Alberto Manzi era ed è, per tanti, il
maestro di Non è mai troppo tardi, il
programma televisivo andato in onda dal 1960 al 1968. Si dice che un milione e
mezzo di italiani, soprattutto adulti, abbiano preso la licenza elementare
grazie alle sue lezioni. Manzi era persuasivo e garbato: si presentava in
giacca e cravatta davanti a una lavagna sulla quale era montato una specie di
grande bloc-notes. Lo sfogliava e con un gessetto nero disegnava omini buffi,
case, strade, auto, trattori, carretti tirati dai buoi. E poi vocali,
consonanti, parole. Manzi era popolarissimo. E non solo tra i contadini, gli
operai, le donne con il capo avvolto da un panno nero, cioè i suoi alunni che
lentamente sillabavano e prendevano appunti davanti alla tv nei bar di paese o
nelle case del popolo. Dappertutto in Italia il suo era il viso affabile del
maestro.
Quella rappresentazione di sé lo
inorgogliva, nonostante fosse una persona schiva. Ma forse, a guardarla ora, a
cent’anni dalla sua nascita, avvenuta a Roma nel novembre 1924 gli sta un po’
stretta (per il centenario sono in programma molte iniziative, sia editoriali
sia d’altro genere). Soprattutto considerando di quali esperienze, anzi di
quali avventure fosse piena la sua vita di educatore e di militante. Lui per
primo non ne faceva parola se non in famiglia e con poche altre persone. Quelle
vicende tenute in disparte riemergono in un romanzo che, pubblicato nel 1974,
ritorna in una nuova edizione: La luna nelle baracche (Edizioni di storia e letteratura
2024).
Il libro racconta di un villaggio in
un’imprecisata località dell’America Latina, dei poverissimi contadini
sfruttati dal nobile don José, della loro vita difficile e di Pedro, che
vorrebbe iscriversi al sindacato, ma può farlo solo se impara a leggere e a
scrivere, rischiando per questo di essere picchiato e ucciso.
Dal 1955 al 1976, e poi ancora fino alla
metà del decennio successivo, Alberto Manzi, ogni anno, per almeno venti
giorni, un mese o anche più, è andato in remoti villaggi dell’altopiano andino,
tra Ecuador e Perù. Oltre che diplomato all’istituto magistrale, ha compiuto
studi di biologia e il primo viaggio in Sudamerica è finanziato da una borsa di
studio dell’università di Ginevra per analizzare alcune formiche amazzoniche.
Ma più che dalle formiche, è attratto dagli esseri umani, dai campesinos, dalla
loro miseria e dalle angherie che sopportano. Entra in contatto con una
missione di preti salesiani e stringe amicizia con don Giulio Pianello (che,
trasfigurato in don Julio, ritroviamo in La luna nelle baracche).
Ed è così che comincia a fare scuola tra i ragazzi e gli adulti. I suoi alunni
sono una quindicina: “Insegnavo l’alfabeto, a leggere e scrivere in spagnolo”,
racconta Manzi, “arrangiandomi come potevo, poi loro insegnavano agli altri”.
La prima rivelazione pubblica dei viaggi
andini, della scuoletta tra i campesinos, è in una videointervista che Manzi
rilascia a Roberto Farné, pedagogista dell’università di Bologna. Siamo nel
giugno 1997. Farné sta conducendo una ricerca sulla tv educativa in Italia. Il
maestro ha la voce affaticata, ogni tanto prende fiato. Ma è sereno,
sorridente, una malattia molto grave gli lascia appena un po’ di tregua. Morirà
qualche mese dopo, nel dicembre 1997, a settantatré anni.
Farné non sapeva nulla dell’avventura
sudamericana e lo colpisce il fatto che Manzi la rievochi senza particolare enfasi.
In realtà non è un segreto, però è un’esperienza che Manzi non esibisce, e
anche la moglie Sonia, che assiste all’intervista, resta stupita dal fatto che
lui si sia deciso a raccontarla, chissà, consapevole che gli resta poco da
vivere.
Non è un segreto, si diceva. Dal 1956 e
ancora per qualche anno Manzi firma alcuni reportage dal Venezuela e dalla
foresta amazzonica che compaiono su Il Vittorioso, il settimanale per ragazzi
diretto da Domenico Volpe, suo amico dai tempi di scuola. Sul giornale Manzi è
presentato come “il nostro inviato” e i suoi sono racconti di grande freschezza
narrativa, sia che scriva di Caracas sia che con i padri salesiani raggiunga il
cuore impervio della foresta o che si spinga dal popolo jibari, “che vive in un
oceano verde senza confini”. (Gli articoli sono conservati al centro Alberto
Manzi, a Bologna, ma si possono leggere anche
online).
Lo stile dei reportage è asciutto ed è
lo stesso di La luna nelle baracche, un romanzo
originariamente destinato ai ragazzi. Ma il Pedro solitario che combatte contro
don José e i suoi scherani, e anche contro la rassegnazione dei compagni,
sembra quasi uscire dalle pagine di Le terre del Sacramento di
Francesco Jovine o da Fontamara di
Ignazio Silone. Gli stessi temi compaiono nei suoi due romanzi
successivi, El loco (1979) e E venne il sabato (uscito postumo nel 2005),
ambientati entrambi in villaggi sudamericani, e di cui però sfuggiva al lettore
il fatto che fossero il frutto di vicende vissute.
È la scuola, comunque, al centro dei
suoi interessi. Manzi, sottolinea Farné (che è anche autore dell’introduzione
a La luna nelle baracche), “è un pedagogista colto” e
con i bambini indigeni pratica gli stessi metodi adottati prima a Campagnano, vicino
a Roma, e poi nella scuola Fratelli Bandiera della capitale, dove insegnerà
fino alla pensione. “Manzi”, insiste Farné, “è artefice di una didattica che
non si limita a ‘depositare’ conoscenze, come avrebbe detto il pedagogista
Paulo Freire, ma vuole generare nei ragazzi una presa di coscienza, per cui
leggere e scrivere è il primo passo per essere protagonisti di un cambiamento”.
Manzi, aggiunge Farné, “era un battitore
libero, ma è indubbio che lo si possa accostare al don Lorenzo Milani di
Barbiana oppure ai maestri del Movimento di cooperazione educativa, i Mario
Lodi o gli Albino Bernardini”. In più il maestro di Non è mai troppo tardi ci mette il lavoro
volontario in una estrema periferia del mondo, dove, come lui stesso racconta,
allarga il raggio delle azioni: “Dopo i primi anni non sono andato più solo:
(…) molti ragazzi, studenti universitari specialmente di Roma, ma anche di
Bologna, Torino, mi chiedevano se potevo portarli con me. Non tutti insegnavano
a leggere e scrivere, se c’era uno studente di medicina, insegnava le norme
igieniche, il pronto soccorso. Ognuno dava quel che poteva”.
Fare scuola in questo modo è dirompente
e fieramente antagonista laddove vigono abusi di potere e odiose
disuguaglianze. E in effetti Manzi e i ragazzi che lo hanno seguito incappano
nelle maglie della repressione. “Cominciarono ad accusarci di essere
guevaristi, oppure papisti o un qualunque accidente che finiva in ‘isti’”,
racconta a Farné, “per cui iniziarono ad arrestare dei gruppetti e io non me la
sentivo più di rischiare la vita di questi ragazzi. Fu allora che intervennero
i salesiani, quelli del Pontificio ateneo salesiano di Roma; cominciando dal
Brasile, dal Perù e dalla Bolivia, dove la situazione politica si era fatta
pesante, non era possibile tornare. Alcuni stati non mi davano più il visto:
non ero una persona gradita”.
Manzi ricorda di aver avuto rapporti
anche con sacerdoti della teologia della liberazione e di aver sempre distinto
tra la chiesa vicina ai poveri e quella che sostiene il potere. Tra la fine
degli anni settanta e i primi ottanta torna in Sudamerica, forse in maniera
irregolare. Molte di queste vicende sono contemporanee alla messa in onda
di Non è mai troppo tardi. E non è azzardato pensare che
il silenzio su di loro servisse a evitare che fosse allontanato dalla tv. Ma
non ci sono prove. Nel 1992 è tornato in tv con il programma L’italiano per gli extracomunitari.
Per il resto la sua attività è
proseguita a ritmi intensi. Ha continuato a insegnare, spesso contravvenendo ai
precetti ministeriali, come quando si è rifiutaro di redigere le schede di
valutazione degli alunni. Ha scritto tanti libri per bambini (il più celebre
è Orzowei).
Gli ultimi anni di vita li ha trascorsi a Pitigliano, in provincia di Grosseto,
di cui è sindaco fino a due mesi prima di morire, eletto nelle liste del
Partito democratico della sinistra (Pds).