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La democrazia e i suoi interstizi

tratto da “Doppio Zero” del 23 Luglio 2024


Nella lingua in uso nel nostro paese – mi permetta, chi legge, di recintare il territorio geografico di queste mie note – ci sono numerose parole che non vogliono più dire un bel niente. Gli amici di “Doppiozero” ci propongono di analizzarne una che ormai da tempo luminosamente svetta per vuotità e per una sorta di arroganza concettuale e politica. 

La frase da cui ci suggeriscono di partire per il nostro ragionamento è questa: 

La crisi della democrazia in Occidente è dovuta a dinamiche economiche che acuiscono le diseguaglianze sociali, al crescente dominio della tecnica che soffoca il cittadino in una rete di crescenti adempimenti e controlli, al proliferare delle emergenze interne ed internazionali che generano ansie e aggressività nella società; ma è dovuta anche al fatto che il motore politico della democrazia fatica a intervenire per normare le nuove esigenze individuali e le nuove sensibilità a cui dare risposte in linea con i principi costituzionali. Questa latitanza della politica è un potente fattore di delegittimazione delle procedure democratiche, e dello Stato al cui potere legislativo spetterebbe il compito di agire (Carlo Galli), accompagnata da un articolo di Alfonso Maurizio Iacono del 12 marzo scorso.

E già le indicazioni sono forti e chiare: in Occidente (e dove, se no, convinti come siamo che occidente rimi con democrazia e che entrambi siano significanti di superiorità etica e politica?) la democrazia è in crisi, se non addirittura dispotica, vale a dire degenerata, troppo simile al suo presunto contrario: assolutismo, autoritarismo, dittatura, tirannia, tirannide. L’homo italicus, sempre più impoverito, sempre più stordito da tecnologie cui non riesce a tenere dietro o ad adattarsi, sempre più impaurito e frastornato dall’infernale cabaret politico e mediatico e dall’annuncio di guerre sempre più vicine, catastrofi non tanto naturali avvenute e annunciate, epidemie, terrorismi, calo demografico, migrazioni sfrenate (verso e dall’Italia), sarebbe in balìa di se stesso, incerto se ficcare la testa nella sabbia come uno struzzo, mettersi seduto in un angolo a piangere, compiangersi e rimpiangere o rimboccarsi le maniche impugnando armi più o meno offensive, difensive, diversive. E in quest’ultimo caso, come ci ricorda Iacono, rischia comunque grosso, giacché i margini di iniziativa consentiti si stanno rapidamente assottigliando.

Ora, se si vuole fare un discorso che abbia un minimo di senso e di utilità non solo cartacea, a me pare che non si possa scindere il concetto di democrazia da quello di popolo, cui è etimologicamente connesso. Poiché il soggetto del potere o della capacità di governo cui la nozione di democrazia rimanda è, appunto, il popolo, urge domandarsi che cosa esso sia oggi in Italia, nell’Italia che si colloca nel quadrante Sud-Ovest (di per sé già un bel dilemma!) di un’Europa più disunita e menomata che mai, in un mondo che va avanti scivolando inarrestabilmente all’indietro, che va indietro per andare in avanti. Credo insomma che vada osservato attentamente che cosa sta accadendo e che cosa si sta muovendo sotto i nostri cieli. 

Suggerisco dunque due verbi di azione, ‘disaggregare’ e ‘aggregare’ e una serie di verifiche solo all’apparenza contabili, che provo qui a elencare in ordine sparso:

- quante persone, censite e non censite, abitano attualmente in Italia

- quante di queste persone ne sono cittadine a pieno titolo 

- quante vi abitano con status incerto e/o temporaneo: domiciliati, visitatori, turisti, immigrati, rifugiati, legali, illegali, in attesa di permesso

- quante detengono il diritto/dovere di voto

- quante lo esercitano/osservano

- quanti sono gli uomini e quante le donne e quali campi delinei questo spartiacque sessuale e di genere

- quante/i i bambini, i giovani, gli adulti, gli anziani (categorie di recente fluidificate e cristallizzate – già, proprio così – dall’emergenza pandemica)

- quante/i dei suddetti sono di seconda o terza generazione

- quante/i vivono sotto la soglia di povertà, quanti a cavallo di quella soglia e quanti in quale stanza della casa o del palazzo

- quante/i parlano e capiscono quali e quante lingue 

- quante/i fanno quali mestieri e quali compensi ricevono, sempre che li ricevano 

e via dicendo.

Se non disaggreghiamo, ogni proposito aggregativo evapora e del cosiddetto demos restano solo vaghe tracce discorsive, destinate a scomporsi sotto velature retoriche o populistiche. Se non disaggreghiamo, restiamo in un’indistinzione che produce impotenza, nostalgia, paura, indifferenza, apatia, depressione, un acutissimo senso di solitudine, il paradossale agio dell’idiozia, proprio perché non riusciamo a immaginare come, dove, per che e con chi potremmo intrecciare nuove temporanee alleanze o flessibili sintonie politiche. Se non disaggreghiamo, rischiamo di disorientarci, di perderci in una minacciosa foschia sociale, di non riconoscerci se non in ciò che supponiamo identico a noi, negando così il confronto, che è appunto esercizio concreto della democrazia, negoziazione e non sempre garantito superamento dei conflitti, disponibilità a fallire da soli insieme e a tentare ancora. In altre parole, rischiamo la stagnazione. E, forse, questo è proprio ciò che da noi si vuole e che noi abbiamo finito per volere o credere inevitabile.

Il disorientamento è però anche un formidabile attrezzo conoscitivo: aiuta a non sentirsi mai arrivati a destinazione, invita a cercare ancora, magari a imboccare strade non tracciate, a immaginare vedute al momento inaccessibili o impensate. Come si fa a evitare che venga usato per dividere e dominare, per giustificare l’uso della forza o il calcolo della convenienza ogni volta che dal basso viene sollevata una questione comune o che accomuna? Come si pratica l’arte democratica dell’orientarsi coralmente in un regime sociale che di trasversale non ha nulla, dove tutto spinge verso il vicolo cieco dell’individualismo? Come si fa a farsi sentire e ascoltare in forma plurale e polifonica da chi è sempre meno legittimato dal voto o altre deleghe a rappresentarci nelle sedi istituzionali del potere o del governo? 

Dopo aver disaggregato con allegro puntiglio, si tratta quindi di passare all’altro verbo di azione: aggregare, cioè mettere insieme, combinare, unire, ricucire, rammendare, collegare, suturare. Non è, la mia, un’esortazione a organizzarsi dal basso in veste più o meno compensativa, suppletiva, riparativa, bensì a guardare bene ciò che già esiste, ad accorgersi che le fessure, le crepe, le smagliature, i buchi creati dall’esercizio formale della democrazia non sono vuoti. Che, proprio lì, è in corso un lavorio sotterraneo, invisibile, modesto che produce il solido tessuto cicatriziale su cui molte e molti di noi stanno in piedi e permettono ad altre e altri di fare altrettanto. Potremmo chiamarle pratiche di sopravvivenza, ma anche atti di speranza, di resistenza o di semplice buon senso. Dove tutto tira verso la catastrofe, c’è chi sa che tutto è più lieve quando non si è soli ad affrontarla. Basta dare un’occhiata alle tendopoli erette nella Striscia bombardata di Gaza per accorgersi che democrazia è fare con, non contro, fuori dal raggio necrofilo e intermittente dei riflettori. È la postura umile di chi sa ascoltare con attenzione i gesti e le parole non dette dei bambini e il silenzio improvviso delle cicale prima del temporale, di chi si ostina a non confondere le donne con la Donna, gli uomini con l’Uomo, di chi ha rinunciato risolutamente a ogni forma di potere, di chi sa aspettare perché nulla è per sempre e tutto è in costante divenire.

Come scrive l’antropologo Stefano Boni nella sua prefazione al prezioso libretto di David Graeber Critica della democrazia occidentale (titolo originale There never was a West, or, Democracy emerges from the spaces in between, trad. it. di Alberto Prunetti, elèuthera, Milano 2024), «le pratiche democratiche tendono a sorgere inaspettatamente ovunque la socialità umana si organizza al di fuori degli apparati coercitivi». Tali apparati, militari o burocratici che siano, hanno la funzione di reprimere e deprimere. Ecco perché uno degli strumenti più limpidamente democratici a nostra disposizione è quella ‘militanza gioiosa’ teorizzata dalla filosofa Silvia Federici: un agire insieme che parte dall’insistenza del desiderio, dalla forza vitale dei piccoli piaceri e da un’immaginazione carnevalesca, irriverente, incontrollabile, non solo dalla rabbia che stiamo accumulando e dall’indignazione, sentimento troppo inducibile ed evanescente per essere affidabile.