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La Palestina è alle Olimpiadi per ricordarci che esiste ancora

di Dario Saltari
tratto da Ultimo Uomo del 25 lug 2024
 
A Parigi è arrivata la delegazione palestinese più grande di sempre.


Majed Abu Maraheel è stato il prima atleta palestinese a partecipare alle Olimpiadi. Era il 1996, i Giochi si svolgevano ad Atlanta, e la sua esperienza era durata poco, dopo essere arrivato ventunesimo nel suo gruppo di qualificazione nei diecimila metri piani maschili.

Maraheel era nato nel campo profughi di Nuseirat, nella striscia di Gaza, sorto nel 1948 dopo la nascita dello stato di Israele e la conseguente espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi, che ricordano quell’evento con il nome di nabka (cioè: la catastrofe). Prima di diventare un atleta, Maraheel lavorava in una serra di fiori, nello stato di Israele. Per arrivare a lavoro doveva correre per i 20 chilometri che dividevano casa sua, a Gaza City, dal checkpoint di Erez, dove prendeva l’autobus, e pare che sia stato proprio durante o dopo una di queste corse che gli sia venuta l’idea di farlo per lavoro. La sua carriera da atleta, e successivamente quella di allenatore della Nazionale palestinese di atletica, non gli ha mai concesso il lusso di sottrarsi alla violenza dell’esercito israeliano. Nel 1991, durante la prima intifada, si era ritrovato con un proiettile di un fucile israeliano in un osso del braccio. Nel 2014, durante un’operazione militare israeliana, la sua casa era stata bombardata da un F-16, e un frammento di uno dei missili utilizzati si era conficcato nel cranio di uno dei suoi otto figli. Circa un mese fa, con la Striscia di Gaza messa a ferro e fuoco dall’esercito israeliano, Maraheel aveva provato invano a raggiungere un ospedale funzionante in Egitto, attraverso il varco di Rafah, bloccato da Israele da maggio. Pochi giorni dopo è morto per un’insufficienza renale a Deir al-Balah, a pochi chilometri dal campo per rifugiati dove era nato, in un ospedale che per mancanza di energia elettrica e farmaci non era più in grado di curarlo.

La morte di Majed Abu Maraheel è una di quelle che tecnicamente vengono definite indirette, quelle morti causate dagli effetti della guerra sugli ospedali e sul loro personale, che nella Striscia di Gaza sono stati apocalittici. Secondo uno studio scientifico di Rasha Khatib, Martin McKee e Salim Yusuf pubblicato su The Lancet, il numero ufficiale di morti totali provocati dall’aggressione israeliana cominciata il 7 ottobre del 2023 (oltre 37mila al 19 giugno) conta solo quelle dirette e, se ciò non bastasse, è “probabilmente una stima al ribasso”. La distruzione delle infrastrutture nella Striscia di Gaza, infatti, ha intaccato la capacità di contare i morti degli organi che sarebbero preposti a farlo, e ha reso praticamente impossibile tenere traccia delle morti indirette. Per arrivare a una stima più realistica dei morti di questi mesi, lo studio è costretto a fare un rozzo calcolo matematico, cioè moltiplicare per quattro le morti dirette (ovvero quelle di cui abbiamo traccia) - e anche questa probabilmente è una stima al ribasso perché nei conflitti più recenti si può arrivare a una proporzione tra morti dirette e indirette anche di 1 a 15. Il risultato di questa moltiplicazione mette i brividi: più di 149mila morti indirette, a cui bisogna aggiungere le già citate 37mila dirette, per un totale che sfiora l’8% dell’intera popolazione della Striscia di Gaza.

La realtà ancora più spaventosa, però, è che di fatto non sappiamo più davvero quante persone stanno morendo in Palestina. Per avere una dimensione dell’orrore che stanno vivendo i palestinesi da più di nove mesi bisogna planare sui principali quotidiani italiani (dove si potrebbe avere l’impressione che la tregua nella striscia di Gaza sia stata già raggiunta) e fare una ricerca in inglese su Google. Secondo quanto riporta Al Jaazera, solo la mattina in cui ho cominciato a scrivere questo articolo, martedì 23 luglio, l’esercito israeliano ha ucciso 16 persone in un raid nel nord della Striscia di Gaza, mentre il giorno prima ne aveva uccise almeno altre 81, e ferito almeno altre 250, con un un’altra operazione militare a Khan Younis, a nord di Rafah. E questo solo per quanto riguarda la Striscia di Gaza. Le cose vanno solo leggermente meglio in Cisgiordania, dove sempre nella mattina in cui ho iniziato a scrivere, e sempre secondo quanto riporta Al Jazeera, una donna è morta in un attacco con droni a Tulkarem, vicino al confine con lo stato israeliano. In Cisgiordania, negli ultimi nove mesi, solo i droni hanno fatto 77 morti, tra cui 14 bambini.

Gli eventi degli ultimi giorni hanno mostrato per l’ennesima volta la brutalità dell’esercito israeliano, ma anche quanto fosse illusoria la prospettiva di uno stato palestinese ottenuto per concessione. La settimana scorsa la Knesset, il parlamento israeliano, ha approvato una risoluzione (68 voti a favore, 9 contrari) con cui “si oppone fermamente alla creazione di uno Stato palestinese” perché “rappresenterebbe un pericolo esistenziale per lo Stato di Israele e i suoi cittadini”. Pochi giorni dopo, la Corte Internazionale di Giustizia, su invito dell’assemblea generale dell’ONU, ha pubblicato un parere non vincolante sul “prolungato abuso da parte di Israele della sua posizione di potenza occupante, attraverso l’annessione e l’affermazione di un controllo permanente sul territorio palestinese occupato”. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, in un comunicato l’ha commentata così: “Il popolo ebraico non può essere occupante nella propria terra - né nella nostra capitale eterna, Gerusalemme, né tanto meno nella nostra eredità ancestrale della Giudea e della Samaria”. Giudea e Samaria è come Israele chiama la Cisgiordania.

Di fronte a una “potenza occupante” che nega l’esistenza della sua popolazione persino dopo la morte, e quella del territorio dove dovrebbe estendersi, alla Palestina non rimane che proiettare l’ambizione di avere un proprio stato, visto che adesso le basi su cui dovrebbe poggiare semplicemente non esistono. In questo senso, lo sport, che le dà la possibilità di esistere sotto forma di atleti vestiti con i propri simboli, sta diventando ogni giorno più importante - in senso letterale visto che nei prossimi giorni gli atleti palestinesi a Parigi saranno chiamati a ricordare che centinaia di propri connazionali stanno morendo mentre gli spettatori si godono le gare di nuoto, atletica e tiro con l’arco. «Non siete solo atleti, siete anche simboli della resistenza palestinese», ha ricordato loro il ministro degli esteri dell’autorità nazionale palestinese, Varsen Aghabekian Shahin. «Vogliamo che questa partecipazione sia un messaggio dei palestinesi al mondo: è tempo per noi di essere liberi nella nostra madre patria», ha aggiunto il presidente del comitato olimpico palestinese, Jibril Rajoub.

La Palestina arriva a Parigi con la delegazione più grande della propria storia. Otto atleti (erano cinque a Tokyo), di cui solo uno attraverso il normale processo di qualificazione (Omar Ismail, nel taekwondo). Gli altri sette sono riusciti a entrare grazie a degli inviti speciali del Comitato Olimpico Internazionale, una piccola vittoria diplomatica per la storica strategia moderata dell’autorità nazionale palestinese, che lavora da anni per avere le proprie bandiere di rappresentanza sui banchi di mogano lucido delle organizzazioni internazionali (come per l’appunto il Comitato Olimpico Internazionale, di cui è membro dal 1995). Gli otto atleti competeranno nell’atletica, nel nuoto, nella boxe, nel judo, nel taekwondo e nel tiro.

Le loro storie, come quella di Majed Abu Maraheel, raccontano quella più grande della tragedia palestinese. Yazan al Bawwab, che gareggerà nei 100 metri dorso, è nato in Arabia Saudita ed è cresciuto a Dubai, dopo che la sua famiglia è scappata dalla Cisgiordania. «Mio padre sognava di diventare un nuotatore ma non ha mai potuto farlo», ha dichiarato ad Al Jazeera «Era un rifugiato, non aveva nemmeno cibo a sufficienza. Grazie a Dio il suo sogno è diventato realtà attraverso suo figlio». Waseem Abu Sal, che porterà la Palestina nella boxe per la prima volta nella storia, si allena a Ramallah, nella Cisgiordania occupata, ma il suo allenatore è a Gaza, e non può vederlo quasi mai per via delle restrizioni poste tra i due territori dal governo israeliano. Per questa ragione l’allenatore è costretto a scrivergli il programma d’allenamento con il cellulare e i due si vedono solo quando viaggiano all’estero. Persino fare sparring è complicato e Abu Sal è costretto a farlo con un compagno che è di una categoria di peso diversa. Il semplice essere a Parigi, insomma, è già una vittoria. «Tutti i giorni sono andato a dormire e mi sono svegliato pensando a come avrei raggiunto le Olimpiadi», ha detto ad AFP, con una frase che in bocca a un palestinese assume una sfumatura completamente diversa da quella motivazionale che siamo abituati ad associare agli sportivi. D’altra parte, per gli atleti palestinesi già sopravvivere è un miracolo. Secondo le autorità palestinesi, infatti, dal 7 ottobre del 2023 ne sono morti circa 343.

«Siamo tra i palestinesi più fortunati al mondo», ha dichiarato alla propria partenza Valerie Tarazi, che è nata in Illinois da una famiglia originaria di Gaza, e gareggerà nel nuoto, nei 200 metri misti. «Abbiamo l’opportunità di competere, ma questo diritto è stato tolto ai nostri figli. Il nuoto come abilità di sopravvivenza è ormai un lusso. Io mi sto preparando per Parigi e nel frattempo dai notiziari vedo persone che nuotano per prendere dei pacchi d’aiuti in mare. Io nuoto per competere, loro nuotano per sopravvivere».

La speranza delle autorità palestinesi è che queste parole, queste storie ricordino che, mentre il mondo si riunisce simbolicamente a Parigi, un’intera popolazione viene massacrata, in aperta contraddizione con i simboli che proprio le Olimpiadi dovrebbero rappresentare. Come aveva già notato Nicola Sbetti proprio qui su Ultimo Uomo, la mancata violazione della tregua olimpica - cioè la cessazione di ogni tipo di ostilità da una settimana prima dei Giochi Olimpici, sia estivi che invernali, fino a una settimana dopo della fine dei Giochi Paralimpici - era l’ultimo appiglio formale che permetteva ancora di giustificare la mancata esclusione dallo sport internazionale di Israele, a cui già poteva essere rimproverata la distruzione delle infrastrutture sportive palestinesi, l’uccisione dei suoi atleti e la promozione delle proprie squadre nei territori occupati. Dopo che anche questo vincolo è caduto, il comitato olimpico palestinese è stato praticamente costretto a chiedere la sua esclusione dal Comitato Olimpico Internazionale, dopo aver già chiesto lo stesso alla FIFA settimane fa. D’altra parte, la tregua olimpica era nata nell’antica Grecia proprio per permettere di raggiungere i Giochi anche alle persone costrette ad attraversare territori ostili. Perché questo non dovrebbe valere oggi, per i palestinesi?

Probabilmente queste grida d’aiuto cadranno nel vuoto (la FIFA, che aveva già rimandato il voto una volta, ha fatto sapere che non prenderà una decisione prima del 31 agosto) e la loro utilità pratica si riduce a segnalare una strategia di affermazione nazionale che potrebbe avere lo sport sempre più al centro in futuro. Gli esempi di successo in questo campo non mancano, basta chiedere al Kosovo.

Lo scorso 5 luglio la federazione calcistica palestinese ha annunciato la sua intenzione di voler giocare la seconda fase delle qualificazioni asiatiche ai Mondiali del 2026, a cui la Nazionale è riuscita ad accedere per la prima volta nella sua storia, nella Cisgiordania occupata. La Palestina, che a gennaio era riuscita ad arrivare agli ottavi di finale della Coppa d’Asia per la prima volta nella sua storia, per via dell’occupazione israeliana è da anni ormai costretta a giocare le partite “in casa” in altri Paesi, come per esempio il Qatar o il Kuwait. «Ma giocare in campo neutro è sempre stata una soluzione temporanea», ha dichiarato la vicepresidente della federazione palestinese, Susan Shabali, all’Associated Press, aggiungendo che lo stadio Faisal Al-Husseini, nella città di Al-Ram, è pronto ad ospitare le partite della Nazionale.

Al-Ram, nella periferia nord-orientale di Gerusalemme, è sotto occupazione israeliana dal 1967. Lo stadio Faisal Al-Husseini, nel 2008, ha ospitato la prima partita davvero casalinga della Nazionale palestinese (sia maschile che femminile), e anche l’ultima partita non amichevole che è stato possibile giocare: Palestina-Arabia Saudita 0-0. Era il 2019.

Per la Palestina sarebbe importante recuperare questo spazio simbolico concesso dallo sport, mentre tutti gli altri vengono ristretti dall'occupazione israeliana, e non solo perché tra non troppo tempo potrebbe diventare l'ultimo disponibile. Il punto è che, in questo enorme e complicatissimo conflitto, lo sport ha una forza simbolica e un'immediatezza che nient'altro può avere. Insomma, non serve nemmeno sottolineare cosa significherebbe per la Palestina ottenere la prima qualificazione a un Mondiale della sua storia proprio lì.