di Gianni Santucci
La bambina
concepita con maternità surrogata a Kiev e poi lasciata dai genitori in Ucraina
venne portata in Italia il 10 novembre 2021. L’ambasciata italiana emise un
documento straordinario. Il viaggio fu organizzato da Maria Josè Falcicchia,
all’epoca direttore della II Divisione del Servizio di cooperazione
internazionale di polizia, in collaborazione con la Croce rossa. Nella foto: la
pediatra della Cri con la bambina
Abbandonare un
cane è un gesto inqualificabile. Qui parliamo di una bambina. «L’hanno abbandonata
come un cagnolino». L’espressione è cruda. «Ma questo è», dice una fonte che ha
seguito la vicenda. Per farla nascere hanno viaggiato: nel 2019, fino a Kiev.
Hanno pagato: migliaia di euro a una ragazza ucraina, madre surrogata in una
fecondazione eterologa. In un’aula al piano terra del Tribunale di Novara si
sta svolgendo il processo al padre biologico di quella bambina: registrata solo
all’anagrafe di
Kiev, e poi non
più voluta, lasciata a una tata in Ucraina. È un processo che, da un palazzo di
giustizia della periferia italiana, tocca nodi capitali dell’etica
contemporanea: la gestazione per altri, le differenze di leggi nazionali per la
fecondazione artificiale, le responsabilità dell’essere genitori, i limiti
dell’intervento di uno Stato sulla genitorialità. Tutto questo, nel
dibattimento in corso a Novara, è portato all’estremo.
L’imputazione è
«abbandono di minore». Sarà il giudice a stabilire se il reato sia stato
commesso. Se però si prescinde dalla giustizia, e si ragiona solo secondo umanità,
chiunque avrà la pazienza di arrivare alla fine di questo articolo potrà fare
le proprie valutazioni. «La Lettura» ha scelto di raccontare i fatti in base a
due criteri. Primo, viene omesso il nome dell’imputato, per un estremo scrupolo
di protezione della piccola. Secondo, gli accadimenti verranno ricostruiti
esclusivamente attraverso le deposizioni giurate in aula, davanti al giudice
Serena D’Ettore.
Il primo
testimone che il 10 aprile scorso risponde alle domande del Pm Silvia Baglivo è
il tenente colonnello della Guardia di Finanza Massimiliano Scarafile,
all’epoca ufficiale di collegamento per l’Interpol, in servizio all’ambasciata
italiana di Kiev. Ricorda il giorno in cui le autorità italiane scoprono
l’esistenza della bambina, il 22 luglio 2021.
«Era un tardo
pomeriggio, l’ambasciata era già chiusa. Ho sentito bussare, saranno state le
17. C’era una donna ucraina con una bambina in un passeggino. La piccola avrà
avuto un anno e mezzo, camminava appena. La donna chiedeva di poter parlare con
qualcuno. A fatica, col traduttore automatico del cellulare, ho provato a
capire di cosa avesse bisogno: mi spiegò che aveva in casa questa bambina, che
era lei ad accudirla, praticamente fin dalla nascita. Disse che non era sua
figlia. E che secondo lei doveva essere portata in Italia, perché era figlia di
italiani. Non aveva alcun documento della piccola, solo una fotocopia molto
scura, poco leggibile, di un certificato di nascita ucraino. C’erano i nomi
della bambina e dei genitori. Erano traslitterati in ucraino, ma erano nomi
italiani. Chiesi di darmi un contatto. Mi lasciò il suo numero. E poi un
cellulare italiano, spiegando: “Questo è del padre”».
L’ufficiale non
è sicuro di aver compreso i dettagli di una storia così intricata. Dal giorno
seguente, inizia a fare i primi approfondimenti.
«Tramite un
addetto del consolato abbiamo chiamato l’anagrafe di Kiev. Siamo riusciti ad
avere soltanto un’informazione verbale. Secondo l’ordinamento ucraino, gli atti
che riguardano una fecondazione assistita non possono essere richiesti neanche
attraverso la cooperazione di polizia. Serve un’autorizzazione giudiziaria.
Comunque, a voce, ci diedero una conferma: all’anagrafe di Kiev esisteva
effettivamente una bambina registrata con quel nome. Anche i nomi dei genitori
corrispondevano a quelli sulla fotocopia che mi era stata mostrata dalla
signora».
Per comprendere
cosa possa essere accaduto, bisogna sapere come funzionano questi viaggi verso
i Paesi in cui è concessa la fecondazione con maternità surrogata, vietata in
Italia.
«Quel tipo di
fecondazione è legittima in Ucraina se il patrimonio genetico appartiene ad
almeno uno dei due genitori. Si instaura un rapporto privatistico tra madre
biologica e coppia putativa. Si firma un contratto, davanti a un notaio, col quale
la madre biologica si spoglia di ogni diritto, pretesa o obbligo verso il
bambino che
nascerà. Quando
il bambino nasce, la coppia va all’anagrafe con i documenti della clinica e
procede alla trascrizione del neonato, senza citare la madre biologica. Successivamente,
ai fini del riconoscimento del bambino come cittadino italiano, la coppia si
presenta alle autorità consolari con questo certificato e chiede l’iscrizione
all’anagrafe nazionale».
L’ufficiale
della Finanza, in udienza, si limita a descrivere le procedure. La seconda
parte del racconto svela però come le coppie italiane, prima che scoppiasse la
guerra, aggiravano la legge nazionale sulla maternità surrogata: si
presentavano in consolato dicendo che il figlio era nato in Ucraina e lo
dovevano registrare come cittadino italiano. Definita la pratica, prendevano un
aereo e tornavano a casa. Nessuno poteva obiettare nulla. Il rapporto con la
madre biologica esisteva solo nel contratto privato firmato tra lei e i
genitori.
Dagli esami
successivi sul Dna, è stato accertato il legame genetico tra la bambina e
l’uomo sotto processo a Novara. Lui e sua moglie però, dopo la registrazione
all’anagrafe ucraina, non si sono mai presentati al consolato. Madre e padre
hanno lasciato la bambina a una tata e sono tornati in Italia.
Questa
«omissione» viene accertata il 26 luglio 2021, appena quattro giorni dopo che
la tata ucraina si è presentata in ambasciata. Compiuta la verifica
sull’autenticità del certificato anagrafico, l’ufficiale della Finanza chiama
il numero italiano del padre.
«Fu una
telefonata fatta dall’ambasciata, dunque da territorio nazionale italiano,
verso un’utenza nazionale. Per prima cosa, chiesi se parlavo con la persona
indicata sul certificato. L’uomo confermò. Allora domandai se fosse venuto in
Ucraina e avesse registrato una bambina all’anagrafe di Kiev. Mi confermò anche
questo. A quel punto chiesi il motivo per cui, dopo un anno e mezzo, lui e la
moglie non fossero ancora venuti a prendere la bambina e concludere la
procedura dell’iscrizione con le autorità italiane. Ripetei più volte la
domanda, fino a che l’uomo disse che né lui, né la moglie avevano intenzione di
farlo. Diede questa spiegazione: “Non è mia figlia, credo di essere stato
truffato dalla clinica. Ho affidato tutto al mio avvocato”. Domandai se avesse
il certificato anagrafico; mi rispose di essere in possesso dell’originale».
La telefonata va
avanti. Il tenente colonnello insiste per un po’, probabilmente incredulo di
fronte alle risposte, poi inizia a definire lo scenario.
«Spiegai
all’uomo: “Si rende conto che questo comportamento potrebbe esporla, con sua
moglie, a una responsabilità penale per abbandono di minore?”. Lui rispose di
nuovo con la storia della truffa e dell’avvocato. A quel punto gli dissi: “Noi,
con o senza la vostra collaborazione, dobbiamo fare in modo che la bambina
arrivi in Italia, perché sia tutelata”. La piccola non aveva alcun documento,
così non avrebbe potuto andare a scuola, non poteva fare i vaccini, e così via.
Questo lamentava la baby-sitter. Era venuta in ambasciata perché la piccola
aveva avuto la febbre alta e, senza documenti, non poteva essere assistita,
così aveva dovuto pagare per un medico privato. Spiegai all’uomo che se la tata
avesse smesso di prendersene cura, la bambina sarebbe finita in orfanotrofio.
Gli orfanotrofi a Kiev sono strutture fatiscenti, ci finiscono purtroppo i
bambini che hanno i genitori con problemi psichiatrici gravi, o alcolisti.
Comunque, dopo tutto questo discorso, chiesi per l’ultima volta all’uomo:
“Allora, la bambina la venite a prendere o no?”. La risposta fu: no».
Di fatto, in
quel momento, la bambina è apolide. Senza un documento di identità. Senza una
cittadinanza registrata. Affidata a una donna che non ha alcuna relazione
giuridica con lei. Legata a chi ha voluto che venisse al mondo solo attraverso
la fotocopia sbiadita d’un certificato anagrafico. La tata viene riconvocata in
ambasciata il 30 luglio 2021. Il suo racconto finisce negli atti di polizia poi
trasmessi alla magistratura in Italia.
Continua il
racconto dell’ufficiale: «La signora ci portò una scrittura privata in
originale, in inglese, firmata per esteso da entrambi i genitori italiani, in
cui si concordava un compenso mensile per la cura della bambina. Dai messaggi
col padre italiano, nella chat WhatsApp sul telefono della signora, emergevano
problemi per i pagamenti, che arrivavano in ritardo, o incompleti (oltre a non
volere la bambina, i «genitori» italiani avevano smesso di pagare la tata, o la
pagavano saltuariamente, ndr). In un passaggio l’uomo proponeva di cedere la
bambina. Diceva alla signora: “Adottala tu”. Poi si era ricreduto. La donna
viveva a Kiev con un figlio di 1718 anni, senza marito; era costretta a fare
più di un lavoro per vivere, e dovendo anche curare la bambina non
riusciva più ad
andare avanti. Era molto in ansia. Quando andava a lavorare, lasciava la
piccola al figlio, o a un vicino di casa. Nel condominio un po’ tutti
conoscevano la bambina e aiutavano la donna. La situazione era talmente critica
che organizzammo una colletta estemporanea in ambasciata per dare una mano a
questa signora. Di certo era emotivamente molto legata alla bambina, molto più
degli obblighi contrattuali».
Dall’ambasciata
di Kiev viene mandata in Italia una comunicazione di notizia di reato. Gli
atti, per zona di residenza dei «genitori», arrivano alla Procura di Novara.
D’accordo con il magistrato, si apre la pratica per riportare la bambina in
Italia. L’ambasciata emette un documento d’emergenza straordinario, affinché la
bambina possa passare la frontiera. Ha più di un anno e mezzo, ed è il primo
documento della sua vita. A raccontare questa fase in Tribunale è Maria Josè
Falcicchia, primo dirigente della polizia di Stato, all’epoca a capo della
Seconda Divisione dello Scip, il Servizio di cooperazione internazionale.
«Appena avuta la
notizia, ci fu la necessità di acquisire tutti gli atti per avere piena
conoscenza dei fatti e soprattutto organizzare una strategia per il rientro in
sicurezza della bambina. Bisognava limitare il più possibile qualsiasi ricaduta
psicologica per una bimba così piccola. La signora che la curava non veniva più
retribuita e dunque, dovendo provvedere a sé e al figlio, non era più in
condizioni di garantire alla bambina un corretto sviluppo. Organizzammo il
trasferimento grazie alla collaborazione della Croce rossa, con una pediatra e
un’infermeria che viaggiarono insieme al personale di polizia. La piccola è
arrivata in Italia il 10 novembre 2021, accompagnata poi da Malpensa e affidata
ai servizi sociali di Novara, delegati dalla Procura e dal Tribunale per i
minorenni di Torino. Una cosa si può dire con certezza: chi si è preso cura
della bambina fino a quel momento, lo ha fatto volendole bene».
La testimonianza
della dirigente di polizia si chiude con le domande dell’avvocato difensore
sulle condizioni della piccola. L’ipotesi difensiva potrebbe essere che la
bambina, dato che la tata se ne prendeva cura, non fosse in condizioni di
pericolo o di abbandono. La risposta tocca un punto che sarà probabilmente
decisivo per la sentenza. «La bambina in quel momento non aveva alcuna
relazione giuridica con un adulto». Era una bambina fantasma, per qualsiasi
Paese al mondo.
Per diritto naturale
ogni essere umano, anche il più abietto, può mettere al mondo un figlio.
Nessuna autorità può comprimere questo diritto. Quando invece si candida per
un’adozione, dove prevale la tutela del bambino, l’autorità deve stabilire se
qualcuno possa essere genitore o no. La coppia nel 2016 aveva fatto domanda di
adozione. Seguirono sei colloqui con i servizi sociali, due con la psicologa,
uno col giudice. A raccontare questo antefatto in Tribunale è l’assistente
sociale che seguì la pratica.
«La moglie era più
impulsiva e superficiale nel rispondere alle domande, lui più cauto. Rispetto a
bambini che immaginavano, era emersa un’immagine di persone molto immature.
Pensavano a “un nerino dell’Africa, o un bimbo abbandonato indiano”. Di fronte
a questa immaturità, avevo proposto di sospendere il percorso e fare
un’esperienza a contatto con bambini in una comunità per minori. Non
accettarono. Risposero di ritenere la cosa inutile, e che sarebbe stata anzi
una perdita di tempo, perché avevano un’età già avanzata. Alla fine, chiusi la
mia relazione con un giudizio di non idoneità, che evidentemente è stato poi
condiviso anche dal Tribunale per i minorenni, che ha emesso un provvedimento
di diniego all’adozione internazionale».
Il passaggio ha
un peso notevole sia per lo sviluppo giudiziario, sia per le implicazioni
etiche. Quell’uomo e quella donna non potevano essere genitori (naturali) per
impedimento biologico, e non potevano essere genitori (adottivi) per immaturità
emotiva e psicologica. Il viaggio per la maternità surrogata all’estero ha
permesso di oltrepassare entrambe le barriere: e (far) concepire la bambina
che, appena nata, non hanno più voluto.
La piccola ora vive in Italia con una famiglia adottiva, che si prende cura di lei. Il giudice per le indagini preliminari ha deciso che debba essere processato solo il marito, e non la moglie. La pm, che chiedeva il giudizio per entrambi, ha fatto ricorso. Si attende la decisione. A quel punto si saprà se la donna entrerà in Tribunale solo come testimone, o come imputata.