A quasi
vent’anni dall’ultima volta, i laburisti hanno stravinto le elezioni
britanniche. Un ritratto del loro sfuggente e impenetrabile leader, Keir
Starmer, uomo serio, concreto ma ancora poco emozionante.
La notte in cui
la sua vita è cambiata per sempre, è saltato il wifi. Erano le dieci di sera
del 4 luglio, a Londra, in una casa su due piani, presa in prestito da un
amico. Keir Starmer, leader del Labour, era sul divano davanti al televisore
assieme a sua moglie Victoria e ai suoi due figli: aspettavano i primi exit
polls a urne chiuse, erano sintonizzati sulla Bbc, si tenevano stretti. Il Big
Ben ha fatto il suo rintocco, la grafica dei primi dati è comparsa sullo
schermo e sì, Starmer aveva vinto le elezioni con una grande maggioranza, era
il nuovo premier del Regno Unito. Il tempo dei baci e degli abbracci, delle
urla di gioia dei consiglieri schiacciati in fondo al salotto e finalmente sollevati,
in grado di uscire dal mutismo dell’ultima mezz’ora e persino di prendere
qualcosa dal buffet – e poi salta tutto. Schermo nero, telefoni senza segnale,
la famiglia e la squadra che da mesi – da anni – avevano lavorato per quel
momento si sono ritrovati scollegati dal resto del mondo.
Qualcuno rideva
nervoso, qualcun altro riprendeva a mangiare, non c’era alcol da bere. Starmer
è andato al piano di sopra per risolvere il guaio tecnico in effetti
“fastidioso”, ha detto al giornalista e suo biografo Tom Baldwin che lo segue
ovunque da due anni, salendo le scale. Il segnale è tornato, il nuovo premier
britannico ha controllato gli altri exit polls: era tutto vero. Andrai a
dormire dopo il discorso della vittoria previsto alla Tate alle luci
dell’alba?, gli ha chiesto Baldwin. No, ancora no.
“Riservato e
schivo, sono pochi quelli che sanno decifrare il nuovo premier britannico. Non
si conoscono nemmeno i nomi dei figli, che sono due, un maschio e una femmina,
quest’ultima la più recalcitrante al trasloco nella nuova casa”.
Keir Starmer,
che oggi ha 61 anni, è adulto da quando è ragazzo. La malattia immunitaria di
sua madre Jo lo ha costretto a prendersi cura di lei e della sua famiglia (ha
tre fratelli) ed è in quegli anni duri – già dall’adolescenza, perché sua madre
era malata ancora prima che Keir nascesse: i medici le avevano detto a
diciott’anni che non avrebbe potuto fare figli e che sarebbe rimasta su una
sedia a rotelle entro breve – che ha sviluppato la sua difficoltà di mostrare
emozioni e la sua determinazione a vincere. Riservato e schivo, sono pochi
quelli che sanno decifrare il nuovo premier britannico.
I giornalisti
sono andati a caccia di informazioni e aneddoti, nel quartiere della working
class a Oxted, nel Surray, in cui è cresciuto con gli asini in cortile, nei
campetti da calcio che frequentava fin da bambino, nell’Università di Leeds,
tra gli amici, tra i colleghi della sua lunga carriera da avvocato, ma non
hanno trovato molto: Starmer si è costruito una corazza di serietà, preparazione
e professionalità quasi inscalfibile. Si è pure trovato una moglie, Victoria,
che è persino più sfuggente di lui: Vic non ha dato nessuna intervista, si è
presentata soltanto alle occasioni ufficiali e naturalmente – sottile,
emozionata e vestita di rosso – la mattina in cui, tenendosi per mano, sono
entrati per la prima volta nella residenza del premier, al numero 10 della
minuscola Downing Street. Per dire: non si conoscono nemmeno i nomi dei figli,
che sono due, un maschio e una femmina, quest’ultima la più recalcitrante al
trasloco nella nuova casa.
La riservatezza
di Starmer è forza e debolezza assieme. Forza perché per un leader che ha messo
la serietà al centro della sua proposta per il paese che vuole governare, la
totale assenza di fronzoli e distrazioni è molto efficace. Il Regno Unito esce
da quattordici anni di governo conservatore e da una stagione scandita dalla
fantasia della Brexit, dagli scandali, dall’avvicendarsi turbolento di premier,
da toni alti e spesso volgari. Non è certo una specialità soltanto britannica,
questa, ci siamo abituati a conoscere dettagli sui leader mondiali e le loro
famiglie: sappiamo com’è a letto Donald Trump (non eccelso); sappiamo di quanto
crack si è fatto il figlio del presidente Biden, Hunter; sappiamo che l’ex
premier britannico Boris Johnson non è sicuro del numero di figli che ha sparsi
nel mondo, e via così, di storie e storie che forse preferivamo ignorare. Non
perché il pettegolezzo politico non sia divertente, lo è, ma perché apre la
strada a giudizi (spesso moralistici) che poco hanno a che fare con la priorità
di un leader politico: far funzionare il paese che governa. Così accade che
arriva uno come Starmer per il quale ideologia, frivolezze ed estetica stanno a
zero, e tutti dicono: che noia. Se non sai nulla di un politico, vuol dire che
questo politico è noioso e non ha niente da raccontare, che è al limite il
babysitter di un paese che ha certamente bisogno di cure, ma che non vuole
delineare un futuro ambizioso. Non è digeribile un leader che s’incaponisce su
concretezza e serietà e per tutto il resto si fa i fatti suoi.
Andrew Sullivan,
giornalista e scrittore britannico in America da decenni, era compagno di
scuola di Starmer negli anni Settanta e ha conosciuto Boris Johnson negli anni
Ottanta a Oxford. Dice che era più in confidenza con Starmer, “prendevamo
entrambi ogni mattina il 428 e il 410, i bus per andare alla Reigate, io ero un
minuto tatcheriano con gli occhiali, molto nervoso, Keir era quasi un
picchiatore bolscevico, i capelli come i Bay City Rollers, il nodo grosso della
cravatta e il primo bottone della divisa slacciato: aveva proprio un’aria
ruvida. Le nostre discussioni iniziavano sull’autobus e divennero molto più
accese quando, nel 1975, la Thatcher divenne leader dei Tory: quando fu eletta
premier, ci urlavamo dietro praticamente ogni giorno”. Non litigavamo soltanto
sulla politica, dice Sullivan che è ancora in contatto con Starmer, ma su
tutto, anche sulle frasi più memorabili dei Monty Python: “Ci siamo entrambi
ammorbiditi, e Keir si è trasformato in un uomo lucido e professionale, ma ama
come allora stare con gli amici di sempre”. La grande differenza tra Starmer e
Johnson? Sullivan è sicuro: uno è cresciuto, l’altro no.
“Alla convention
del Labour nell’autunno dello scorso anno, la Bbc gli mostrò le risposte date
dagli elettori alla domanda: per cosa si batte Keir Starmer? La più popolare
era ‘nothing’, seguita da: ‘non lo so’, ‘sé stesso’, ‘gli inglesi’ e un
generico ‘Labour'”.
Alla convention
del Labour nell’autunno dello scorso anno, quando il partito era già dato per
probabile vincitore con un ampio vantaggio rispetto ai conservatori al governo,
Starmer fu intervistato dalla Bbc. Gli mostrarono le risposte date dagli
elettori alla domanda: per cosa si batte Keir Starmer? La risposta più popolare
era “nothing”, seguita da: “non lo so”, “sé stesso”, “gli inglesi” e un
generico “Labour”. All’inevitabile richiesta di commento, Starmer rispose: “Mi
è stato gettato addosso di peggio nella vita”. Anche i commentatori e gli
insider del mondo laburista hanno fatto fatica a decifrare Starmer. Alastair
Campbell, l’architetto del New Labour di Tony Blair oggi autore e conduttore di
un podcast di grande successo, “The Rest is Politics”, dice di aver compreso
col tempo “l’istinto per la vittoria” del nuovo premier. Oggi lo definisce
“coriaceo, resiliente, serio, calmo quand’è sotto pressione”, ma ammette di non
avere la pretesa di “capirlo fino in fondo”. La giornalista Helena Lewis dice
che bisogna osservare Starmer come se fosse un prestigiatore: “Non badate alle
chiacchiere, guardategli le mani”. Starmer ha cercato di spiegare che si può
essere seri e implacabili allo stesso tempo: “Non è una o l’altra cosa – ha
detto al suo biografo – solo sono approcci utili in contesti differenti. Cerco
di essere decent, rispettoso, nei confronti delle persone che
dovremo aiutare una volta che saremo al governo. E voglio concentrarmi su quel
che potrebbe accadere se non dovessimo essere in grado di fare quel che è
necessario per questo paese”. E’ per questo che Starmer ha ricostruito da capo
il Labour.
I leader
laburisti di solito non vincono. Nei 125 anni di storia del partito, ci sono
stati soltanto sei premier laburisti prima di Starmer e l’ultima vittoria
risale al 2005, con Tony Blair. L’ascesa del Labour oggi è ancora più
straordinaria se si pensa che soltanto quattro anni e mezzo fa, nel dicembre
del 2019, Johnson vinse una solida maggioranza e inflisse al Labour la
sconfitta più pesante dal 1935. Quella batosta è stata il trampolino di Starmer
che ha sostituito il leader sconfitto Jeremy Corbyn: la transizione era inevitabile,
ma Starmer faceva parte del governo-ombra di Corbyn (si occupava di Brexit) e
sembrava un traghettatore malleabile verso un futuro rimasto senza connotati.
Di lì a poco sarebbe pure scoppiata la pandemia: immaginate cosa vuol dire
essere il leader poco conosciuto e poco esperto – Starmer è entrato ai Comuni
nel 2015, cinquantenne – di un partito a pezzi e il massimo che puoi fare è una
diretta dal salotto di casa tua.
Mentre tutti
pensavano agli astri nascenti del Labour (senza trovarli), Starmer ha rifatto
il partito, e se c’è un ambito in cui si capisce quanto sappia essere
implacabile è proprio la ricostruzione del Labour. Il corbynismo è stato
estirpato, la classe dirigente è stata rivoluzionata, le idee massimaliste sono
state cancellate: un paio di anni dopo l’arrivo di Starmer, il Labour era
tornato a essere un partito di centrosinistra che aveva fatto i conti con il
suo passato, persino con il blairismo, con cui molte altre sinistre europee
litigano ancora. Il resto lo hanno fatto i Tory votati al cannibalismo interno
– si sono messi a mangiarsi tra di loro rigurgitando premier inadatti, una tra
tutti: Liz Truss – e incapaci di mantenere le promesse. Starmer ha vinto grazie
a una strategia elettorale efficientissima, che gli ha permesso di conquistare
una supermaggioranza parlamentare, e grazie al fatto che i Tory hanno sbagliato
tutto.
“Ora che ci sarà
da soffrire ancora, perché davvero il Regno Unito è un paese stremato, gli
inglesi chiederanno al loro premier di fare quello che ancora non ha fatto, e
chissà se ne è capace: mostrare il suo cuore, far battere il loro”.
Starmer ha passato buona parte della sua vita a non mostrare le sue emozioni. Lo ha fatto da piccolo con la malattia di sua madre e nel rapporto solido ma freddo con suo padre; lo ha fatto dopo nella sua carriera da avvocato, perché davanti ai giudici devi imparare a essere il più neutrale e fattuale possibile, i sentimenti e il coinvolgimento rischiano di far deragliare i tuoi testi e le tue parole. Dice che le sue emozioni non sono importanti, conta essere autentici, coerenti, pratici. Gli inglesi gli hanno creduto: aspettavano un acquazzone di sobrietà per ripulire il circo conservatore. Ma ora che ci sarà da soffrire ancora, perché davvero il Regno Unito è un paese stremato, chiederanno al loro premier di fare quello che ancora non ha fatto, e chissà se ne è capace: mostrare il suo cuore, far battere il loro.
Paola Peduzzi è vice direttrice del Foglio.