“Ciascuno cresce
solo se è sognato” è un verso noto e citato spesso nel mondo dell’educazione
attiva. Assai meno nota è la vita di Danilo Dolci, nato il 28 giugno di cento
anni fa a Sesana, allora in provincia di Trieste. Eppure i pensieri e le azioni
di uno dei maggiori animatori di lotte nonviolente organizzate dal basso hanno
molto da insegnare, ancora oggi, a chi creda all’educazione come terreno di
emancipazione sociale.
Tutto comincia
all’inizio degli anni quaranta quando Danilo, sedicenne timido e introverso,
che si pensava poeta, arriva a Trappeto, piccolo paese della Sicilia
occidentale, al seguito del padre ferroviere. In quel viaggio incontra la
povertà estrema di un borgo di pescatori tra Palermo e Trapani, in cui le
condizioni di sofferenza degli abitanti lo colpiscono così profondamente da
indurlo a tornarci e rimanerci tutta la vita.
Dopo un passaggio decisivo a Nomadelfia, la comunità utopica fondata da don Zeno Saltini, che nel dopoguerra accoglie orfani e famiglie indigenti, Dolci desidera studiare a fondo la realtà siciliana, con l’intento di dar vita a trasformazioni efficaci e nonviolente. Ma per indole e per scelta ha, fin dall’inizio, l’intuizione che problemi così grandi e difficili da risolvere abbiano bisogno innanzitutto di un ascolto attento, per essere “lumeggiati dal di dentro”.
Le
conversazioni contadine di Danilo Dolci
Siamo negli anni
cinquanta, un tempo in cui l’orizzonte di un cambiamento radicale, dopo il
ventennio fascista e la catastrofe della guerra, ha acceso speranze in gran
parte tradite e deluse. A delineare il clima di quel tempo basti ricordare che
una delle testimonianze raccolte e trascritte costa a Dolci una condanna a due
mesi di carcere per “pubblicazione oscena” e “oltraggio al pudore”. Pena
condivisa con Alberto Carocci, che la pubblica su Nuovi Argomenti, la rivista
che dirige.
A quei tempi un
questore poteva denunciare e pretendere, la galera per chi narra la storia di
Gino che, essendo nato fuori dal matrimonio e avendo perso giovanissimo la
madre, si è trovato solo perché “figlio del peccato, di cui nessuno voleva
interessarsi”, incontrando poi e mettendosi in società con “un giovane il quale
andava a borseggiare e cominciò a insegnarmi a me”.
Scrivere e
pubblicare storie di questo genere offendeva il pudore di una società e di un
potere per il quale i poveri dovevano stare al loro posto, nascosti. Nessuno
doveva osare dare voce alle vittime e ancor meno portare alla ribalta vicende
che rappresentavano un’esplicita accusa all’incapacità politica di garantire
una vita degna a uomini e donne non considerati cittadini con dei diritti.
Banditi a
Partinico
Partinico è
lontana nove chilometri da Montelepre, paese natale del bandito Salvatore
Giuliano che, con la complicità dello stato, fu utilizzato da latifondisti e
mafiosi per sparare sulla folla di contadini radunata nell’altopiano di
Portella della Ginestra per festeggiare il 1 maggio 1947. Dolci arriva a Partinico
cinque anni dopo quella strage, ma osserva con altri occhi la realtà alla base
del banditismo.
Nel novembre
1955 pubblica la sua prima inchiesta sociale, dandole il provocatorio titolo
di Banditi a
Partinico (Sellerio 2009). Un libro particolarissimo in
cui rivela la radicalità innovativa del suo sguardo e del suo agire politico ed
educativo. Il volume ha una forma assai singolare, unica per quell’epoca.
Comincia con una serrata analisi sociologica piena di dati riguardo a “come si
campa, come si amministra, come si educa, come si assiste e cura”. Segue un
breve capitolo intitolato “Come si potrebbe risolvere”, in cui Dolci elenca
alcune proposte operative, sostenendo che “occorre promuovere azioni politiche
morali, dal basso”, elencandole con precisione.
“Occorrono, in
particolare, subito acqua a tutti (e ci può essere facilissimamente), le
fognature che mancano, un vero servizio di igiene per le strade, famiglie che
adottino i piccoli senza famiglia, case nuove, assistenza agli invalidi al
lavoro, educazione morale nei pubblici uffici, scuola sicura ai bambini e ai
giovinetti – e scuola che collabori alla realizzazione del mondo nuovo.
Occorrono bagni pubblici, lavatoi pubblici, cantina sociale, ospedale e
assistenza sanitaria efficienti, asili, biblioteca, università popolare, altre
scuole elementari, professionali e tecniche, centri culturali, ecc. ecc.”.
L’aspetto più
interessante di quel libro, così denso e propositivo, sta nel bisogno di Dolci
di dare sostanza a quelle sue proposte, ancorando i motivi di una rivolta
necessaria a volti e vite concrete. Ecco allora che, nella seconda e più
corposa parte del testo, compaiono narrazioni in prima persona di decine di
personaggi che, in una sorta di coro greco, danno voce a storie di angherie
subite e delineano i tratti aspri di un mondo in cui regna incontrastata
l’ingiustizia, intrecciate ad alcune testimonianze che aprono alla speranza e
all’impegno, delineando una prospettiva di emancipazione collettiva e solidale,
da costruire dal basso, con il metodo della nonviolenza.
Predicare e
agire
Nella prefazione
a Banditi a Partinico Norberto Bobbio delinea alcuni tratti
della personalità del triestino trapiantato in Sicilia. “La via presa da Danilo
Dolci è stata diversa, tanto diversa da essere insolita e singolarissima: è
stata la via del non accettare la distinzione tra il predicare e l’agire, ma
del far risaltare la buona predica dalla buona azione, e del non lasciare ad
altri la cura di provvedere, ma di cominciare a pagare di persona. La figura
morale e religiosa di Danilo, se dovessi esprimermi con una parola, è quella
dell’obiettore di coscienza: «A nessun poliziotto, a nessun Prefetto ubbidiremo
quando i suoi ordini saranno contro la legge di Dio». Ed è forse per questo che
ascolto volentieri la sua voce e seguo con rispetto il suo cammino”.
Il cammino di
Dolci è costellato da intuizioni e promozioni di forme di lotta
straordinariamente innovative. Nel 1952 si sdraia nel letto di Benedetto, un
bambino morto per denutrizione, e inizia uno sciopero della fame per attirare
l’attenzione sulle drammatiche condizioni infantili in molte zone della
Sicilia. In seguito a questa sua azione nasce una profonda amicizia e
condivisione d’intenti con Aldo Capitini, il più coerente e convinto militante
nonviolento italiano, che nel 1961 promuoverà la prima marcia della pace da
Perugia ad Assisi.
Nel febbraio
1956, seguendo l’esempio di Gandhi, Dolci propone a un folto gruppo di
pescatori, costretti all’indigenza dal dilagare della pesca di frodo protetta
dalla mafia, di dare vita a uno sciopero della fame collettivo, radunandosi
sulla spiaggia di San Cataldo. La manifestazione pacifica è sciolta dalla
polizia come adunata sediziosa, ma le proteste di Dolci cominciano ad avere
un’eco nazionale e internazionale.
L’Italia
nello specchio della Sicilia
Sempre nel 1956
organizza uno sciopero alla rovescia, preparato da una mobilitazione capillare
dal basso, in cui centinaia di disoccupati si ribellano alla loro condizione
organizzandosi per lavorare volontariamente, per rendere percorribile l’unico
tratturo dissestato che collega Partinico a Trappeto. Di nuovo interviene la
polizia, che questa volta arresta Dolci, insieme a un gruppo di manifestanti.
Al processo i
“sediziosi” sono difesi da Piero Calamandrei, che in una celebre arringa chiede
ai giudici “di creare gradualmente la nuova legalità promessa dalla costituzione
invece di difendere una legalità decrepita”. Aggiungendo: “Vorrei, signori
giudici, che voi sentiste con quale ansia migliaia di persone in tutta Italia
attendono che voi decidiate con giustizia, che vuol dire anche con indipendenza
e con coraggio, questa causa eccezionale: e che la vostra sia una sentenza che
apra il cuore della speranza, non una sentenza che ribadisca la disperazione”.
Calamandrei non
è ascoltato dai giudici, che condannano Dolci a cinquanta giorni di carcere. Il
processo ha tuttavia una grandissima eco perché la rivolta nonviolenta dei
contadini e dei pescatori siciliani, fortemente osteggiata dalla Democrazia
cristiana, dalla mafia e dalla chiesa, è sostenuta da molti intellettuali del
tempo: da Carlo Levi a Giorgio La Pira, da Renato Guttuso a Bruno Zevi, Alberto
Moravia, Elio Vittorini, Cesare Zavattini, Ignazio Silone, Enzo Sellerio e, a
livello internazionale, Bertrand Russell, Erich Fromm, Jean-Paul Sartre, Aldous
Huxley, Jean Piaget.
Dolci riesce
nell’azzardo a cui tiene di più, quello di costringere l’opinione pubblica,
attraverso lo schierarsi di un gruppo prestigioso di intellettuali
progressisti, a confrontarsi e ad accorgersi delle gravissime condizioni di
vita a cui sono costretti i più poveri, diseredati ed esclusi. Alcuni degli
intellettuali che lo sostengono durante il processo frequenteranno, negli anni,
il borgo educativo creato dal cosiddetto Gandhi italiano, candidato sette volte
al premio Nobel per la pace.
Per contrastare
ogni forma d’isolamento di quelle terre, nel 1970 dà vita, con altri, a Radio
Libera Partinico, tra le prime radio a sfidare il monopolio informativo della
Rai. Le trasmissioni durano solo 27 ore. Un tempo sufficiente, tuttavia, per
denunciare le gravissime mancanze delle istituzioni nei confronti di una
popolazione ferita e dispersa dopo il violento terremoto che, nel gennaio 1968,
ha raso al suolo molti paesi della vicina Valle del Belice.
Chissà se i
pesci piangono
“Lo studio per
risolvere i problemi della scuola, oggi in ogni parte del mondo, è importante
come lo studio del cancro”, scrive Dolci nel 1973, introducendo la ricca
documentazione di un’esperienza educativa, che intitola Chissà se i
pesci piangono (Mesogea 2018). Trecento pagine fitte di
ragionamenti e dialoghi registrati, che coinvolgono contadini, pescatori,
educatori, ragazze e ragazzi tra cui i suoi cinque figli, insieme a ricercatori
e intellettuali da lui invitati in Sicilia da ogni parte d’Italia e d’Europa.
Si discute della
noia e della rabbia, del destino e dell’importanza fondamentale della musica,
ma anche della diga sul fiume Jato, nata dall’intuizione di un contadino che ne
propone la costruzione in una delle innumerevoli riunioni organizzate da Dolci.
La costruzione di quella diga, ottenuta dopo anni di mobilitazioni e proteste,
è una dimostrazione tangibile dell’efficacia delle lotte che Dolci ha proposto
e animato, cambiando l’agricoltura della zona.
Frammenti di pratiche e lotte sociali nonviolente che si intrecciano a un esperimento di costruzione collettiva della conoscenza particolarmente attuale e illuminante.
“C’è chi insegna / guidando gli altri come
cavalli / passo per passo: / forse c’è chi si sente soddisfatto / così guidato.
/ C’è chi insegna lodando / quanto trova di buono e divertendo: / c’è pure chi
si sente soddisfatto / essendo incoraggiato. / C’è pure chi educa, senza
nascondere / l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni / sviluppo ma cercando /
d’essere franco all’altro come a sé, / sognando gli altri come ora non sono: /
ciascuno cresce solo se sognato”.
Goffredo Fofi,
che da giovane ha accompagnato per alcuni anni Dolci in molte delle sue prime
azioni, ripropone in Quante storie (Altra economia 2024) la bellezza di questi versi dello stesso Dolci
dedicati all’educazione. E sottolinea che, nell’affermare che “uno cresce solo
se qualcuno lo sogna”, “non tratta della pervasività dell’educatore, della
potenza di qualcuno che ti plagia, non riguarda la creazione di cloni, servi o
imitatori. Riguarda piuttosto l’idea di sognare ciò che il genere umano
potrebbe diventare, di immaginare concretamente le potenzialità delle persone
che hai di fronte, specialmente quando si tratta di bambini”.
A testimoniare
quanto l’attivista nonviolento abbia avuto la capacità di sognare i suoi
interlocutori può essere utile tornare alle decine e decine di storie di vita
che Dolci ha raccolto in tanti suoi scritti, e che Italo Calvino gli suggerì di
raccogliere nel 1963, in un libro intitolato Racconti siciliani, che Sellerio
sta per ripubblicare. Questa selezione di racconti è preceduta da
un’avvertenza, che tanto ci dice degli intenti del suo autore: “Ho scelto i
meglio leggibili badando a non sforbiciare liricizzando, temendo soprattutto
che la scoperta critica, il fondo delle reazioni di chi legge, rischino di
dissolversi in godimento estetico: tanto sono espressive, belle direi, alcune
di queste voci, nel lumeggiare dal di dentro i loro problemi”.
Dolci ci tiene a
sottolineare che questa collezione di storie è composta da voci da ascoltare
senza troppo compiacerci in estetismi, perché sono voci che si levano contro la
fame, la povertà, l’ignavia e i ricatti della mafia; contro il carcere, il
manicomio, la violentissima sottomissione delle donne e persino contro le
frane, con cui si è costretti a convivere in case fatiscenti che scivolano via
insieme alla terra; contro le imposture delle classi dominanti e la profonda
ingiustizia che tutto pervade”.
L’idea di educazione per cui ha sempre lottato Danilo Dolci comportava una piena condivisione di esperienze e sofferenze. Nel 1967, in Inventare il futuro, scriveva infatti: “So come questo mondo stenta ad uscire dal suo tempo primitivo verso quello in cui la tua vita è la mia vita, la mia vita non può non essere anche la tua; so che abbiamo appena iniziato ad apprendere che gli uomini possono davvero imparare solo se vogliono ricercare e sanno cercare anche insieme; e che purtroppo è sempre presente il rischio di dimenticare quanto si sa”.
(NdR)