tratto da Internazionale, ripreso da Libreria delle Donne del 21 maggio 2024
C’era una
canzone che cantava mia nonna quando ero bambina, raccontava la storia di una
certa Teresina. Era una parabola sull’onore, ma all’epoca non lo sapevo. Per me
era solo una storia d’amore che finiva male. Una delle mie preferite. Mia nonna
non ricordava dove aveva imparato quel racconto. E aggiungeva o toglieva delle
parti ogni volta che lo cantava, in quella sua lingua misteriosa ed espressiva.
Un po’ in italiano, un po’ in dialetto. Ma la storia era davvero successa,
assicurava lei. Non si trattava di un racconto inventato.
Qualche volta
diceva che gliel’aveva raccontata un cantastorie, di quelli che un tempo giravano
per le piazze dei paesi, un’altra volta che l’aveva letta sul giornale e che
era la storia vera di una ragazza di cui si era tanto parlato dalle sue parti
anni prima.
Teresina era
«felice e bella», diceva la canzone. Era una contadina di sedici anni e s’innamorava
di un uomo più grande di lei, Giulio, che le giurava un amore eterno. Ma poi le
cose si mettevano male: la sorella di Teresina, Margherita, si innamorava dello
stesso uomo, e Teresina rimaneva incinta. A sedici anni e fuori dal matrimonio.
«Come una serpe fa a uccellino», la sorella di Teresina attirava a sé Giulio,
convincendolo che Teresina lo tradiva e che il figlio che portava in grembo non
era il suo.
Così Teresina
era abbandonata da Giulio, che decideva di sposare Margherita. Ma poi, nella
storia, c’era un secondo tempo inaspettato, un finale che forse era il frutto
dell’immaginazione di mia nonna. Il giorno del matrimonio, Teresina si
presentava all’altare e uccideva sia Margherita sia Giulio. E poi si consegnava
alla polizia per farsi arrestare. «Chi al mondo fa del male, sempre del male
avrà», concludeva mia nonna. Ed era una specie di maledizione, un monito, il
tentativo di ribaltare l’ingiustizia.
“Fare l’amore”,
diceva mia nonna per dire che una ragazza frequentava un ragazzo. Lo diceva
senza nessun imbarazzo. Quando diceva “fare l’amore” non intendeva niente che
avesse a che fare con il sesso o l’intimità, anzi la sua intenzione era
spiegare – senza mai dire niente in maniera esplicita – che “fare l’amore” per
una donna implicava una specie di lotta con l’amato e con se stessa per evitare
qualsiasi contatto fisico.
Il sesso fuori
dal matrimonio, una gravidanza fuori dal matrimonio erano la cosa peggiore che
potesse capitare a una ragazza, perché rischiava di essere abbandonata da tutti
e rinnegata perfino dalla sua famiglia, una macchia indelebile che l’avrebbe
segnata per tutta la vita.
Saltavo sulle
ginocchia di mia nonna senza nessuna grazia certi sabato pomeriggio, mentre
aveva appena finito di vedere una soap opera in televisione o di leggere un
libro. Faceva le due cose con continuità, guardava Sentieri su
Rete4 e leggeva molti libri Harmony. Erano gli anni ottanta.
Lei era nata nel
1909, come John Fante e Rita Levi Montalcini, ma non aveva studiato perché
aveva cominciato a lavorare a quindici anni. Tra noi due c’erano settant’anni
di differenza. Si era sposata tardi, raccontava. E per tardi intendeva
ventisette anni. Aveva avuto quattro figli, di cui due erano morti prima dei
due anni.
Aveva sempre
lavorato. Non l’ho sentita fare mai discorsi su cosa dovesse fare o non fare
una donna, ma la questione dell’onore era un’ossessione. Ho capito anni dopo
che era una paura che le avevano inculcato fin da bambina. Era terrorizzata che
una ragazza facesse sesso prima del matrimonio come dalla possibilità di essere
morsa da una vipera d’estate durante una scampagnata. Sapeva nel profondo del
suo cuore che avere un figlio fuori dal matrimonio per una donna della sua
generazione poteva arrivare a costarle la vita.
All’origine del dominio maschile
Il delitto
d’onore è rimasto in vigore in Italia fino al 1981. Un uomo – un padre, un
fratello, un marito – che uccideva una donna che aveva macchiato il suo onore,
e cioè che aveva fatto sesso fuori dal matrimonio, poteva avere l’attenuante
del delitto d’onore. La pena per l’omicidio poteva essere ridotta, considerando
che stava difendendo il suo onore e quello della sua famiglia, presupponendo
quindi che gli uomini della famiglia avevano una specie di diritto di controllo
e proprietà rispetto alle donne e alla loro sessualità.
Fino al 1930 in
Italia era riconosciuta un’attenuante anche per l’omicidio dei figli nati fuori
dal matrimonio, chiamati “prole illegittima”. In alcuni paesi del mondo i
delitti d’onore sono ancora tollerati: in Pakistan nel 2022 384 donne sono
state uccise dai loro familiari per questioni legate all’onore, è il paese con
più femminicidi al mondo. Ma il fenomeno non ha nazionalità, è globale.
Secondo lo
psichiatra francese Philippe Brenot, all’origine
del dominio maschile sulle donne e della violenza, che ne è la conseguenza, c’è
l’incertezza della paternità. La violenza maschile sulle donne è una
caratteristica esclusiva della specie umana ed è indissolubilmente legata
all’invenzione del matrimonio e al controllo della sessualità femminile (anche
fuori dal matrimonio) come garanzia del riconoscimento dei figli per gli
uomini.
Fino agli anni
ottanta erano attivi in tutta Italia diversi istituti, spesso gestiti da
religiosi, in cui le donne che avevano concepito un figlio fuori dal matrimonio
erano mandate dalle loro famiglie per nascondere la gravidanza: in questi
istituti partorivano e poi erano costrette ad abbandonare i figli, dati in
adozione. Questi luoghi hanno funzionato fino ai primi anni ottanta. La legge
194, che ha legalizzato l’interruzione di gravidanza nel paese, è entrata in
vigore nel 1978.
Nel
recente Il prezzo degli innocenti (Longanesi 2023) la
giornalista italoamericana Maria Laurino ha raccontato che tra gli anni
sessanta e ottanta circa quattromila bambini italiani sono stati sottratti alle
loro madri in queste circostanze. E sono poi stati adottati da famiglie
benestanti negli Stati Uniti, che in cambio versavano agli istituti alte somme
di denaro. In molti casi le donne erano minorenni, venivano da contesti di
povertà.
Quante siano
state le donne che si sottraevano a questo destino e che portavano avanti la
gravidanza nonostante tutto è complicato ricostruirlo. Spesso si mentiva sui
figli nati fuori dal matrimonio. Un espediente era quello di fare credere che
fossero figli avuti dai genitori delle neomamme, e in questo modo erano
registrati all’anagrafe.
Nel 1983 in
Italia le madri nubili erano circa 75mila. Era l’unico caso in cui la legge
permetteva alle donne di dare al bambino il proprio cognome. Nel
2015-2016 le madri
single erano 859mila, più della metà delle quali divorziate o separate. Il
34,6 per cento erano madri nubili, cioè donne sole che avevano avuto figli
fuori del matrimonio.
Secondo l’Istat
ancora oggi le madri single sono più esposte di quelle in coppia al rischio
povertà, e in generale devono lavorare di più e stare di più fuori di casa per
sostenere economicamente la famiglia, vista anche la disparità salariale tra
uomini e donne nel paese. Il 42 per cento delle madri single è a rischio
povertà o esclusione sociale.
L’uguaglianza tra genitori
Fino al 2016 le
donne non potevano dare il loro cognome ai figli, se non nel caso di madri
nubili, anche per questo nel 2014 l’Italia era stata condannata dalla Corte
europea dei diritti umani (Cedu), che aveva accusato Roma di avere delle leggi
discriminatorie verso le donne.
Grazie a due
sentenze della Corte costituzionale – una del 2016 e una del 2022 – è ormai
possibile dare ai figli il cognome di entrambi i genitori e anche solo quello
della madre, ma solo se c’è un accordo tra la madre e il padre. «Nel cognome
dei figli l’eguaglianza tra i genitori», è scritto nella sentenza della Corte
costituzionale del 2022. La corte è arrivata prima del parlamento. L’Italia
ancora aspetta una legge che regoli la questione del cognome materno e tutte le
contese rimaste in sospeso dopo la sentenza della consulta. Una posta di
legge è in senato
da gennaio del 2024, anche se i testi che in passato hanno provato a
occuparsi della materia sono sempre stati affossati.
Sono nata nel
1980, un anno prima che fosse abolito il delitto d’onore, due anni dopo la
legalizzazione dell’aborto. Porto il cognome di mia madre.
Sono nata una
domenica mattina con il parto cesareo, rompendo le acque e i piani di mia
madre, che aveva previsto di farmi nascere due giorni dopo. E quando nel nido
della clinica hanno dato in braccio a mia nonna quel fagottino paffuto appena
arrivato al mondo, lei è scoppiata a piangere. Ero nata fuori dal matrimonio e
mio padre non solo non voleva sposarsi, ma non voleva nemmeno che nascessi.
Mia madre aveva
trentott’anni, lavorava. Era rimasta incinta e aveva deciso di portare avanti
la gravidanza anche se mio padre non era d’accordo. Quando mia madre glielo
aveva detto, lui le aveva strappato la borsa dalle mani e l’aveva rovesciata.
Aveva paura che lei volesse ucciderlo e che nascondesse da qualche parte
un’arma, perché non era concepibile per lui che una donna da sola decidesse di
fare un figlio, senza il sostegno del compagno.
Quando invece lo
aveva detto ai suoi genitori, mio nonno era andato a prendere il fucile da
caccia che custodiva in garage, risoluto ad andare da mio padre e regolare i
conti dell’onore. Mia madre allora aveva detto che se avesse provato a varcare
la soglia di casa con quell’arma non l’avrebbe mai più vista.
C’erano stati la
rivoluzione sessuale e il femminismo, mia madre era una donna con una
personalità forte, anche se non era stata una femminista. Era autonoma dal
punto di vista economico e aveva una sorella, che l’avrebbe sostenuta in tutto.
Così mio nonno fu costretto a riporre il fucile e a dimenticarsi l’onore.
Quando mi diedero in braccio a mia nonna, ore dopo la mia nascita, lei pianse disperata. Un uomo, uno sconosciuto, le si avvicinò e senza chiedere quale fosse il motivo della disperazione, le disse che la bambina era davvero molto bella, che le assomigliava, aveva il suo taglio degli occhi e la bocca a cuore. Non sapeva che avrei portato anche il suo nome e che le sarei saltata sulle ginocchia tutti i sabati pomeriggio, per farmi raccontare quelle storie che avevano sempre delle protagoniste femminili. Quei racconti avvincenti a cui ogni volta lei toglieva e aggiungeva dei pezzi, spesso cambiando il finale.
Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza maschile contro le donne e nominarla.
(segnalato da Cinzia Mastrodomenico)