Storico terzo mandato per il premier che, per la prima volta, dovrà fare i conti con i propri alleati. Riforme più difficili. Borse a picco.
Il primo ministro indiano Narendra Modi martedì ha incassato il suo terzo mandato consecutivo alla guida del Paese più popoloso della Terra al termine di un’elezione che lo ha fatto entrare nella Storia e brutalmente ridimensionato sul piano politico.
Dal punto di vista elettorale, il dato più rilevante del voto è senza dubbio la perdita della maggioranza parlamentare del Bharatiya Janata Party, o Bjp. Per la prima volta da quando, dieci anni fa, è tornato al potere, il partito del premier potrà governare solo grazie all’alleanza con i suoi partner nella National Democratic Alliance (Nda), con in testa due partiti regionali ondivaghi e opportunisti che, per ora, hanno promesso il loro appoggio e avranno potere di veto sulle riforme.
Sul piano politico, la notizia più importante di
martedì riguarda il buono stato di salute della democrazia più popolosa del pianeta
che, specie durante il secondo, pervasivo quinquennio di potere di Modi e del Bjp, aveva lanciato
segnali preoccupanti, tanto da venire retrocessa dal V-Dem Institute ad
«autocrazia elettorale».
Secondo i dati quasi definitivi disponibili nella
tarda serata indiana di martedì, la National Democratic Alliance (Nda) del
premier si è aggiudicata 291 seggi, 52 in meno rispetto a 5 anni fa. Dietro la
flessione c’è la deludente performance del Bjp di Modi che ha perso ben 63
deputati. Nel 2019 il Bjp di
Modi vinse 303 seggi (31 in più rispetto ai 272 necessari ad avere la
maggioranza) con il 37,4% dei voti. Oggi, per effetto del maggioritario secco,
a una percentuale simile (36,6%) corrispondono solo 240 seggi. I partiti
raccolti sotto la sigla India (Indian
National Developmental Inclusive Alliance), dopo cinque anni di assoluta
marginalità, torneranno a rivestire il ruolo di opposizione parlamentare grazie
a 234 seggi, 107 in più rispetto al 2019. L’Indian National Congress, il
principale partito della coalizione manderà a New Delhi 99 deputati, quasi il
doppio di 5 anni fa. Molto ridimensionati i partiti non schierati con le due
coalizioni: 18 seggi, 55 in meno del 2019.
Gli altri grandi sconfitti della giornata elettorale
di martedì sono stati i mercati finanziari. In parte perché molti titoli, già
di loro con multipli elevati, “prezzavano”
una larga vittoria per la coalizione di governo. In parte perché, dopo
settimane più prudenti durante cui si erano avvertiti segnali di rimonta da
parte dell’opposizione, nel weekend sono stati pubblicati una serie di sondaggi
che davano in largo vantaggio il Bjp. Sulla base di quei dati – e nonostante la
storia degli exit poll indiani invitasse alla prudenza – lunedì gli indici
di Borsa indiani sono
saliti ai massimi storici.
Ma martedì il Sensex del Bombay Stock Exchange e il Nifty del National
Stock Exchange hanno chiuso rispettivamente a -5,75% e -5,93%, bruciando, come
si dice in questi casi, 386 miliardi di dollari. Le società del Gruppo Adani –
il cui presidente, Gautam Adani,
è l’imprenditore che ha beneficiato in maniera più smaccata degli anni di
potere di Narendra Modi – hanno perso in una sola seduta 45 miliardi di dollari
di capitalizzazione. Tra le quotate al Nifty 50, le due peggiori in assoluto sono state Adani Ports
(-21,15%) e Adani Enterprises (-19,31%). La rupia ha perso circa lo 0,5% contro il dollaro. Tra i titoli
di Stato il rendimento del decennale è salito di 11 punti base al 7,06%,
l’aumento più repentino da ottobre.
Nonostante una campagna elettorale costruita intorno all’obiettivo di
raggiungere i 400 seggi di coalizione, martedì sera Modi ha descritto in toni
trionfali l’esito del voto. Mentre un’opposizione galvanizzata dai risultati ha
chiesto un po’ provocatoriamente l’incarico di formare il nuovo governo.
Gli Stati da cui sono giunti i dati più clamorosi sono
stati Uttar Pradesh, Maharashtra e
West Bengal. Elettoralmente parlando si tratta di tre pesi massimi:
valgono rispettivamente 80, 48 e 42 seggi. La sconfitta più simbolica del Bjp è
senza dubbio quella di Faizabad, la circoscrizione che comprende Ayodhya, la città dell’Uttar Pradesh
dove pochi mesi fa Modi ha consacrato personalmente, in un’elaborata cerimonia
religiosa, un colossale tempio induista costruito sulle macerie di una moschea
demolita illegalmente da una folla di estremisti vicini al suo partito.
Durante la campagna elettorale, l’insistenza su questo
tipo di contrapposizioni è stata vista da diversi osservatori come un segno di
nervosismo da parte di Modi e come un tentativo di motivare l’elettorato
induista radicale. Mai era successo che un primo ministro definisse «infiltrati» i membri di una minoranza
religiosa.
Sul risultato finale probabilmente ha contato di più la performance economica del decennio di potere di Modi: il +8,2% di crescita dell’anno fiscale appena concluso, ma anche i due crolli del Pil durante un clamoroso esperimento di demonetizzazione nel 2016 e in concomitanza con la pandemia, nel 2020. La ripresa post-Covid è stata all’insegna dell’allargarsi delle disuguaglianze, creando fratture ancora maggiori tra i ceti alti, che hanno beneficiato di un boom che ha trainato i consumi dei beni di lusso, e quelli bassi che hanno continuato a misurarsi con disoccupazione elevata, retribuzioni modeste e inflazione ostinatamente alta.