tratto da Lucy sulla Cultura del 27 maggio 2024
In
"Ratatouille", il critico Anton Ego trova innovativo un piatto che è
in realtà domestico e tradizionale. Oggi, molti grandi chef propongono rivisitazioni
di piatti casalinghi che ci ricordano l’infanzia. Cosa succede quando anche la
cucina d'avanguardia diventa nostalgica?
Anton Ego,
l’arcigno critico gastronomico di Ratatouille, esiste davvero e una
volta ho cucinato per lui. È un critico gastronomico francese, forse il più
importante, ma preferisco non dirne il nome, perché non gradisce essere
accostato al film. Venne a cena nel primo ristorante che ho gestito, ormai
dieci anni fa, a Parigi. Il suo viso non è noto, ma una cliente affezionata mi
aveva detto che sarebbe venuto, quindi non dico che me l’aspettavo, ma mi
permettevo di sperarci.
Una sera c’era
una prenotazione per quattro persone, a nome “Vincent”. Con mezz’ora di
anticipo rispetto ai suoi commensali, arriva un signore distinto,
elegantissimo e molto cortese; ha una macchina fotografica. Il caso vuole che
il tavolo sia accanto alla cucina, quindi a un metro e mezzo da me. Io capisco
tutto, lui capisce che ho capito, scrivo un pizzino al mio collega che
praticamente sviene. Ricordo ancora cosa mangiò: un piatto di rigatoni al sugo
finto, un ragù vegetariano fatto di tantissimo sedano, carote, cipolle tritati
e brasato con del vino rosso: il sapore delle verdure caramellate nel vino
rosso ci ricorda la carne, anche se nella salsa non ce n’è. Amò molto il piatto
e tutta la questione, e mi disse che era un po’ la ratatouille delle paste, e
io tremavo.
Non recensì mai
il mio ristorante, perché per tutta una serie di motivi in quel periodo il mio
ristorante non aveva un nome, e non l’ha mai avuto perché poi è fallito. I
ristoranti parigini sono spesso assediati dai topi. Non ci si può fare niente,
se non stare in guardia per evitare che i clienti li vedano. Soprattutto, a
volte dobbiamo comunicarci, fra colleghi, la presenza di un topo, e farlo senza
che i clienti capiscano. Nella lingua segreta delle genti di bistrot, la frase
in codice era: “Fais attention, Vincent est arrivé”, Stai attento, è
arrivato Vincent.
” Io capisco
tutto, lui capisce che ho capito, scrivo un pizzino al mio collega che
praticamente sviene”.
Ratatouille è con ogni probabilità il prodotto culturale a tema gastronomico più
importante degli ultimi vent’anni. È uscito nel 2007: Masterchef esisteva solo
sulla televisione britannica, il miglior ristorante al mondo secondo il World
50’s Best Restaurants era elBulli di Ferran Adrià, quello
della cucina molecolare. Massimo Bottura era noto solo agli appassionati di
alta cucina, e solo in Italia.
Nel frattempo il
film è stato interpretato in tutti i modi possibili e continua a essere,
nonostante i suoi 15 anni di età, una fonte apparentemente inesauribile di
meme. C’è però, mi sembra, un dettaglio della trama che in pochi hanno
sottolineato. Vale la pena di leggere la recensione che Anton Ego pubblica
all’indomani della sua visita da Gusteau’s:
“Per molti versi
la professione del critico è facile: rischiamo molto poco, pur approfittando
del grande potere che abbiamo su coloro che sottopongono il proprio lavoro al
nostro giudizio. Prosperiamo grazie alle recensioni negative, che sono uno
spasso da scrivere e da leggere, ma la triste realtà a cui ci dobbiamo
rassegnare è che, nel grande disegno delle cose, anche l’opera più mediocre ha
molta più anima del nostro giudizio che la definisce tale. Ma ci sono occasioni
in cui un critico qualcosa rischia davvero… ad esempio, nello scoprire e
difendere il nuovo. Il mondo è spesso avverso ai nuovi talenti e alle nuove
creazioni: al nuovo servono sostenitori! Ieri sera mi sono imbattuto in
qualcosa di nuovo, un pasto straordinario di provenienza assolutamente
imprevedibile.”
Ora, come
ricordiamo tutti, il “nuovo” di cui parla è una ratatouille, cioè un piatto
domestico e tradizionale francese. Questa ratatouille, però, emoziona e
sconvolge Anton Ego non perché è buona (questo non lo possiamo sapere, dal
momento che non possiamo assaggiare i cartoni animati): il critico è sconvolto
e entusiasta perché quel piatto gli ricorda la sua infanzia.
Ora: è piuttosto
insolito pensare che il “nuovo” sia ciò che mangiavamo quando avevamo cinque
anni. Non è davvero importante stabilire se è colpa di Ratatouille o
se il film metteva in scena una tendenza già in atto nelle mode e nello spirito
del tempo, ma sta di fatto che da almeno quindici anni, in cucina, il “nuovo”,
l’eccitante, ciò che si deve assaggiare per forza, è molto spesso un piatto che
conosciamo da sempre.
Non era così,
prima, e non è sempre stato così.
Negli anni
Novanta, lo chef italiano più famoso al mondo era Fulvio Pierangelini.
Pierangelini era, ed è tutt’ora, un personaggio indisponente e che poco si cura
delle mode. Il suo ristorante si chiamava Gambero Rosso, ed era a San Vincenzo,
sul litorale sud di Livorno: ha chiuso definitivamente nel 2008, e da allora lo
chef si è auto-esiliato, facendo soprattutto consulenze per grandi hotel.
È famoso per una
manciata di piatti semplicissimi e struggenti, che hanno influenzato e molto
influenzano la cucina italiana contemporanea, ma che all’epoca lasciavano
piuttosto interdetta la clientela alto borghese che frequentava i ristoranti
stellati in Italia.
Gli anni Novanta e i primi Duemila erano, nella
cultura dell’alta gastronomia, un’epoca di grandi sperimentazioni: c’era l’idea
che un piatto dovesse stupire, turbare, sconvolgere. Pierangelini non cercava
di turbare con sapori strani e accostamenti ambiziosi o esotici. In un certo
senso, però, la sua cucina risultava comunque provocatoria, ma in un modo più
sottile: uno dei suoi piatti più famosi sono gli spaghetti al pomodoro, che
costavano 50 euro, e che diceva di poter fare solo lui. Dal suo punto di vista,
affermare di fare alta cucina con degli spaghetti al pomodoro, semplici, non
rivisitati, riconoscibili, abbondanti, era la più grande provocazione
possibile.
Da allora la scena gastronomica è cambiata molto. I
cambiamenti sono molti, ma tra questi ho la sensazione che molti dei piatti e
dei ristoranti di cui si parla di più, che influenzano il dibattito e le
ambizioni dei giovani, siano affetti da quello che potremmo chiamare la
“maledizione di Ratatouille”. Molti dei piatti più fotografati, bramati,
assaggiati, i piatti che non si possono togliere dal menu perché sennò i
clienti si infuriano, sono spesso semplici, con pochi ingredienti, e richiamano
apertamente una forma di conforto domestico che coinvolge la nostra parte
bambina.
In Italia, questo si traduce soprattutto in piatti di
pasta, nella maggior parte dei casi conditi con formaggio, pomodoro, o
entrambi. Ne cito qualcuno: Diego Rossi, chef di Trippa a Milano, ha in menu da
oltre un anno le fettuccine Alfredo (burro e parmigiano); il piatto simbolo di
Da Vittorio (tre stelle Michelin, a Brusaporto e con bistrot a Milano) sono da
anni i paccheri al pomodoro; ancora a Milano, un anno fa fecero un certo
scalpore i fusilloni in bianco di Portrait, del giovane chef Alberto Quadrio (che
nel frattempo non lavora più lì): si trattava di una pasta condita con solo
brodo di croste di parmigiano, venduta a 26 euro.
E ancora: Antonino Cannavacciuolo serve da anni, a
Villa Crespi, degli spaghetti al pomodoro come pre-dessert. Uno dei piatti più
noti di Riccardo Camanini, al Lido84 a Fasone del Garda, è la cacio e pepe in
vescica: dei rigatoni che vengono richiusi, crudi, in una vescica di maiale con
del pecorino, e cotti a lungo bollendo la vescica in acqua. Potrei proseguire a
lungo con gli esempi, ma non è questo il punto: ci tengo anzi a specificare che
gli chef che ho citato sopra sono per me maestri, punti di riferimento,
fratelli maggiori, colleghi stimati.
Faccio lo stesso mestiere e abito la stessa scena: i
piatti che ho citato sopra sono molto buoni, e spesso estremamente tecnici.
Oltre all’elemento tecnico e gastronomico, rispetto anche (forse ancor di più)
l’intelligenza e la capacità di leggere il tempo in cui viviamo, quell’istinto
che porta a creare e proporre piatti che incontrano il favore del pubblico e
della critica in modo così plateale, fragoroso e naturale. Come se non
aspettassimo altro che della pasta col formaggio. Perché evidentemente è
così.
Chiudendo il suo leggendario ristorante a soli 54
anni, Fulvio Pierangelini disse che, tra le altre cose, era stufo che i clienti
ordinassero gli spaghetti al pomodoro per i bambini. Diceva di non sopportare
che la sua serissima provocazione gastronomica non venisse capita. Era il 2008,
un anno dopo Ratatouille, e forse ciò che davvero non sopportava è
che la sua idea stava smettendo di essere provocatoria, e si avviava lentamente
a diventare moda, tendenza, se non ortodossia.
“Gli anni Novanta e i primi Duemila erano, nella
cultura dell’alta gastronomia, un’epoca di grandi sperimentazioni: c’era l’idea
che un piatto dovesse stupire, turbare, sconvolgere”.
Cucinare e proporre idee di cibo è il mio mestiere, e
mi ritrovo di conseguenza a vivere uno strano paradosso. Da un lato, ho
l’ambizione di creare e proporre piatti capaci di suscitare quel tipo di
emozione culturale, piatti che si stagliano immediatamente nella scena e sui
feed Instagram come la cosa da mangiare a tutti i costi. Al tempo stesso, sento
il dovere di chiedermi dove ci conducono il messaggio e il contenuto di quegli
stessi piatti: mi chiedo quale sia l’idea di cibo che sottintendono, perché un’idea
di cibo è anche, un po’, un’idea di vita.
E la forte tendenza nostalgica di queste idee di cibo
mi preoccupa.
Tutto ciò, naturalmente, non riguarda solo la cucina:
la nostalgia assedia da tempo e in modi diversi la cultura contemporanea, così
come la generale tendenza all’infantilizzazione dei nostri gusti privati. E non
c’è niente di nuovo né di perturbante nel fatto che la maggior parte di
noi desideri in realtà mangiare quasi solo pasta col formaggio: lo diceva già
Boccaccio descrivendo il paese di Bengodi (eravi una montagna tutta di
formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra
cosa facevan che far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi).
C’è però una differenza fondamentale fra ciò che – col
favore delle tenebre – mangiamo o vorremmo mangiare a casa e ciò che, grazie al
complesso sistema di influenze e intermediari, stabiliamo essere la moda
gastronomica del momento.
I koala mangiano solo foglie di eucalipto: se non c’è
quella pianta i koala si estinguono, cosa che infatti sta accadendo. L’essere
umano è invece decisamente onnivoro: grazie alle numerose tecniche di cottura e
trasformazione di ciò che esiste in natura siamo in grado di trovare nutrimento
in (quasi) qualsiasi cosa. Si pensa però raramente che essere onnivori
significa, di fatto, essere di bocca buona: non siamo un animale che spicca per
dei sensi particolarmente fini, né l’olfatto né il gusto.
Contrariamente a ciò che siamo abituati a pensare, il
nostro palato non è raffinato: ciò che è invece molto fine e articolata è la
nostra capacità di costruire strutture narrative e culturali che ci permettono
di ritenere interessanti gli alimenti più bislacchi, singolari e
improbabili.
Non ho davvero una soluzione alla maledizione di
Ratatouille. Perché dalle maledizioni, per definizione, non c’è scampo: non si
può cercare di evitarle o di sfuggirne, perché queste ritornano, non viste, in
altre forme, sempre più inesorabili. Mi piacerebbe, tuttavia, che non
diventassimo dei koala.
Facendo un po’ di ricerca per questo pezzo ho scoperto
che la ratatouille servita nel film è il risultato di una consulenza
gastronomica di Thomas Keller di The French Laundry, all’epoca uno degli
chef più noti al mondo. Il nome di quel piatto è in realtà Confit
byaldi ed è a sua volta ripreso da uno dei grandi chef della nouvelle
cuisine francese, Michel Guérard.
Il piatto è effettivamente una reinterpretazione della
tradizionale ratatouille, ma eseguito pensando a un piatto turco famosissimo,
una melanzana ripiena con un nome molto singolare, İmam bayıldı:
vuol dire ‘L’imam è svenuto’, si suppone dall’estasi, perché il piatto era
molto buono.
Forse il modo più onesto di descrivere questo
paradosso che tanto mi ossessiona è raccontare come i miei colleghi ed io
stiamo cercando di abitarlo cucinando, servendo e proponendo i nostri piatti
ogni giorno: tastando volta per volta le reazioni di chi è seduto ai tavoli,
alzando o abbassando il volume delle provocazioni nascoste fra le righe del
menu, per trovare il compromesso ideale fra cose buone da mangiare e buone da
pensare.
Mi rendo conto che il concetto non gode di ottima
stampa, ma i cuochi e gli chef sono la classe dirigente delle persone che
cucinano e delle persone che mangiano. Siamo in grado, ciascuno a modo suo e in
forme diverse, di influenzare le abitudini, i gusti, i desideri, e da ogni
potere derivano responsabilità.
Alcuni dei piatti dei grandi chef che ho citato prima
fanno questo lavoro, inserendo crepe culturali in piatti apparentemente rassicuranti:
le fettuccine Alfredo di Diego Rossi raccontano di un’italianità alternativa,
nata da una migrazione ormai secolare, che siamo abituati a considerare
distorta e pasticciata; l’idea di cuocere della pasta in vescica, come fa
Camanini, oltre a dare vita a un exploit tecnico straordinario, riunisce uno
dei più antichi e elementari piatti italiani alla tecnica della grande cucina
francese, come fece Gualtiero Marchesi oltre quarant’anni fa – inventando così,
di fatto, l’alta cucina italiana.
La soluzione che sto sperimentando, per il momento, è
proporre, anche in modo un po’ forzato, dei piatti rassicuranti, che
potrebbero piacere a un bambino, ma che non fanno parte della nostra infanzia:
i piatti di altri bambini. Nello specifico, perché mi piacciono e sono nelle
mie corde, piatti arabi, persiani, francesi, ma è capitato anche di fare piatti
creoli, canadesi, chissà.
Il piatto di pasta che abbiamo servito più a lungo
sono gli spaghetti alla tunisina: una pasta al sugo speziata, che è soprattutto
uno dei piatti più cucinati, in ambiente domestico, in Tunisia, il secondo
paese consumatore di pasta al mondo dopo di noi. Era un modo per dire che la
pasta non è solo nostra, ma anche per mangiare e servire una pasta libera dalle
nostre eterne lagne nazionali sulla tradizione, le nonne, i nostri pomodori che
sono buoni e il mondo che va così.
“La soluzione che sto sperimentando, per il momento, è
proporre, anche in modo un po’ forzato, dei piatti rassicuranti, che
potrebbero piacere a un bambino, ma che non fanno parte della nostra infanzia”.
Le regole non scritte della ristorazione contemporanea
prevedono, tra le altre cose, di avere uno o due piatti cosiddetti signature,
che sono sempre nel menu, qualsiasi cosa accada (salvo, in alcuni casi, quando
lo chef è per qualche motivo assente dalla cucina). Avevo in testa tutte queste
paste al sugo e al formaggio, quei piatti oggi così di moda che vent’anni fa
sarebbero stati nei menu bambini, e ho deciso che il mio piatto
firma sarebbe stato il minestrone, da servire tutto l’anno, caldo
d’inverno, freddo d’estate, e tiepido quando non si capisce che tempo fa.
L’ho scelto perché ovviamente mi piace e mi piace
cucinarlo, ma anche e soprattutto perché, quando ero piccolo, il minestrone mi
faceva schifo e forse anche un po’ paura. Troppe verdure irriconoscibili, e
come molti bambini le verdure io non le mangiavo. Metterlo nella prima riga del
menu, ogni giorno, mi dicevo, è un modo per dire che siamo stati bambini, ma
siamo cresciuti.
Non lo ordina quasi nessuno.
Tommaso Melilli è scrittore e chef. Collabora con «Repubblica» e altre testate. Il suo ultimo libro è Cucina aperta (66thand2nd, 2024).