Nella lingua in
uso nel nostro paese – mi permetta, chi legge, di recintare il territorio
geografico di queste mie note – ci sono numerose parole che non vogliono più
dire un bel niente. Gli amici di “Doppiozero” ci propongono di analizzarne una
che ormai da tempo luminosamente svetta per vuotità e per una sorta di
arroganza concettuale e politica.
La frase da cui
ci suggeriscono di partire per il nostro ragionamento è questa:
La crisi della democrazia in Occidente è dovuta a
dinamiche economiche che acuiscono le diseguaglianze sociali, al crescente
dominio della tecnica che soffoca il cittadino in una rete di crescenti
adempimenti e controlli, al proliferare delle emergenze interne ed
internazionali che generano ansie e aggressività nella società; ma è dovuta
anche al fatto che il motore politico della democrazia fatica a intervenire per
normare le nuove esigenze individuali e le nuove sensibilità a cui dare
risposte in linea con i principi costituzionali. Questa latitanza della
politica è un potente fattore di delegittimazione delle procedure democratiche,
e dello Stato al cui potere legislativo spetterebbe il compito di agire (Carlo Galli), accompagnata da un articolo di Alfonso
Maurizio Iacono del 12 marzo scorso.
E già le
indicazioni sono forti e chiare: in Occidente (e dove, se no, convinti come
siamo che occidente rimi con democrazia e che entrambi siano significanti di
superiorità etica e politica?) la democrazia è in crisi, se non
addirittura dispotica, vale a dire degenerata, troppo simile al suo
presunto contrario: assolutismo, autoritarismo, dittatura, tirannia, tirannide.
L’homo italicus, sempre più impoverito, sempre più stordito da
tecnologie cui non riesce a tenere dietro o ad adattarsi, sempre più impaurito
e frastornato dall’infernale cabaret politico e mediatico e dall’annuncio di
guerre sempre più vicine, catastrofi non tanto naturali avvenute e annunciate,
epidemie, terrorismi, calo demografico, migrazioni sfrenate (verso e
dall’Italia), sarebbe in balìa di se stesso, incerto se ficcare la testa nella
sabbia come uno struzzo, mettersi seduto in un angolo a piangere, compiangersi
e rimpiangere o rimboccarsi le maniche impugnando armi più o meno offensive,
difensive, diversive. E in quest’ultimo caso, come ci ricorda Iacono, rischia
comunque grosso, giacché i margini di iniziativa consentiti si stanno
rapidamente assottigliando.
Ora, se si vuole
fare un discorso che abbia un minimo di senso e di utilità non solo cartacea, a
me pare che non si possa scindere il concetto di democrazia da quello di
popolo, cui è etimologicamente connesso. Poiché il soggetto del potere o della
capacità di governo cui la nozione di democrazia rimanda è, appunto, il popolo,
urge domandarsi che cosa esso sia oggi in Italia, nell’Italia che si colloca
nel quadrante Sud-Ovest (di per sé già un bel dilemma!) di un’Europa più
disunita e menomata che mai, in un mondo che va avanti scivolando
inarrestabilmente all’indietro, che va indietro per andare in avanti. Credo
insomma che vada osservato attentamente che cosa sta accadendo e che cosa si
sta muovendo sotto i nostri cieli.
Suggerisco
dunque due verbi di azione, ‘disaggregare’ e ‘aggregare’ e una serie di
verifiche solo all’apparenza contabili, che provo qui a elencare in ordine
sparso:
- quante
persone, censite e non censite, abitano attualmente in Italia
- quante di
queste persone ne sono cittadine a pieno titolo
- quante vi
abitano con status incerto e/o temporaneo: domiciliati, visitatori, turisti,
immigrati, rifugiati, legali, illegali, in attesa di permesso
- quante
detengono il diritto/dovere di voto
- quante lo
esercitano/osservano
- quanti sono
gli uomini e quante le donne e quali campi delinei questo spartiacque sessuale
e di genere
- quante/i i
bambini, i giovani, gli adulti, gli anziani (categorie di recente fluidificate
e cristallizzate – già, proprio così – dall’emergenza pandemica)
- quante/i dei
suddetti sono di seconda o terza generazione
- quante/i
vivono sotto la soglia di povertà, quanti a cavallo di quella soglia e quanti
in quale stanza della casa o del palazzo
- quante/i
parlano e capiscono quali e quante lingue
- quante/i fanno
quali mestieri e quali compensi ricevono, sempre che li ricevano
e via dicendo.
Se non
disaggreghiamo, ogni proposito aggregativo evapora e del cosiddetto demos restano
solo vaghe tracce discorsive, destinate a scomporsi sotto velature retoriche o
populistiche. Se non disaggreghiamo, restiamo in un’indistinzione che produce
impotenza, nostalgia, paura, indifferenza, apatia, depressione, un acutissimo
senso di solitudine, il paradossale agio dell’idiozia, proprio perché non
riusciamo a immaginare come, dove, per che e con chi potremmo intrecciare nuove
temporanee alleanze o flessibili sintonie politiche. Se non disaggreghiamo,
rischiamo di disorientarci, di perderci in una minacciosa foschia sociale, di
non riconoscerci se non in ciò che supponiamo identico a noi, negando così il
confronto, che è appunto esercizio concreto della democrazia, negoziazione e
non sempre garantito superamento dei conflitti, disponibilità a fallire da soli
insieme e a tentare ancora. In altre parole, rischiamo la stagnazione. E,
forse, questo è proprio ciò che da noi si vuole e che noi abbiamo finito per
volere o credere inevitabile.
Il
disorientamento è però anche un formidabile attrezzo conoscitivo: aiuta a non
sentirsi mai arrivati a destinazione, invita a cercare ancora, magari a
imboccare strade non tracciate, a immaginare vedute al momento inaccessibili o
impensate. Come si fa a evitare che venga usato per dividere e dominare, per
giustificare l’uso della forza o il calcolo della convenienza ogni volta che
dal basso viene sollevata una questione comune o che accomuna? Come si pratica
l’arte democratica dell’orientarsi coralmente in un regime sociale che di
trasversale non ha nulla, dove tutto spinge verso il vicolo cieco dell’individualismo?
Come si fa a farsi sentire e ascoltare in forma plurale e polifonica da chi è
sempre meno legittimato dal voto o altre deleghe a rappresentarci nelle sedi
istituzionali del potere o del governo?
Dopo aver
disaggregato con allegro puntiglio, si tratta quindi di passare all’altro verbo
di azione: aggregare, cioè mettere insieme, combinare, unire, ricucire,
rammendare, collegare, suturare. Non è, la mia, un’esortazione a organizzarsi
dal basso in veste più o meno compensativa, suppletiva, riparativa, bensì a
guardare bene ciò che già esiste, ad accorgersi che le fessure, le crepe, le
smagliature, i buchi creati dall’esercizio formale della democrazia non sono
vuoti. Che, proprio lì, è in corso un lavorio sotterraneo, invisibile, modesto
che produce il solido tessuto cicatriziale su cui molte e molti di noi stanno
in piedi e permettono ad altre e altri di fare altrettanto. Potremmo chiamarle
pratiche di sopravvivenza, ma anche atti di speranza, di resistenza o di
semplice buon senso. Dove tutto tira verso la catastrofe, c’è chi sa che tutto
è più lieve quando non si è soli ad affrontarla. Basta dare un’occhiata alle
tendopoli erette nella Striscia bombardata di Gaza per accorgersi che
democrazia è fare con, non contro, fuori dal raggio
necrofilo e intermittente dei riflettori. È la postura umile di chi sa
ascoltare con attenzione i gesti e le parole non dette dei bambini e il
silenzio improvviso delle cicale prima del temporale, di chi si ostina a non
confondere le donne con la Donna, gli uomini con l’Uomo, di chi ha rinunciato
risolutamente a ogni forma di potere, di chi sa aspettare perché nulla è per
sempre e tutto è in costante divenire.
Come scrive l’antropologo Stefano Boni nella sua prefazione al prezioso libretto di David Graeber Critica della democrazia occidentale (titolo originale There never was a West, or, Democracy emerges from the spaces in between, trad. it. di Alberto Prunetti, elèuthera, Milano 2024), «le pratiche democratiche tendono a sorgere inaspettatamente ovunque la socialità umana si organizza al di fuori degli apparati coercitivi». Tali apparati, militari o burocratici che siano, hanno la funzione di reprimere e deprimere. Ecco perché uno degli strumenti più limpidamente democratici a nostra disposizione è quella ‘militanza gioiosa’ teorizzata dalla filosofa Silvia Federici: un agire insieme che parte dall’insistenza del desiderio, dalla forza vitale dei piccoli piaceri e da un’immaginazione carnevalesca, irriverente, incontrollabile, non solo dalla rabbia che stiamo accumulando e dall’indignazione, sentimento troppo inducibile ed evanescente per essere affidabile.