tratto da “Avvenire” del 4 luglio 2024
L’umanità dell’epoca era responsabile e faceva di tutto per mantenere con questa risorsa una relazione vitale. Da quell'epoca possiamo imparare a gestirla perché è un bene universale.
Al via il Festival delle Città del Medioevo che torna all’Aquila da oggi al 7 luglio per la seconda edizione. La manifestazione mette al centro il valore della divulgazione storica, che quest’anno avrà come tema “Le città e l’acqua”. Protagonisti i libri, la storia e il presente, che verranno raccontati da ospiti di rilievo internazionale, come l’archeologo Andrea Augenti, l’archeologa Francesca Romana Stasolla, grandi storici del Medioevo, Franco Cardini e José Enrique Ruiz-Doménec e Duccio Balestracci, la sociologa Magdalena Léon Gómez, lo storico Antonio Musarra, la storica Élisabeth Crouzet-Pavan. Il Festival delle Città del Medioevo è ideato e organizzato dall’Università degli Studi dell’Aquila in collaborazione con il Comune dell’Aquila e la direzione scientifica è affidata ai professori dell’Ateneo aquilano Amedeo Feniello, storico, e Alfonso Forgione, archeologo. Tutti gli incontri sono a ingresso libero presso l’Auditorium del Parco a L’Aquila. In particolare l’intervento di Musarra che anticipiamo in queste colonne è previsto per sabato alle ore 17 e avrà il titolo La rivoluzione nautica del Medioevo. Per maggiori informazioni: www.festivalcittadelmedioevo.it e info@festivalcittadelmedioevo.it.
«Chiare, fresche et dolci acque», cantava il poeta, «ove le belle membra pose
colei che sola a me par donna». Bene: immaginate un modo in cui tale condizione
rappresentava, sovente, un lusso. Le città medievali necessitavano di acqua.
Acqua da bere, acqua per cucinare, per lavare i panni, per produrre tessuti,
ammorbidire i pellami, sciacquare le tinture, azionare i mulini. Nell’Italia
delle città, il problema dell’approvvigionamento idrico era all’ordine del
giorno.
Sul finire
dell’età imperiale, la maggior parte dei centri urbani mediterranei si era
dotata di un sistema di conduzione e di distribuzione delle acque. La
contrazione demografica dei primi secoli del Medioevo ridusse notevolmente il
fabbisogno idrico, facendo cadere in disuso diverse strutture. L’uso di recarsi
alle terme cadde nel dimenticatoio. Vasche e fontane divennero più rade in
favore di un ritorno all’utilizzo di pozzi e sorgenti. Gli undici acquedotti
romani smisero di funzionare a pieno regime. Lo stesso fenomeno si nota in
Gallia, come mostra il caso di Pont du Gard, trasformato in strada, in
Britannia o nei territori dell’impero germanico. Bisognerà attendere il IX
secolo perché le tecniche d’ingegneria idraulica in uso nell’antichità
comincino a essere recuperate. Lentamente, si assiste, infatti, alla
costruzione (o alla ricostruzione) di nuovi impianti, generalmente a opera di
monasteri. È solo dal XIII secolo, tuttavia, col definitivo assestarsi di una
civiltà che potremmo definire pienamente cittadina, che prendono forma grandi
progetti. Lavatoi e fontanoni tornano a riempire le piazze. In qualche caso,
con enormi difficoltà, dovute alla posizione sopraelevata dei siti e
all’aridità del sottosuolo. È il caso, ad esempio, di Perugia, che, alla metà
del secolo, decide di realizzare un’impresa eccezionale: la costruzione di un
imponente acquedotto sostenuto da un centinaio di arcate. Conclusa nel 1278,
l’opera consentirà di convogliare le acque all’interno delle mura, sino a
raggiungere la Fontana Maggiore di Piazza Grande.
L’acqua
corrente, dunque. In qualche caso, deviata nelle abitazioni di signori e
notabili. Su tale ripresa ha un peso l’ininterrotta tradizione delle campagne,
dov’essa seguita a essere utilizzata in ambito agricolo o artigianale. I mulini
ne sfruttano la potenza, costellando il paesaggio suburbano. Le tecniche del
mondo classico sono riscoperte e adattate. Il patrimonio idrico comincia a
essere tutelato giuridicamente. La sua amministrazione, tuttavia, è demandata
ai poteri locali. È la città, a ogni modo, centro di produzione industriale, a
catalizzarne l’uso. La richiesta raggiunge proporzioni considerevoli. Non a
caso, iniziano a manifestarsi i primi fenomeni di “inquinamento”: gli scarichi
domestici, quelli artigianali, le acque sporche di tintori e lavandai
accrescono il rischio sanitario.
Non è
naturalmente soltanto l’acqua dolce a farla da padrone. Quella salata non è da
meno. Così come l’età imperiale aveva guardato al mare quale principale mezzo
di collegamento, il basso Medioevo vi fa ritorno per ragioni di sostentamento o
per incrementare i profitti. Città come Amalfi, Napoli, Genova, Pisa o Venezia
– quelle che un tempo chiamavamo repubbliche, forse in malo modo – fondano sul
mare la propria economia, impegnandosi nella costruzione di un network di
relazioni di lunga distanza. Al contempo, sviluppano nuove tecniche, favorendo
il passaggio dalla navigazione astronomica a quella stimata, grazie
all’introduzione della bussola, della carta nautica, delle tavole di
martelogio. Tra terra e mare si sviluppa un rapporto di stretta
interdipendenza. Le grandi abbazie fruiscono di prodotti provenienti da
lontano; in qualche caso – come a Cava de’ Tirreni – allestendo una piccola
flotta. La gestione del porto diventa essenziale. A Genova, la magistratura
deputata al suo funzionamento – dunque, al funzionamento del cuore economico
della città – è la stessa che sovrintende all’acquedotto, a dimostrazione di
quanto l’acqua, salata o meno che fosse, sia ritenuta importante. Da essa, a
ogni modo, è necessario anche difendersi. Venezia, la città che sorge col mare,
e che sul mare ha costruito la propria identità, vive costantemente questo
problema. Il sito che la ospita, lontano dalla terraferma, circondato da
paludi, canneti e boschi melmosi, soggetti a progressive bonifiche, ne nutre e
protegge gli abitanti, anche se a prezzo di molte fatiche. Non passa giorno
ch’essi non tentino di combattere l’eccesso di sedimenti trascinato dai corsi
d’acqua.
Tutto ciò non fa
che favorire la riflessione. Si muove il mondo delle lettere. Gli intellettuali
discettano sulla natura delle acque: fredde, umide, dai colori cangianti,
pesanti, corpulente, salate. «Mare» – ricorda Isidoro di Siviglia – «est
aquarum generalis collectio». Ci si interroga sulla salinità. Un fatto
inspiegabile, attribuito da Adelardo di Bath al calore rilasciato dalle stelle attraversando
la cosiddetta “zona torrida”. Del resto, non era, forse, vero che, asciugandosi
al sole, l’acqua del mare si trasformava in cristalli? Ma vi era anche chi,
come Alexander Neckam, riteneva che essa derivasse dallo scioglimento di enormi
montagne di sale sottomarine. L’acqua, insomma, era al centro di molti
pensieri. Il 20 gennaio del 1320, a Verona, nella chiesa di Sant’Elena, Dante
discetta della «forma aque et terre», interrogandosi sulla disposizione dei
quattro elementi, che si credeva ordinati in sfere concentriche con la terra al
centro. È il Sommo Poeta, del resto, a lasciarci una delle più belle
descrizioni del Mediterraneo del suo tempo: «La maggior valle in che l’acqua si
spanda», / incominciaro allor le sue parole,/ «fuor di quel mar che la terra
inghirlanda, /tra’ discordanti liti contra ‘l sole / tanto sen va, che fa
meridiano / là dove l’orizzonte pria far suole» (Par. IX, 82-93). Che potrei
parafrasare: la maggior valle in cui l’acqua si espande, al di fuori di quel
mare che circonda tutta la terra (l’Oceano), cioè il Mediterraneo, si estende
tanto fra i due litorali opposti (Europa e Africa), in senso contrario al corso
del sole (e, cioè, verso est), che raggiunge i 90° gradi di latitudine. In
realtà, l’estensione del Mediterraneo è di 42° ma possiamo perdonarglielo….
Questo è, dunque, l’approccio del mondo medievale all’acqua, in tutte le sue forme: dolce e salata, fluviale, lacustre, marittima. Per non parlare di quella pluviale, necessaria per i campi e il fabbisogno quotidiano. Un approccio complesso. Essenziale, nella misura in cui la sua carenza rischiava di mettere in pericolo la possibilità stessa d’una convivenza umana. Di tutto ciò, il Medioevo è consapevole, e fa di tutto per mantenere con l’acqua una relazione vitale. Interrogarsi sul modo in cui chi ci ha preceduto si è posto il problema della sua gestione – è quanto un consistente gruppo di esperti si appresta a effettuare a L’Aquila, nella seconda edizione del Festival delle Città del Medioevo, curato da un medievista del calibro di Amedeo Feniello – non può che renderci maggiormente consapevoli del valore d’un bene universale.