccupazioni e
chiedono il riconteggio. A farlo, soprattutto, è stato il Brasile di Luiz
Inácio Lula da Silva che, forte del prestigio all’interno della sinistra
latinoamericana, ha accompagnato informalmente il dialogo con Washington. I
toni del ministro degli Esteri, Mauro Vieira, e del consigliere per gli affari
internazionali, Celso Amorím, al momento al Caracas, sono stati cauti per non
tagliare i ponti.
Ma l’istanza è
ferma: il riesame di tutte le schede sezione per sezione in modo da fugare i
sospetti. Fonti ben informate sostengono che il duo Lula-Amorím stia lavorando
dietro le quinte affinché Maduro accetti la verifica del risultato come via
d’uscita dal prevedibile impasse. In cambio - come già nei mesi scorsi - nel
probabile caso di sconfitta, gli verrebbe garantita una transizione soft con
tanto di immunità di fronte alla giustizia internazionale e conservazione di
una quota di potere, a partire dall’Assemblea nazionale, a maggioranza
chavista. Un compromesso vantaggioso per tutti. Incluso Maduro che, comunque,
rimarrebbe un attore chiave della politica nazionale. Potrebbe, oltretutto, non
avere un’offerta migliore. L’Amministrazione Biden, artefice del dialogo, è
agli sgoccioli. Un possibile ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca rischia
chiudere gli spiragli aperti dalla crisi ucraina. E di tornare alla politica
dello scontro latente, come già accaduto al processo di normalizzazione con
Cuba avviato da Barack Obama.
Il tempo stringe e Maduro è al bivio. O accetta il riconteggio, sapendo, probabilmente, di doversi fare da parte, pur con tutte le assicurazioni del caso. O tira dritto. In quest’ultima eventualità, l’intero percorso dell’ultimo anno e mezzo tornerà al punto di partenza. Caracas resterà isolata come e più di prima. E dovrà affrontare lunghi mesi di sfibranti tensioni interne che potrebbero destabilizzare l’intera America Latina. In questo contesto, il sogno del recupero economico sarebbe rinviato a data da destinarsi.