tratto da “Domani” del 16 aprile 2024
La fiaccola è stata accesa davanti alle
rovine del tempio di Hera a Olimpia. Giungerà a Marsiglia l’8 maggio per
proseguire verso Parigi, emblema del conflitto più trasversale della
nostra epoca, quello tra città a campagna, il centro e i margini, la città
dell’amore diventata la città dell’odio. L’utopia della tregua proposta da
Macron. La debolezza degli atleti. Il rischio che i Giochi siano una
continuazione della guerra con altri mezzi.
In totale distonia con un mondo dilaniato e frammentato, la fiaccola è stata accesa davanti alle rovine del tempio di Hera ad Olimpia, in quel lembo di Peloponneso famoso per una guerra lunga 27 anni e proprio per questo mutato in un simbolo di pace. È la volontà degli umani di scongiurare con l'ottimismo le vicende più nefaste. Non è esistita una tregua per i Giochi se non nel desiderio di narrarla così. Abbiamo adottato la formula e ripetendola all'infinito l'abbiamo resa vera nell'illusione di meritarci una parentesi, un sollievo fornito dalla storia che vinca sull'orribile cronaca. Siamo ancora ad Atene contro Sparta quasi 2500 anni dopo, semplificando, e di parecchio, democrazia contro autoritarismo, in un sostanziale dualismo perenne seppur mutato dalle circostanze dei secoli.
Cento giorni impiegherà la fiaccola per raggiungere il mare, il procelloso mare avrebbero detto gli antichi, essere issata su una nave, sbarcare nella Marsiglia multietnica e proseguire per Parigi, il suo destino finale, il luogo più appropriato dove si consumano tutte le contraddizioni della contemporaneità. Parigi città dell'amore nell'immaginario condiviso e però sporcato dagli eventi recenti quando è diventata terreno dell'odio nelle rivolte delle banlieue, nei sabato sera delle frotte di ragazzi che calano dal contado, ormai non più contado, per vandalizzare le vetrine dei lustrini e delle paillettes in un impeto di rivincita contro quel beau monde a cui anelerebbero e da cui si sentono esclusi.
Parigi emblema, dunque, del conflitto
più trasversale della nostra epoca, quello tra città a campagna, già registrato
nelle guerre balcaniche e, seppur in modo non cruento, nella Brexit,
nell'America che scelse Trump (ora pronta a perseverare diabolicamente
nell'errore?), nell'Italia valligiana del nord che sognò per un breve tratto la
secessione, nella stessa Francia dei gilet gialli contro i privilegi della
capitale: c'è sempre una capitale “ladrona” nei fuochi accesi di chi si sente
svantaggiato, Belgrado, Roma, Madrid secondo i catalani, Vienna per i
carinziani, Bruxelles per i fiamminghi, Londra per gli scozzesi.
E infine Parigi violentata dall'estremismo jihadista di Charlie-Hebdo e del Bataclan, nella notte più buia avviata durante una festa sportiva, i kamikaze dello Stato islamico che si sono fatti esplodere all'esterno dello stadio dove si stava giocando la partita di calcio tra Francia e Germania, due Paesi che si sono a lungo combattuti prima di trovare il modo di convivere da vicini.
Cent'anni dopo il precedente del 1924, la fiaccola si rimette in viaggio verso la Ville Lumière temendo di trovare le ombre invece delle luci della ribalta, l'irrazionale dei conflitti invece della ragione, i borbottii delle pance invece dell'intelligenza dei cervelli. Le preoccupazioni montano, un proclama dell'Isis dalle remote montagne afgane fa crollare la fiducia sotto la tour Eiffel, così come un missile che vola sui cieli di Israele, una carneficina a Gaza, un scambio di artiglieria nella martoriata Ucraina, un massacro in Sudan.
Emmanuel Macron, il presidente
jupiterista, dopo aver profuso tranquillità è costretto a ridimensionare i
progetti di grandeur, lo spettacolo deve andare avanti ma più ridotto, più
sobrio, più consono ai tempi che corrono. La manifestazione d'apertura con le
barche che sfilano sulla Senna, magnifica e inedita sceneggiatura per i Giochi,
se si farà sarà al cospetto non dei due milioni annunciati ma di 300 mila
persone selezionate e controllate dalle polizie del globo intero. Oppure si
opterà per il tradizionale stadio, il piano B per la riduzione dei rischi. Le
Olimpiadi sono un'occasione ghiotta per qualunque malintenzionato voglioso di
sfruttare il palcoscenico planetario, di tramutare la commedia festosa della
meglio gioventù in una tragedia.
I precedenti non mancano, anche recenti.
Fu durante i Giochi di Pechino 2008 che Putin abbandonò le gare cinesi per
l'esplosione del conflitto tra Georgia e Russia, casus belli l'Ossezia del Sud.
E fu mentre si svolgevano le Olimpiadi invernali a Sochi nel 2014 che la stessa
Russia si annesse la Crimea, prodromo della guerra in Ucraina poi esplosa nel
2022 e ancora in atto.
Memore di tutto questo, Emmanuel Macron ci prova ad ottenere un salvacondotto per la festa che dovrebbe suggellare il suo secondo quinquennato. Auspica una «tregua olimpica» per fermare il cannone in Europa, in Africa, in Medioriente, cerca l'appoggio del cinese Xi Jinping che gli renderà visita nelle prossime settimane ma che non ha mai condannato, ad esempio, l'invasione dell'Ucraina. Le parole dell'inquilino dell'Eliseo, purtroppo, suonano come vuota retorica se ci sono solo orecchie riluttanti ad ascoltarlo. Dal Cremlino lo ha immediatamente freddato il solito Dmitry Peskov: «Sia il presidente Vladimir Putin sia l'esercito russo hanno notato che, di regola, il regime di Kiev usa tali idee, tali iniziative, per cercare di riorganizzarsi, per provare a riarmarsi e così via». È un no, e pronunciato da un attore tra i massimi. Né ci si può aspettare di meglio dai leader di gruppi terroristici attivi sui teatri di guerra che hanno nel loro dna proprio il rifiuto delle regole di civile convivenza.
Nelle vesti di patrocinatore di un messaggio di buona volontà universale, Macron subisce anche le accuse di doppiopesismo per la diversa valutazione delle punizioni da infliggere ai belligeranti. Gli atleti russi e bielorussi sì ma a titolo personale e senza le insegne di Stato, per gli israeliani nessuna restrizione nonostante la carneficina in atto a Gaza. Seppur la differenza è evidente, in molti sottolineano la contraddizione di un occidente più indulgente verso lo Stato ebraico.
Nell'incapacità della politica di
trovare le basi minime di un accordo ci si appella ai soggetti protagonisti, ma
in realtà più deboli, proprio gli atleti, affinché siano loro a lanciare
messaggi di distensione, di tolleranza se non proprio di pace, addossandogli una
responsabilità che eccede di gran lunga il ruolo. C'è da scommettere che non
mancheranno esempi virtuosi. Ma, e lo diciamo a priori, sarebbe troppo facile
stando seduti comodamente davanti al televisore, condannare la tennista ucraina
che rifiuta di stringere la mano alla russa, o il lottatore iraniano che decide
di non combattere contro l'israeliano. Una volta abbassato il sipario, non va
dimenticato, devono ritornare in patrie dove sarebbero facilmente bollati come
traditori o passare guai persino peggiori. Abituati ai meccanismi di democrazie
più o meno evolute ci dimentichiamo che esistono luoghi della terra dove non
esiste il diritto al dissenso rispetto alle linee seguite dai propri
governanti.
Il pessimismo della ragione, in tempi tanto turbolenti, induce a pronosticare che, invece di essere una zona franca, le Olimpiadi saranno una continuazione della guerra con altri mezzi, gli sportivi usati come grancassa della propaganda di parte. Questo è il quadro, lieti di essere smentiti. Lieti se Parigi si trasformerà nella città dei prodigi e confermerà la sua (ex) vocazione di città dell'amore.