(ripreso da “La Libreria delle donne)
Il giornalismo
sotto copertura lo ha inventato una donna. Nel 1880 Nellie Bly (nella foto),
pseudonimo di Elizabeth Cochrane, si finse pazza per farsi internare
nell’ospedale psichiatrico di Manhattan. Da dentro poté vedere e raccontare per
il New York World di Joseph Pulitzer le condizioni in cui erano
tenute le ricoverate. Donna era Barbara Ehrenreich, giornalista, scrittrice e
attivista che per mesi lavorò in incognito per un’impresa di pulizie,
esperienza raccontata in Una paga da fame: come (non) si arriva a fine
mese nel paese più ricco del mondo. Quando è morta, nel 2022, il New
York Times l’ha definita una «Esploratrice del lato oscuro della
prosperità».
Donna è la
francese Florence Aubenas che nel 2009 si iscrive a un ufficio di collocamento
di Caen per svolgere un’inchiesta sulla reale situazione dei disoccupati in
Francia. Ne uscirà un libro intitolato Le quai de Ouistreham, da
cui è tratto un film con Juliette Binoche e diretto da Emmanuel Carrère. Donna
è la giornalista di Fanpage che si è finta adepta di Gioventù
nazionale per raccontare la realtà razzista e antisemita che anima il gruppo
giovanile del partito di Giorgia Meloni.
Poiché nel
mio piccolo anch’io ho dieci anni di esperienza come inchiestista in incognito,
so che cosa significa infilarsi in luoghi che sarebbero di difficile accesso se
ci si presentasse con la reale professione. Al di là dell’identità da darsi,
dell’aspetto o dell’atteggiamento da assumere, il giornalismo undercover è
prezioso perché può raccontare una realtà dal di dentro, senza maschere, senza
filtri. Si può scoprire l’imbroglio, la corruzione, il ladrocinio, la violenza,
oppure viene a galla il non detto che è sotto gli occhi di tutti, ma che si
preferisce ignorare.
È, questa,
l’esplorazione del lato oscuro di cui parla il New York Times e
proposito della Ehrenreich che non svelò nulla di illecito, ma gettò in faccia
all’America il suo lato rapace, la sua capacità di sfruttare il lavoro senza
farsi domande perché così va il mondo, perché la legge te lo permette e quindi
ti assolve.
Qui devo dirlo,
c’è una diversa sensibilità anche fra giornalisti e per spiegarlo mi tocca
raccontare un’esperienza personale. Quando lavorai in incognito come cameriera
ai piani in un grande albergo di lusso a Milano, proposi l’inchiesta a un
importante settimanale di politica e attualità le cui firme erano soprattutto
di uomini. Mi risposero che sì, era interessante, ma in fondo raccontava solo
che culo si fanno le cameriere d’albergo e lo rifiutarono perché non faceva
notizia. Pubblicai con un’altra testata, anche quella con parecchie firme
maschili, ma più sensibili agli anfratti della società e vinsi il premio
cronista dell’anno per la Lombardia. Entrambe le testate erano di sinistra.
Se le inchieste
di Günter Wallraff, che si finse operaio, alcolista, studente in cerca di
alloggio, o quelle di Fabrizio Gatti che si è infiltrato nelle rotte
dell’immigrazione irregolare, nel caporalato dell’agricoltura e dell’edilizia
hanno svelato le illegalità e irregolarità di un occidente a cui i disperati
fanno comodo, quelle delle giornaliste finte donne delle pulizie o finte pazze
o finte lavoratrici precarie mostrano la parte indecentemente tollerata della
società in cui viviamo.
È una realtà che a volte si nutre di indifferenza, altre viene subìta o combattuta, altre ancora è votata. Quando qualcuno fa cadere le maschere si produce un gioco di specchi e siccome non sempre gli specchi rimandano un’immagine edificante, a qualcuno fa più comodo additare non ciò che è stato svelato, ma chi ha tolto quel velo.
(il manifesto, 2 luglio 2024)