testata registrata presso Tribunale di Napoli n.70 del 05-11-2013 /
direttore resp. Pietro Rinaldi /
direttore edit. Roberto Landolfi

La cosa più difficile quando si è adulti è farsi nuovi amici

di Nicola H. Cosentino
tratto da Avvenire del 22 marzo 2024


La vita degli adulti, soprattutto nelle grandi città, è spesso stressante, alienante e impegnata dal lavoro. Le responsabilità sono molte, il tempo è poco, soprattutto per conoscere persone che siano affini e stimolanti. E quindi, come farsi nuovi amici? E come non perdere quelli che già si hanno?

Da qualche mese la mia ragazza ha un flirt con Gabriella. Mentre scrivo, loro due sono al cinema a vedere Perfect days o La zona d’interesse. Non so quale abbiano scelto, alla fine; da un certo punto in poi la mia ragazza ha smesso di darmi aggiornamenti, e ritengo che sia un buon segno, perché lei e Gabriella vogliono piacersi. Galeotto è stato l’algoritmo: l’una ha visto la faccia dell’altra su una app di incontri, ha dato un’occhiata al suo profilo e ha fatto swipe a destra (che significa: “ti approvo, incontriamoci”). Proprio come la gente che vuole fare sesso, o spera di fidanzarsi. Solo che loro puntavano a qualcosa di più raro, almeno per una persona sopra i trenta, che magari ha già un partner, lavora tutto il giorno e vive in una grande città che non è quella in cui è cresciuta: un’amicizia.

L’app da cui è scaturita Gabriella si chiama Hey! VINA, esiste da circa otto anni ed è, da slogan ufficiale, il “Tinder delle amiche”. La mia ragazza l’ha scaricato nel 2023, durante un periodo in cui ragionavamo molto sul fatto di non riuscire più a conoscere persone nuove, che non fossero legate ai nostri ambienti professionali. Com’era possibile? Avevamo rubriche piene di impegni mondani, mai così tanti dalla pandemia, eppure questa bulimia di feste, birrette, gite, cinema e cene ci suggeriva non una fioritura ma un avvizzimento delle rispettive socialità. Da quanto tempo, a furia di vedere gente, non riuscivamo a farci degli amici? Qual era stata l’ultima volta in cui avevamo provato l’appagamento di risultare interessanti a uno sconosciuto che ci sembrava interessante? Possibile che nessuno ci piacesse abbastanza? O peggio, che noi non piacessimo abbastanza a nessuno? Sembrava che, arrivati a trent’anni, dovessimo accettare di aver chiuso per sempre con gli affetti nascenti, e di iniziare a contare quelli morenti, o comunque calanti. Non sono ironico, perciò, quando dico che la mia ragazza ha un flirt con Gabriella. Né mi fermo al primo livello semantico, quello della reciprocità, se scrivo che vogliono piacersi: “l’un l’altra”, certo, ma anche “a se stesse”. Appena oltre la voglia di divertirsi, in ogni sguardo d’intesa fra nuovi possibili amici si specchia all’infinito una preghiera: “fa’ che l’adulto che sono appena diventato non sia la versione peggiore del ragazzo che ero”. 

1. Contro gli interessi in comune

Qualche giorno fa, la mia amica Elena mi ha mandato nella chat di Instagram un video in cui Michela Murgia parla di amicizia. “Gli amici che ti fai quando hai sedici, diciassette, vent’anni” dice Murgia a un certo punto di quella che sembra un’intervista “hanno una qualità, hanno una specialità che nella vita sarà poi irripetibile. Avrai altre amicizie, anche molto qualificate, ma qualcuno che ti fosse testimone quando potevi ancora essere tutto… Quello non si ripete”.

Pochi minuti dopo aver visto il video, chiusa la chat con Elena, Michela Murgia è ricomparsa nel mio feed come co-protagonista sorridente di un post di Teresa Ciabatti. “A vent’anni ero furiosa, smodata, cercavo di diventare amica di tutti illusa che l’attenzione di molti mi mettesse al riparo (dalla solitudine, dalla tristezza)” ha scritto Ciabatti nella didascalia. “Poi ho iniziato a scegliere le persone giuste per me. E allora non è arrivata la calma, è arrivato il divertimento. Ci vuole tempo per scegliere le amiche”.

“Puntavano a qualcosa di più raro, almeno per una persona sopra i trenta, che magari ha già un partner, lavora tutto il giorno e vive in una grande città che non è quella in cui è cresciuta: un’amicizia”.

Chi ha ragione, fra le due? Meglio prima o meglio dopo? Gli amici migliori, “giusti per noi”, sono quelli che ci capitano davanti quando non siamo ancora nessuno-in-particolare o quelli che scegliamo quando abbiamo imparato a conoscerci? Dipende da come ci si rapporta col proprio passato, naturalmente, e da quanto siano profonde le differenze fra il vecchio e il nuovo sé, ma da un punto di vista fideistico è più suggestivo pensarla come Murgia, e sostenere – in un momento storico in cui gli algoritmi, il milieu e il concetto di “bolla” ci hanno convinto che gli interessi in comune siano la cosa su cui si fonda ogni rapporto di successo – che le amicizie più solide ed emozionanti si costruiscano quando sguazziamo nell’indeterminatezza. Quindi, quasi del tutto indipendentemente dalla nostra cultura, dalle nostre passioni, dal lavoro che facciamo, da quanti soldi abbiamo sul conto corrente.

Altrettanto interessante è che il punto di rottura sia quell’istante misterioso in cui smettiamo di essere potenziali. In cui diventiamo persone con dei margini definiti, non solo figlie ma anche padrone del nostro tempo, o Red o Toby, o volpe o cane da caccia: chi ci accompagna, da quel momento in poi, lo fa non per contribuire a darci una forma ma per starci accanto in quella che abbiamo già. E prima gli saremmo piaciuti? Mistero.  

“Ha ragione Michela Murgia” mi ha scritto Elena a commento del video. “Con gli sconosciuti cerchiamo sempre le cose in comune, ma poi, scusa, chi è che amiamo di più? I fratelli. E li amiamo a prescindere da quanto ci somiglino. Anzi, meno ci somigliano più cose capiamo della vita, perché siamo costretti a confrontarci, a cambiare, a venirci incontro… Con gli amici dovremmo fare lo stesso. Non credi?”. 

Credo. E allora perché non frequentiamo persone diverse da noi? Forse perché ne incontriamo di meno. I gusti si affinano, gli spazi si restringono, il tempo manca, si predilige la formalità. La psicologa inglese Linda Blair ha detto al «Guardian» che il peggiore ostacolo alla solitudine degli adulti è il fatto che per essere amici bisognerebbe avere delle esperienze condivise. (Senza nulla togliere a Blair, lo ha detto anche la mia ragazza prima di incontrare Gabriella, quando temeva che non trovassero niente da dirsi: “Mi sa che per essere amiche bisogna essere state amiche”).

Questo avviene soprattutto in spazi che ci avvicinano l’un l’altro su base più o meno casuale, come la scuola, il vicinato, un appartamento, l’università. Ma più si cresce più è facile detestarlo, il caso, ed è allora, quando si comincia ad accarezzare l’idea di tatuarsi sull’avambraccio la frase “I am the master of my fate, I am the captain of my soul”, che subentrano gli interessi in comune, le affinità elettive, la convinzione che sia più facile voler bene a una persona che ascolta i tuoi stessi musicisti, guarda i tuoi stessi film, segue i tuoi stessi sport, vuole farsi i tuoi stessi tatuaggi. “Sei anche tu un master del tuo fate?”, “Sì, fratello, fatti abbracciare”.

Insomma, ci offre davvero più chance di affezionarsi, questo cercarsi fra simili? O sarebbe meglio non cercarsi affatto, capitarsi e cavalcare l’onda?

2. Una moneta da due euro

Mi accorgo adesso, a proposito di tatuaggi, che Murgia parla di amicizie irripetibili, non durevoli, e che il suo discorso può applicarsi anche ai rapporti perduti. Insomma, il discorso suo e di Ciabatti non sono affatto contrapposti; in un caso si parla del passato, in un caso di ciò che gli subentra. Ho, anzi, avevo, un’amica carissima, che negli anni del liceo è stata, forse, più di un’amica – non ho mai approfondito la questione con me stesso, né in psicoterapia, figuriamoci con lei.

A vent’anni abbiamo litigato ma, come accade solo con le persone che si frequentano nell’adolescenza, le dovrò sempre molto: letture, pensieri, canzoni e un certo modo di voler bene, quando ancora era tutto nuovo, tutto sorprendente, tutto incisivo. Si chiama Susanna. Nessuno come lei mi ha conosciuto tanto in profondità in quella versione così scontornata e disorganica, ed è per questo, credo, che abbiamo litigato. Quando, come dice Murgia, smettiamo di “poter essere ancora tutto”, non sempre vogliamo accanto persone che ci ricordino quel disordine, quella fumosità, quell’affanno.

Il giorno prima che diventassimo così amici, a tredici anni, all’inizio del liceo, Susanna mi aveva scritto un sms: “Domani ci prendiamo un caffè?”. Ce lo siamo poi presi, nel bar della scuola, e lo ha pagato lei, perché io mi ero dimenticato i soldi, anzi, a tredici anni non pensavo proprio che mi servissero, i soldi, me ne sono accorto quel giorno; da allora giro sempre con una moneta da due euro in tasca, casomai servisse a farsi nuovi amici. “Domani ci prendiamo un caffè?” è la formula che uso più spesso, nelle pubbliche relazioni. La ripeto forse trecento volte all’anno, ma non ha più la stessa efficacia di un tempo ― resta una formula, insomma, ma ha smesso di essere  magica.

Con chi prenderlo, d’altronde, questo caffè? Con chi spenderli, i due euro? (Sì, lo so, non bastano più per pagare due espresso, ma i simboli sono impermeabili all’inflazione). Eccetto quei sei o sette amici storici che dopo la pandemia non sono fuggiti da Milano, ma che comunque, con gli anni, vediamo sempre meno di quanto vorremmo, io e la mia ragazza usciamo con persone che per pudore non riusciamo ancora a definire “amici”, e con cui, nonostante l’impegno e la simpatia, non si è instaurata una vera intimità. Eppure non chiediamo molto. Vogliamo soltanto ricreare quello che abbiamo lasciato in provincia, e nelle nostre vite precedenti ai trenta: una famiglia altra.

Io continuo a cercarla nella gente che incontro alle presentazioni dei libri, alle fiere, alle feste, sentendomi a disagio per i miei doppi fini, e impegnandomi così tanto nel non sembrare appiccicoso da ottenere spesso l’effetto contrario, e risultare freddo. (Peraltro, le frequentazioni nate nell’ambiente lavorativo veleggiano immancabilmente sul conflitto d’interessi, senza spingersi mai abbastanza al largo, senza mai gettare un’ancora.) La mia ragazza è stata più brava: si è iscritta a Hey! VINA e, dopo aver conosciuto Gabriella, ha smesso di usarla.

3. La gente, le piante, la terra

Oltre noi, chiedendo a quelli che conosciamo: Daniele ha costruito solide relazioni d’amicizia a partire dagli incontri fatti su Grindr, Elena ha approfittato del corso preparto, Matteo di un corso di cucina e Shanti, ogni tanto, esce con “quelle di arrampicata”. Parafrasando Pavese, un corso ci vuole, o un’app, soprattutto se siamo distanti da quel paese che, secondo l’autore di La luna e i falò, “vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. La gente, le piante, la terra. Dopo il trasferimento in una nuova città, arriva sempre il momento in cui si tenta di replicarle, di ricreare le stesse atmosfere della nostra formazione. Solo che è impossibile, manca l’elemento costitutivo che rende le trame del passato sempre meglio intrecciate di quelle del presente e del futuro: la consuetudine inerziale, quel ritrovarsi quasi per forza, quasi involontariamente, nei soliti rifugi, come i Nottambuli di Edward Hopper. Una condizione che Max Pezzali – anche lui pavese, ma nel senso che è di Pavia – ha ben sintetizzato col verso “Stessa storia, stesso posto, stesso bar”. Ecco, vorremmo ancora qualcosa che fosse “stesso”, ma per definizione ciò che è “stesso” non si può ottenere se non molto lentamente, e una volta che ce l’hai è fatto apposta per essere svalutato, poi rimpianto, ecc. 

“‘Domani ci prendiamo un caffè?’ è la formula che uso più spesso, nelle pubbliche relazioni. La ripeto forse trecento volte all’anno, ma non ha più la stessa efficacia di un tempo”.

Conosco un ragazzo, Tiziano, che non fa che parlare della nostalgia per Parigi, dove ha vissuto felicemente per dieci anni e da cui, alla fine, per motivi che non conosco, ma a malincuore, se n’è andato. Tiziano è sensibile e intelligente, e sa benissimo di essere a un passo dal rendersi ridicolo, dal perdersi nel proprio personaggio di francofilo rompipalle, ma il suo è un modo, credo, per avere quella vecchia vita sempre a portata di mano, per non dirle addio, per imbastire una vicinanza virtuale con persone che sperava di frequentare per sempre. Abitare la propria nostalgia, circondarsi di fantasmi, è uno stratagemma come un altro per non sentirsi soli. Io sono più pratico, e più ipocrita: ho provato a più riprese a far trasferire tutti gli amici calabresi a Milano, remando contro la convinzione che restare al Sud è giusto, bello, coraggioso, costruttivo. Lo dico sempre, “Bravi che siete rimasti, vi fa onore”, poi li prego di raggiungerci, per rievocare i sabati sera in provincia, “che sembra tutto finito, poi ricomincia”.

4. Siete i primi

I nuovi sabati, però, sono belli lo stesso. Solo, meno casuali, anzi, organizzatissimi, non è che capitino e basta. L’altra sera, per esempio, eravamo da Giulia e Federico, che hanno appena comprato casa. Per riuscire a trovare una data che mettesse d’accordo tutti ci siamo impegnati molto, e ne è valsa la pena, perché quando siamo entrati nel loro nuovo trilocale, vuoto e scintillante, ci hanno detto: “Siete i primi a vederlo”. Mentre arrossivo mi sono accorto che era la terza volta che ci sentivamo rivolgere questa frase, nel senso che evidentemente eravamo stati i primi a cenare in una casa nuova già altre due volte, il che mi ha lusingato e mi ha ricordato che non siamo davvero senza amici, anzi, forse siamo tra i migliori amici di almeno sei persone. 

Cos’è che me lo fa dimenticare? La lontananza nel tempo e nello spazio, credo; le settimane che passano fra un appuntamento e l’altro, i chilometri che separano i nostri divani. Sì, lo so, Piola-Romolo non è Honolulu-Sarajevo, mi sto lamentando di mezz’ora di metro, ma abitare in una metropoli significa impigrirsi, specie se, paradossalmente, la metropoli in questione è molto comoda, uniforme e relativamente piccola.

Quando abitavo a Roma, che è grande sette volte Milano e ha mezzi pubblici spesso inefficienti, mi spostavo più volentieri, incentivato dalla differenza fra i suoi molti quartieri. Quello che trovavo al Pigneto non c’era su corso Trieste, e via con la vita da flâneur. Milano, invece, rende autonomi fino all’isolamento: capita spessissimo di allontanarmi da Città Studi, certo, ma mai perché ne sento l’esigenza. È più che ragionevole che la mia vita si svolga dentro e sotto casa, e che desideri che i miei amici abitino nel palazzo di fronte, ma che dico, al piano di sotto, ma che dico, nel cassetto delle medicine.

Giulia e Federico, che prima sono stati nostri coinquilini e poi vicini di quartiere, sono ormai lontani. Il loro nuovo immobile di proprietà si trova a quattro chilometri dalla mia scrivania, quindici minuti di macchina, venti di bicicletta, trenta di mezzi, cinquantacinque a piedi. In provincia sono niente, visti dalla luna neanche esistono. Qui a Milano, invece, appena scoccano le sette di sera mi sembrano infattibili. Doverli raggiungere sarà per sempre un nobile sacrificio, e viceversa. Nel corso della cena l’ha fatto notare anche Federico, con una battuta: “Peccato, adesso che abitiamo in due stati diversi non ci vedremo mai più”. Giulia lo ha rimproverato: “Ti prego, non gli fare passare la voglia di venirci a trovare, sono gli unici amici che abbiamo”. Era un’iperbole, ma mi sono quasi commosso, volevo alzarmi e abbracciarla. A sedici anni, con Susanna, l’avrei fatto, ma trentadue, a Milano, le distanze pesano, quindi sono rimasto seduto.

5. Ormai adulti, ormai esausti

Giacché sto scrivendo di amicizia, ho chiamato Armando, il mio migliore amico, anzi, uno dei due, ho due migliori amici, e gli ho chiesto un parere sull’argomento. “Sono d’accordo che sia più raro farsi dei nuovi amici, a trent’anni,” ha detto, “ma non che sia più difficile. È una questione di fasi, nel senso che fare amicizia, nelle nostre vite, diventa via via meno centrale. Da ragazzini, le persone che abbiamo vicino ci servono ad autodeterminarci, a capire quanto valiamo, chi siamo, e non soltanto a farci compagnia. Da un certo punto in poi, invece, chi siamo lo sappiamo già, e quindi le amicizie diventano qualcosa di… Non voglio dire ‘decorativo’, ma insomma, sono meno profonde. Le gestisci meglio, ne dipendi meno. Io, per esempio, mi sono accorto che le amicizie più recenti, quelle che ho creato negli ultimi anni, dipendono solo dagli interessi in comune, dalla quantità di cose che posso condividere, fare, organizzare. Se smetto, se mancano gli argomenti o i programmi, non rimane niente. Resistono solo le amicizie vecchie, quelle che tengo a salvare, per cui mi impegno di più”. 

Dopo Armando ho scritto a Viola, un’amica che non vedo mai ma che sento vicinissima, il cui affetto non mi sembra mai precario, mai in pericolo. Lei sostiene che non dipenda tanto dall’età quanto dalla stanchezza. “Più che ormai adulti il fatto è che siamo ormai esausti” mi ha risposto. “Gli stimoli che riceviamo dalla società, da una certa età in poi, sono legati al produrre, sistemarsi, realizzarsi, costruire, arricchirsi ecc. A questi stimoli noi rispondiamo per sottrazione, isolandoci”.

“È più che ragionevole che la mia vita si svolga dentro e sotto casa, e che desideri che i miei amici abitino nel palazzo di fronte, ma che dico, al piano di sotto, ma che dico, nel cassetto delle medicine”.

Dove si trova, mi ha detto, il tempo per farsi una rete, e per infittire le trame di quella che avevamo già, se siamo così impegnati a difenderci dal precariato, dalla competizione, dalla solitudine, dall’ansia, dalla nostalgia di casa o dalla tentazione di fuggire? “Il risultato è che se sei un fuorisede avrai poche occasioni per creare un ponte e raggiungere un’altra isola, e se sei un, diciamo, nativo sarai meno isolato di un fuorisede perché ti porti dietro ogni giorno le certezze di una vita, ma difficilmente riuscirai a stringere nuove amicizie profonde, ti butterai sui colleghi e sulle persone che vedi ogni giorno al lavoro o in palestra. Credo che superata questa fase in cui l’enfasi si concentra sull’essere-avere-costruire, spontaneamente si torni a essere più disponibili all’incontro, in una prospettiva di maggiore leggerezza e rilassatezza. Proprio quando avremmo meno bisogno di una tribù che ci sostenga, finiamo per crearcela senza accorgercene”.

6. La lista degli invitati

A luglio mi sposo. Ho scoperto che poche cose come i matrimoni ti obbligano a riflettere sullo stato delle tue amicizie. Il foglio Excel su cui io e la mia ragazza stiamo compilando la lista degli invitati dovrebbe dirci una volta per tutte, nero su bianco, che amici siamo, e di chi siamo veramente amici, mentre invece è una tela di Penelope il cui polimorfismo – a volte è striminzita, a volte esageratamente lunga – rivela quanto sia problematico definire e incasellare i nostri affetti. Questi sì, questi no, a questi vogliamo bene ma non li vediamo mai, questi li vediamo sempre ma non gli vogliamo così bene, e questi altri sembrano meravigliosi ma li conosciamo da quindici giorni. Come si fa a mettere un punto sulle nostre amicizie, a dire una volta per tutte “eccole qui, né più né meno”? Certi giorni mi faccio travolgere dall’entusiasmo e aggiungo persone che sto appena frequentando, per tendergli una mano e dire “andiamo oltre”. Certi altri li dedico a depennare gente con cui ho avuto rapporti intensissimi, come Susanna, perché, semplicemente, non la conosco più. 

Il problema, quindi, decolla dal conoscere persone nuove e atterra sull’evitare di allontanare quelle che abbiamo già conosciuto e che ci piacciono. 

Viola, per esempio. Mi ha detto che probabilmente al matrimonio non ci sarà, perché lei, suo marito e la loro bambina hanno deciso di fare i turisti climatici, e cioè di fuggire via dalla torrida Italia per tutta l’estate, verso mete più fresche. Mi è dispiaciuto molto. L’apocalisse che finora scioglieva i ghiacciai, ora minaccia anche di sciogliere i nodi fra persone.

7. On va prendre un café?

Intanto la mia ragazza è tornata a casa, allegra. Lei e Gabriella hanno visto Perfect days, e poi sono andate a cena. Le ho chiesto se i molti silenzi l’avessero annoiata, intendevo i silenzi del film, ma lei ha capito i silenzi con Gabriella. “Li abbiamo coperti facilmente” ha detto, buttandosi sul letto. Sono felice per la sua allegria, ma anche un po’ invidioso di questo strano rossore, di questa impennata di adrenalina e di mistero. Voglio coprire anch’io dei silenzi. Appena finito di scrivere manderò un messaggio a Tiziano, il ragazzo a cui manca Parigi. Com’è che si scrive, in francese, “Domani ci prendiamo un caffè”?

Nicola H. Cosentino è scrittore e critico letterario. Collabora con «La Lettura». Il suo ultimo romanzo è Le tracce fantasma (Minimum Fax, 2021).