Riportiamo alcuni tratti
dell’interessantissimo articolo di Roberto Esposito, pubblicato su Doppio Zero
nel febbraio di quest’anno. Lo ripubblicheremo in seguito interamente per
stimolare un dibattito tra quanti sono interessati all’argomento: Buona lettura
(NdR)
Machiavelli, un
classico o un contemporaneo? Parla più al suo o al nostro tempo? Raramente la
letteratura critica ha fornito una risposta equilibrata a questa domanda
ricorrente. In genere ha sbandato tra gli estremi opposti. Alcuni interpreti,
anche di grande rilievo, hanno schiacciato Machiavelli sul suo tempo,
situandolo in una stagione pre-moderna. Penso allo stesso Foucault, che lo
colloca alla fine del vecchio paradigma sovrano, piuttosto che all’alba del
nuovo paradigma governamentale. Altri, al contrario, lo hanno proiettato nel
futuro, considerandolo non solo un repubblicano, quale certamente è stato, ma
un democratico radicale, se non un rivoluzionario, teorico di un potere
costituente opposto alla sovranità statale, perché ontologicamente radicato
nella potenza incipiente delle moltitudini. Naturalmente mi riferisco ad
interpretazioni anche diverse tra loro, ma in qualche modo accomunate da questa
tendenza modernizzante e anche post-modernizzante. In questa doppia
radicalizzazione – tra un eccesso di prudenza storiografica ed un eccesso di
enfasi politica – rischia di perdersi una chiave interpretativa più duttile e
sorvegliata, capace di articolare meglio la relazione tra classico e
contemporaneo. La classicità non è né esterna né coincidente con la
contemporaneità – ma è un’alterità che la sfida dal suo interno, mettendola in
tensione con se stessa…..
….Egli è il
primo a vedere nella politica non solo l’arte del conservare, ma anche quella
dell’innovare, del fondare, del creare. In questo senso si può dire che apra il
pensiero istituente – che sia all’origine del pensiero dell’origine. Non sono
certo il primo a sostenerlo. L’interpretazione istituente di Machiavelli è
presente, sia pure con diverse denominazioni, nella critica machiavelliana recente
e meno recente – faccio per tutti i nomi di Claude Lefort, John McCormick,
Gabriele Pedullà, che ne offrono tre diverse versioni, fenomenologica,
populista e strutturale. Personalmente ho cercato di elaborarla in chiave
genealogica, all’interno di un percorso che riconosce in Machiavelli il primo
anello, seguito in primo luogo dal suo grande estimatore Spinoza, di un
pensiero delle istituzioni. Senza poterlo adesso ripercorrere, diciamo che
questa lettura nasce dall’interno dell’interpretazione conflittualista, ormai
ampiamente diffusa, di Machiavelli. Si può dire che ne sia un’estensione e
un’intensificazione nella misura in cui assegna allo stesso conflitto un ruolo
istituente.
Già da tempo è
stato sostenuto che, anziché contrapporre conflitto ed ordine, Machiavelli li
salda in un'unica prospettiva che pensa l’uno in rapporto all’altro. Adoperando
un lessico istituente, si può dire che, invece di contrapporre la dinamica
conflittuale agli ordini istituzionali, ne fa il loro motore interno. Ciò
significa che il conflitto è valido, ha una valenza produttiva, solo se serve a
istituire un ordine capace insieme di incorporarlo e potenziarlo. Conflitto
politico è quello che non si consuma in se stesso, che è volto a creare un
nuovo ordine. Naturalmente, come ben sappiamo, per Machiavelli, né gli ordini
né i conflitti sono uguali fra loro. E anzi ciò che conta è proprio la
distinzione tra le loro differenti tipologie. Alcuni ordini sono positivi,
produttivi di espansione, altri negativi, destinati alla dissoluzione. Lo
stesso vale per i conflitti, essi stessi a volte portatori, altre volte
distruttori, di forma politica. Ma in ogni caso ordini e conflitti positivi
sono appunto quelli che s’integrano tra loro – ordini che includono conflitti e
i conflitti che producono nuovi ordini.::::
…..Gli
ordinamenti repubblicani devono essere governati da meccanismi istituzionali in
grado da rendere libera la maggior parte dei soggetti. In questo modo
Machiavelli conferisce al lemma vitam instituere un
significato che non aveva mai avuto in precedenza – né in Grecia, né a Roma né,
in questa misura, nell’Umanesimo civile. Questo è il passaggio, o il salto,
ontologico-politico compiuto di Machiavelli. È il punto – si potrebbe dire – in
cui l’ontologia politica diverge dalla teologia politica. Diversamente dal
lessico hobbesiano della sovranità, bloccato nella fissità del patto,
Machiavelli pensa l’organismo politico come qualcosa sempre in divenire. Come
non esiste vita politica fuori da una data situazione storica così non può esserci
storia priva di determinazioni politiche. Solo queste riescono, almeno per un
certo tempo, a stabilizzare il movimento storico prima che si creino condizioni
nuove.
Fuori da questo
doppio impulso, conservativo e innovativo, la città politica non sopravviverebbe.
La vita non può essere vissuta nella sua immediatezza. Ha bisogno di forma.
Deve passare attraverso un artificio che ne interrompa il flusso diretto e lo
configuri secondo determinati rapporti di forza. La società, tutt’altro che
basata su un piedistallo naturale, poggia su un vuoto di fondamento che
richiede di metterla in forma attraverso un processo istituente. Hegel avrebbe
detto che deve passare per il negativo. Si direbbe che, senza arrivare a
teorizzarlo, anche Machiavelli pensi in forma negativa, ragioni per contrasto.
Per definire qualcosa, egli parte dal suo contrario, derivandolo dalla
differenza con esso. Più che in riferimento al bene possibile, ragiona in
termini di male maggiore da evitare. Il soggetto politico punta a qualcosa che,
evitando il peggio, si dimostri un bene, pur non essendolo in prima istanza e
in quanto tale. Gli stessi tumulti, benefici per l’organismo politico di Roma,
sono di per sé un male accettabile per sfuggire al doppio male maggiore della
stasi regressiva e della guerra civile. La funzione delle istituzioni è appunto
di impedire questa duplice deriva entropica, favorendo il passaggio dal male
maggiore a quello minore e da questo all’unico bene possibile – vale a dire
alla portata del soggetto politico nello scenario problematico in cui questi si
trova ad operare. Si tratta di una necessità di ordine antropologico, prima
ancora che politico. La corruzione umana, sul tempo lungo, è inarrestabile. Può
essere fronteggiata, o almeno contenuta, solo attraverso strumenti precari e
limitati, come limitata è la vita umana stessa, esposta all’incombenza,
endogena o esogena, della morte. Solo dal caos nasce l’ordine, in una modalità
che non lo cancella, ma al massimo attiva un accettabile patteggiamento con
esso. Perché possa darsi qualcosa come la politica, occorre uno scarto, una
deviazione dalla norma, che trattenga il precipitare della situazione,
impedendole di scivolare nella corruzione cui è, per il declinare di tutte le
cose umane, naturalmente orientata. L’unico modo di bloccare questa deriva – e,
in alcuni casi, di ribaltarla in impulso produttivo – è innalzare un argine
istituzionale capace di incanalare gli eventi entro una cornice in qualche modo
controllabile, naturalmente fatti salvi i rovesci della fortuna.
Ciò vale per
ogni tipo di evento. Certo, esistono eventi che spezzano la successione delle
cose, aprendo una breccia nell’ordine del tempo. Ma anche gli eventi più
dirompenti vanno pur sempre inquadrati in processi più ampi. Da qui il loro
necessario rapporto con le dinamiche istituzionali. Come alcuni eventi – per
esempio i tumulti che hanno portato alla instaurazione del tribunato della
plebe a Roma – sono essi stessi processi istituenti, così le istituzioni,
allorché producono determinati effetti, possono essere considerate veri e
propri eventi storici. Gli eventi, per essere colti in tutto il loro spessore,
vanno insomma ricondotti alla storicità da cui originano e in cui si riversano.
Possono aprire o chiudere un processo in corso, potenziarlo o perturbarlo,
proseguirlo oppure orientarlo in direzione diversa. Possono spegnere o
provocare conflitti, stabilizzare o destabilizzare ordini, ma sempre
all’interno di dinamiche più generali da cui sono trasformati e che
contribuiscono a trasformare. Se misurati su un arco di tempo più lungo, gli
eventi significativi non costituiscono né una rottura assoluta della storia né
una semplice ripetizione. Coincidono generalmente con svolte istituzionali.
Solo le istituzioni riescono a rendere gli eventi avversi gestibili o almeno
affrontabili. Naturalmente c’è un limite oltre il quale gli strumenti ordinari
tendono a incepparsi, cedendo alla corruzione che s’impadronisce dell’intero
organismo. Come si sa, in quei casi è necessario ricorrere a modi straordinari,
che non si limitano al periodico rinnovamento delle leggi, ma prevedono un
radicale mutamento delle istituzioni. È la procedura che Machiavelli definisce
“ritorno ai principi”, ancora una volta chiamando in causa la categoria di
origine……
…..Machiavelli
parteggia apertamente per opzioni istituzionali orientate a raffrenare la
prepotenza dei Grandi e a favorire la partecipazione del ‘maggior numero’ al
governo della città. Sia la storia romana che quella fiorentina sono da lui
interpretate, nel bene e nel male, in ragione di questa scelta di fondo. A
questa tendenza è possibile conferire una connotazione democratica, se
assumiamo questo termine non nel senso delle moderne democrazie, ma in quello
letterale di un potere a base popolare. Difesa del Gran Consiglio, istituzione
di Proposti dotati di poteri simili a quelli dei Tribuni della plebe, legge per
l’incriminazione dei magnati corrotti, combinazione di elezione e sorteggio
nell’assegnazione delle cariche pubbliche, per evitare il predominio dei più
abbienti, sono tutte procedure, proposte da Machiavelli, di forte colore
politico destinate a rafforzare la parte popolare. Anche se dubito sia
possibile trasferirle direttamente nelle nostre democrazie, come ritiene invece
McCormick, non c’è dubbio che esse risuonino nel nostro orizzonte contemporaneo
come quell’alterità che ci pone in rapporto critico con il nostro tempo. La
debolezza delle nostre democrazie deriva non solo dal carattere
autoreferenziale delle loro istituzioni – incapaci di recepire le domande che vengono
dalla società – ma dalla rottura del rapporto tra potenza istituente e potere
istituito. …..
….. Il
nucleo cruciale, che fa di Machiavelli il primo teorico moderno del potere
istituente, sta in una concezione, a un tempo realistica e radicale, che non
spezza mai il rapporto tra ordine e conflitto. Se un dato ordine impedisce lo
sviluppo del conflitto politico è destinato all’implosione. Ma se il conflitto
politico non mira alla creazione di un nuovo ordine finisce per degenerare in
scontro privato o in guerra civile. La straordinaria intuizione di Machiavelli
– che, mentre ne fa il più grande classico politico moderno, ce lo rende
straordinariamente contemporaneo – sta nella teorizzazione di una dialettica
complessa che vede i gruppi sociali fronteggiarsi all’interno di una comune
rete istituzionale. Ciò che soprattutto resta, della sua strategia
argomentativa, è l’articolazione di una trama fatta di azioni virtuose, ma
anche funzioni, istituti, poteri da cui tali azioni sono insieme condizionate e
potenziate. Gabriele Pedullà conclude il suo articolo di qualche giorno fa sul
“Sole 24 Ore” mettendo in relazione il conflitto politico in Machiavelli con il
conflitto delle sue interpretazioni. Esse devono dialogare purché la loro
tensione resti viva e non si sfibri in un compromesso mediano. Perché possano
confrontarsi fra loro, le diverse prospettive devono differenziarsi con la
massima nettezza. Solo in questo modo, se condotto tra punti di vista
chiaramente profilati, il dialogo risulterà produttivo. Sono convinto che il
convegno di questi giorni risponderà a tale esigenza con rigore e passione.