Paolo Sorrentino
non vuol sentir parlare di Parthenope - il suo decimo film, il
sesto in concorso a Cannes e l’unico titolo italiano in corsa quest’anno per la
Palma d’oro - come di una ‘lettera d’amore a Napoli’: “Non ho mai saputo
scrivere lettere d’amore, e qui non ci sono nemmeno rimpianto o nostalgia o
malinconia, come in altri miei film precedenti. Qui c’è semplicemente il passaggio
dell’età: la verità non appartiene alla giovinezza, è un luogo in cui si ha a
che fare con l’insincerità. Si è spensierati, ci si abbandona, si fa un
racconto epico di sé. Questo racconto di sé si interrompe a un certo punto
quando si entra in quella che Kierkegaard chiama la ‘vita etica’, si diventa
responsabili, si diventa se stessi, e spesso non ci si piace ma ci si accetta,
e l’unica possibilità che hai è di stupirti ancora una volta, come accade a
Stefania Sandrelli nel mio finale”.
Parthenope è un manifesto estetico estremo, senza compromessi con le convenzioni che
secondo gli standard dovrebbero cavalcare il gusto corrente del pubblico. E’il
lusso che può permettersi un autore che vanta uno status internazionale più
fulgido di qualsiasi nostro regista vivente. E’ Napoli con la sua filiale
esclusiva, Capri. Ma non come la Roma de La grande bellezza: in
forma di sterminata metafora, quasi l’avatar fantasy dell’autobiografico E’stata
la mano di Dio. La dilatazione narrativa e stilistica non è esattamente
la cup of tea del consumatore abituale di supereroi e di
action movies: potrebbe rischiare effetti collaterali.
Parthenope è
insieme una donna di carne e la sirena del mito, partorita dal mare. Parlando
del doppio binario, reale e simbolico, che struttura il racconto, il regista
spiega che “nasce dal desiderio di misurarsi con due misteri: la Donna e
Napoli”. In questo caso “i due misteri per un lungo tratto si sovrappongono”.
La Celeste Della Porta protagonista ha un viso d’angelo e un corpo da top model.
Nel greve e imperdonabile gergo maschile, la si definirebbe una ‘gnocca’.
Invade lo schermo, calamita i desideri maschili come le sirene cantate da
Omero, l’occhio della cinepresa la esplora ed esalta al limite della molestia,
come sicuramente obietteranno le femministe più severe. Se in finale compare
una Parthenope invecchiata e ‘risolta’, l’intero film è proustianamente
all’ombra delle fanciulle in fiore.
E i personaggi,
gli eventi che incontra, che scandiscono il ritratto contraddittorio di una
città con la sua miseria e nobiltà, sono come le figurine del presepe
napoletano: non quelle ordinarie bensì gli ’ospiti’ extra, che variano di anno
in anno secondo l’attualità. C’è la statuina del Grande Scrittore in sbronza
perpetua, Gary Oldman che impersona John Cheever, autore-culto della ragazza
sirena. C’è il mitico Comandante Lauro, quello che ti passava la scarpa numero
due se votavi bene. C’è il Boss camorrista che porta la Bella all’umiliante
spettacolo del coito pubblico tra i rampolli di due ‘famiglie’ in fusione. C’è
il Vescovo Beppe Lanzetta che masturba Parhenope nuda sotto gli ori di San
Gennaro: “Né provocatorio né trasgressivo”, secondo il regista. Isabella
Ferrari insegna recitazione, ma un velo fitto nasconde gli sfregi da lifting.
Parthenope
cresce divisa tra due amori inscindibili, Sandrino (Dario Alta) e Raimondo
(Daniele Rienzo), suo fratello. Ma c’è un tabù insuperabile tra Raimondo e il
suo oggetto del desiderio: finirà suicida. La statuina più irresistibile è
Luisa Ranieri, addobbata come Sofia Loren, con i boccoli (finti) di Sofia Loren
e gli occhiali di Sofia Loren. “Non è la Loren”, assicura Sorrentino. Che le
mette in bocca un’invettiva fuori copione: “Il problema siete voi napoletani.
Siete depressi e non lo sapete. Siete poveri, vigliacchi, piagnucoloni,
arretrati, e sempre pronti a dare la colpa a qualcun altro. Io me ne torno al
Nord: Io mi sono salvata, ma voi no: siete morti”.
Ma Parthenope non è solo un magnifico involucro, studia antropologia con profitto. E sceglierà nella vita l’insegnamento, circondata dal solo affetto dei propri studenti. Il suo prof. di gioventù, Silvio Orlando, incarna il perno forte, disincantato, della cultura e del pensiero napoletano. Le spiega che l’antropologia, nella sua essenza, è ‘vedere’, e che vedere è difficilissimo, “perché è l’ultima cosa che si impara”. Solo quando è certo che la sua allieva abbia imparato a ‘vedere’, la introduce presso il suo amatissimo figlio, un freak gigante, mostruoso e gentile ‘fatto di acqua e di sale, come il mare’. E lei dice: “E’bellissimo”.