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I tanti modi d’abbracciarsi su un campo da calcio

di Juan VilloroRevista de la Universidad de MéxicoMessico
tratto da “Internazionale” del 19.11.2022


Dopo aver riscontrato intense affinità, i poeti romantici russi suggellarono la loro amicizia scambiandosi le loro camicie. In modo semplice, questo gesto alludeva alla trasmigrazione delle anime.

Le partite di calcio finiscono allo stesso modo. Non prestiamo molta attenzione a questo fatto perché non ha alcuna influenza sul risultato, ma questo gesto simboleggia l’unione dialettica tra gli avversari. Al termine della lotta, i rivali cambiano colore e si abbracciano. Alcuni colgono l’occasione per sfoggiare un addome scolpito in palestra o un fantasioso tatuaggio, ma l’essenziale è la disponibilità simbolica ad assumere la pelle dell’altro. Questo permette di scoprire alcuni segreti. Quando il Ronaldo “fenomeno” ha ricevuto la maglietta bagnata di David Beckham, è rimasto sorpreso dal fatto che avesse un odore meraviglioso. L’Adone dei campi da calcio emanava profumo.

Per gli sconfitti, ottenere l’indumento di un rivale può essere una strana consolazione. A nessuno piace uscire con gli stracci del proprio boia sulla schiena, ma ci sono momenti in cui la sconfitta offre il raro orgoglio di contribuire alla gloria altrui: se giochi contro Messi, non c’è risultato migliore che ricevere la maglia numero 10 che ti ha umiliato.

Le partite esistono per fare gol, ma ogni calciatore festeggia in modo diverso. Careca planava come un aereo agricolo, Hugo Sánchez faceva una capriola da circo, James Rodríguez balla una cumbia di sua invenzione, e Griezmann si muove come un pupazzo dei videogiochi. Chi ha una moglie incinta nasconde la palla sotto la maglietta e chi ha già avuto un bambino si succhia il pollice. Dopo questi gesti arrivano gli abbracci. Ma non tutti sono uguali. Se la tua squadra sta perdendo quattro a zero e tu segni un gol fantastico, festeggiarlo in modo euforico ti fa apparire come un idiota. Al contrario, se la partita è bloccata sullo zero a zero, e si segna il gol che vale il titolo nei minuti di recupero, il buon senso impone la frenesia.

Esiste un protocollo per celebrare i gol? Anni fa, entrando negli spogliatoi dello stadio Azteca, vidi un cartello che sconsigliava di festeggiare in modo esagerato quando si segnava un gol. Poiché l’entusiasmo è soggettivo, è difficile capire cosa sia esagerato per una persona in preda a una trance di felicità.

Il calcio risponde a due energie fondamentali per abbracciare: centrifuga e centripeta. Quanti segnano e corrono a bordo campo hanno uno spirito individualista; vogliono essere notati e farsi notare da soli. Inoltre sanno che all’altezza della bandierina del calcio d’angolo una telecamera riprenderà il momento in cui si inginocchieranno davanti alla folla, in un epico tributo a se stessi, mentre i compagni di squadra accorreranno ad abbracciarli da dietro e li seppelliranno in una montagna di ammirazione e affetto. Al contrario, chi corre verso il centro del campo ha uno spirito gregario e capisce che il suo gol è il prodotto di uno sforzo collettivo. Ci sono state epoche, ormai perse nella notte dei tempi, in cui questa era la celebrazione abituale. Non sorprende che le cose siano cambiate: nell’era dei selfie, il marcatore si smarca dai compagni per essere fotografato da solo.

Questo gesto non è sempre egoistico, perché a volte è eseguito correndo verso i tifosi sugli spalti. Il valoroso Martin Palermo viveva per segnare gol in qualsiasi modo possibile. Avverso ai virtuosismi, si accontentava di colpire la palla con il naso o con l’orecchio. Pur non avendo una grande tecnica in un paese di artisti del pallone, ha battuto ogni tipo di primati per il Boca Juniors. Tra le sue virtù cardinali c’era la capacità di associare i suoi gol ai propri affetti personali. Quando segnava, pensava alla sua famiglia, alla sua prima ragazza, al suo cane preferito, al suo quartiere, alla sua città e al suo paese. Queste esaltanti illusioni lo facevano correre verso gli spalti alla ricerca di sconosciuti che rappresentavano surrogati provvisori dei suoi affetti.

La sua gioia centrifuga era così eccessiva da produrre le ferite più strane: Palermo si è fratturato per la felicità. Il 29 novembre 2001, mentre giocava nel Villarreal, affrontò i rivali del Levante, una squadra di Valencia, in una finale di coppa di Spagna. Erano presenti solo pochi tifosi del Submarino Amarillo (sottomarino giallo, soprannome del Villareal). Il caso volle che si trovassero dietro la porta dove Palermo segnò il gol che teneva in vita la sua squadra. L’attaccante si precipitò sugli spalti per abbracciare i tifosi, quando un cartellone pubblicitario gli crollò addosso, frantumandogli tibia e perone. In un’amara allegoria del calcio contemporaneo, l’esultanza del campione argentino fu ghigliottinata da un cartellone pubblicitario.

I marcatori centrifughi corrono a bordo campo; a volte si ricordano dell’esistenza degli altri e abbracciano un fotografo o un addetto alla sicurezza. I marcatori centripeti, invece, sono come Pelé, che saltava da fermo, frustando l’aria con la mano, e si fondeva con le maglie bianche della sua squadra o con quelle gialle della sua nazionale. Il caso di fusione più totale è stato quello di Alfredo Di Stéfano che, a quanto pare, festeggiava in totale intimità con la palla, a cui sussurrava: “Grazie, vecchia mia”.

Il calcio è uno sport di squadra, ma c’è chi lo intende in termini individuali. Quando Cristiano Ronaldo segna un gol, non cerca il compagno che gli ha fatto il passaggio o quello più vicino a lui: va verso la bandierina del calcio d’angolo, salta con un gesto che lo fa atterrare in piedi a bordo campo, con le gambe e le braccia tese, e aspetta che vengano ad abbracciarlo. Come una statua di sé stesso, rivendica l’ammirazione che meritano gli eroi.

Curiosamente, i giocatori che vengono abbracciati di più sono quelli che segnano per caso. Il terzino destro che, alto un metro e sessanta, riesce a segnare un gol di testa, spinge perfino il portiere ad attraversare tutto il campo per festeggiare. Questa celebrazione si basa sulla condizione irripetibile di quella gioia: l’eroe per caso non farà mai più una cosa del genere.

C’è poi l’abbraccio più complicato di tutti, quello dell’allenatore a uno degli uomini ai suoi ordini. Non è ancora nato un calciatore che voglia uscire dal campo da gioco. Quando l’allenatore lo sostituisce, questo può significare diverse cose. Se il giocatore in questione ha segnato tre gol e mancano otto minuti alla fine della partita, la sua esclusione è un omaggio, affinché lo stadio possa acclamarlo. Come il pubblico, anche l’allenatore gioca con i nervi e le grida. Abbracciando il protagonista esausto, egli riceve l’alta sostanza degli eroi, il sudore della gloria e dello sforzo. Questo abbraccio condivide con l’erotismo un merito essenziale: la sporcizia degli altri diventa deliziosa, o perlomeno sopportabile.

Più difficile da apprezzare è la scena del calciatore che lascia il campo perché non sta giocando bene o perché è privo delle qualità di chi lo sostituirà. Di tutti gli abbracci inventati dal calcio, preferisco quello del giocatore che non vuole andarsene e tuttavia accetta con dignità le braccia dell’uomo in abito Armani che lo ha appena ferito. Lo stratega si bagna d’un sudore che in questo caso significa obbedienza e disciplina, ma anche forza d’animo e sfida. Abbracciando pubblicamente colui che lo oltraggia, il guerriero ripete un gesto al quale apostoli, imperatori, boss mafiosi e rivoluzionari sono ricorsi per dire con rassegnazione e solennità: “Sono ancora con te”. L’aggredito è leale, ma non sarà possibile abusare della sua nobiltà.

Gli abbracci più emozionanti tendono a verificarsi tra giocatori slavi o latini, il cui busto non è sufficiente per dimostrare l’affetto che provano. È comune che le loro mani vadano alla nuca e alla guancia del celebrante, e che la gioia sia suggellata da un bacio. Quando l’abbraccio si scioglie, chi segna riceve due o tre sculacciate. Si tratta di un codice corporeo decisivo: l’abbraccio certifica ciò che è già avvenuto, la sculacciata è uno stimolo perché ciò si ripeta. In nessun’altra attività la sculacciata è così produttiva.

Passiamo al calcio femminile, un universo che sta diventando sempre più rilevante. Il suo grande contributo è l’onestà, e il calcio delle donne è la migliore riserva esistente di lealtà di questo sport. Il calcio maschile è diventato un ramo del teatro, in maniera tanto sorprendente quanto deludente.

Le finte e i giochi di prestigio richiedono un virtuosismo gestuale e il passaggio smarcante richiede un chiaro senso di presenza scenica. “Il calcio è l’unico posto in cui mi piace essere preso in giro”, ha detto César Luis Menotti, riferendosi alla virtù decisiva del campione, che gli permette di fare il contrario di ciò che ci si aspetta. Fin qui la teatralità è una dote altamente positiva. Ma la capacità di fingere è anche uno dei mali del calcio. In tutti i campionati esiste un’abbondanza di istrioni che si lamentano e cercano un fallo alla minima provocazione. Anche un giocatore sublime come Neymar preferisce fingere di aver subìto un colpo piuttosto che giocare davvero. Per convincere l’arbitro, i calciatori a caccia di un rigore si rotolano sul campo e muovono gambe e braccia in uno stato di torpore (curiosamente, si riprendono non appena gli passano una spugna sul viso).

Il calcio maschile si affida così tanto alle simulazioni che non sempre ci si può fidare della sincerità dei festeggiamenti. Figo lasciava che i suoi compagni di squadra del Barcellona lo adorassero mentre lui già pensava di firmare per il Real Madrid.
Invece il calcio femminile, nel frattempo, è notevolmente fiorito senza farsi invadere dagli imbrogli. Non ci sono calciatrici famose per aver segnato con le mani. Il tradimento è una prerogativa maschile.
Di conseguenza, gli abbracci nei campi femminili hanno un’atmosfera diversa, come una kermesse o una festa di fine anno. Sebbene non manchino folli esplosioni d’emozione, la celebrazione è di solito un piacere condiviso, non la venerazione di un Cesare.
Proprio quando pensavamo di aver visto tutto in fatto di abbracci, compresa l’ipocrisia professionale del titolare che abbraccia il suo sostituto, è arrivato il var (video assistant referee) a confondere le emozioni.
Il gol ci costringe a gridare fino a perdere la voce. Sugli spalti abbiamo abbracciato persone che non avevamo mai visto prima, ma che sono diventate intime perché con esse condividevamo un desiderio collettivo. Ho amato poche persone quanto lo sconosciuto che ha pianto sulla mia guancia quando il Necaxa è stato incoronato campione allo stadio Azteca, dopo 57 anni d’attesa.

Oggi, grazie alla tecnologia, la passione può essere messa in pausa. Lo stadio esplode per il gol, ma l’arbitro ha un dubbio. 
Arriva a quel punto un gesto degno del teatro kabuki: l’arbitro disegna un rettangolo in aria che significa “schermo” e chiede che una corte suprema riveda l’azione. La sensazione è quella del coito interrotto. Lo sfogo di gioia deve essere rimandato. Dopo un minuto di congelamento, l’arbitro conferma o annulla la sua decisione. Se decreta che il gol era regolare, i giocatori non hanno altra scelta che abbracciarsi per protocollo, mettendo in scena una gioia che provano solo a metà. Il gol rinviato ha il sapore di uno stufato riscaldato.

Concludo con l’abbraccio che nessuno vuole ricevere e che è forse, proprio per questo, il più forte di tutti. A ogni calcio d’angolo un difensore stringe l’attaccante con una veemenza che non concederà mai alla sua amante. Questo abbraccio è irregolare e può quindi durare solo pochi secondi. In esso si concentrano disperazione e impotenza. In fondo si tratta di un omaggio. Il difensore sa che l’avversario può superarlo; non potendo esercitare una marcatura pulita, trasgredisce le regole per contenerlo, trasformando l’abbraccio in una risorsa di rivalità.

La specie umana deve il suo destino all’uso delle mani, ma il calcio, fatto estremamente raro, ne vieta l’uso, con la piccola eccezione del portiere, che veste e pensa diversamente dagli altri.
Questo gioco di mani vietate esiste per arrivare a quel momento in cui la cosa più importante sono proprio le mani: l’abbraccio, il gol dopo il gol.

(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è stato pubblicato sulla Revista de la Universidad de México.