tratto da “Diotima”, n. 16, 2017/2018
Presento La
teoria non è un ombrello. Dieci anni di AdATeoriaFemminista. 2006-2016, a
cura di Stefania Tarantino, Tristana Dini, Nadia Nappo, Lina Cascella, ed. Orthotes,
Napoli-Salerno 2017. È in rete all’indirizzo www.adateroriafemminista.it. E continua ad esserlo: è stata pubblicata come libro per rendere conto e
fare una valutazione di questi anni di pensiero di movimento. È una
rivista nata per desiderio di Angela Putino e Lucia Matrodomenico. Considero
Angela una delle filosofe più notevoli dell’area femminista italiana. Conosco
meno Lucia Mastrodomenico che è stata donna di pensiero coinvolta nel movimento
politico delle donne. È lei l’ispiratrice del numero dedicato alle sante, il
numero 3 della rivista.
Dopo la morte
prima di Lucia Mastrodomenico e poi di Angela a circa un anno dall’inizio, la
rivista è stata portata avanti da un collettivo dove c’è stata una certa
variazione tra le partecipanti ma comunque in particolare per l’impegno di
Tristana Dini, Stefania Tarantino e Nadia Nappo. Stefania Tarantino
nell’introduzione al volume mette a fuoco la cifra della rivista: la redazione
non ha avuto l’obiettivo di perseguire una continuità tra i numeri quanto
piuttosto di rispondere ad un’urgenza di ciò che si vive.
Leggendo nel suo
insieme la rivista risulta evidente che uno dei fili conduttori è il reale: ciò
che non è né soggettivo né oggettivo, e che pure orienta lo sguardo, crea
discontinuità, ha bisogno del nostro discorso, o meglio di teoria. Ben diverso
dalla realtà già interpretata in fatti ordinati. Due i piani scandagliati in
particolare lungo tutti i numeri della rivista: la vita e la declinazione della
vita nella biopolitica assieme al sofferto legame che possiamo vedere tra le
donne e il neoliberalismo. Il campo di indagine risulta essere per lo più e
giustamente la città di Napoli, come registra Tristana Dini nella sua
introduzione, per certe sue caratteristiche simboliche in rapporto alla
contemporaneità.
Vorrei fermarmi
sul concetto di teoria femminista, che sicuramente non va considerato come
un’etichetta attribuita dall’esterno, ma come la traiettoria che attraversa
tutta la rivista. Il titolo del libro richiama a questo con l’espressione La
teoria non è un ombrello, che riprende il titolo del primo editoriale
dell’ottobre 2006. Il testo dell’editoriale contiene moltissime idee degne di
nota. Una in particolare: la teoria nasce da qualcosa che non va: «La teoria,
per noi, inizia quale rabberciatore di strutture, piccolo marchingegno di
riparazione; non si parte mai da un ampio sistema. (…) In genere si cammina
muovendo da un intoppo, infilando una soluzione provvisoria quando c’è
un’impasse»[1].
Dunque niente di altisonante e sistematico o deleuzianamente evento positivo.
Alla stessa pagina leggiamo: «Teoria e pratica si danno il cambio, ognuna
spinge e modifica l’altra» così il senso è: «Trovare grandi teorie in piccole
pratiche». È vero: basta il racconto dell’inizio di una pratica, del suo
evolversi, del suo diventare altro per guadagnare teorie a catena, se si ha
passione per il pensiero teorico.
Porto questo
esempio. Ho sentito Nadia Nappo e Elena Pagliuca parlare di Santa Fede
Liberata, spazio bene comune al centro di Napoli. Era vero per entrambe che era
stato sperimentando nel giorno per giorno che via via si coglievano desideri,
questioni, saperi piccoli e grandi. La sperimentazione è stata il sale della
loro esperienza comune, nel corso della quale hanno inventato un vero e proprio
spazio politico. Da questo ne venivano a cascata una serie di concetti che si
collegavano gli uni agli altri. Il più importante: essere abitanti di un luogo
viene prima dell’essere cittadine e cittadini. I concetti emergevano in un
processo ad albero[2].
Tutto questo
risulta avere precise analogie con quello che si legge nell’editoriale del
2006: le teorie si collegano ad altre teorie come nella favola della gallina
dalle uova d’oro dove uno si attacca all’altro e si ride. È vero questo ridere
nel piacere del pensiero e il riso viene definito qui come «un piccolo vortice
inconcludente, un punto d’azzardo, l’insuperabilità, casualità di ciò che fa
accadere [la teoria]»[3].
Questa rivista è
sostenuta da un discorso militante, meglio da un femminismo militante. Sappiamo
che la militanza si nutre di conflitti. Ora, nel caso di «AdATeoriafemminista»
troviamo aperte due polemiche radicali che attraversano tutti i numeri. Una è
nei confronti di un femminismo che usa la teoria come un ombrello. In sostanza
snocciolando una serie di pratiche e teorie già guadagnate come qualcosa che dà
sicurezza e che ci esime dal pensare.
Scrivono: «Ci
siamo ritrovate con la dipendenza indiscussa, il bisogno di riconoscimento
reciproco, l’autorità presa come una rassicurazione.(…) Tutto questo fa da
ombrello»[4].
Trovo giusta la critica: non che la dipendenza e l’autorità siano concetti
sbagliati, anzi. Non sono qui messi in discussione come portato di pensiero
politico. Ma è in questione l’utilizzo che ne viene fatto: quando diventano
formule, discorsi rituali per definire un campo di appartenenza, per abitudine,
anche. È allora che diventano un ombrello sotto cui ripararsi per ogni
evenienza. L’equivalente di quel “pensare con balaustra”, di cui scriveva
Hannah Arendt.
Cosa significa
allora pensare senza balaustra? Il pensare da sé? Proprio sulla pratica del
partire da sé, centrale nel movimento politico delle donne anche giovanissime,
si focalizza la polemica militante della rivista: «Il cuore della teoria è il
suo racconto, l’attraversamento di stati singolari di situazioni precise e
irripetibili; questo ha significato il “partire da sé” e ha indicato sempre che
non c’è teoria senza incarnazione»[5].
Fondamentale è
l’introduzione della figura della signora della porta accanto che a questo
punto diventa centrale per mostrare come il fare teoria non sia specifico di
una categoria a parte, di pensatori isolati dalla vita quotidiana. La sua
capacità di fare teoria sta, per esempio, nel legare quel che legge in un
romanzo al conto della giornata e agli esiti delle elezioni. Così facendo
giunge allo stato di cose, che possiamo chiamare reale, attraverso una variazione
personale. «La condizione della teoria, se è legato ad un modo inaspettato di
giungere al reale, (…) passa tuttavia sempre, nel mondo di una donna, per
quell’incognita di sé che raccoglie, facendola variare (…) una serie di dati
che, pur essendo di tutti, in quel modo non si presentano che a lei»[6].
Facendo riferimento alle narrazioni femminili, l’editoriale del 2006 aggiunge
subito dopo: «Il legame tra singolarità e voce anonima, impersonale, lega alla
necessità delle cose: questa è stata l’unica possibilità con cui una verità del
mondo si è presentata». Da qui l’invito a «pensare ciò che ci accade, non
fermarsi a capire solo come funziona»[7].
Mi vorrei
fermare un poco su quest’ultima affermazione, l’invito cioè a pensare non tanto
quel che accade e come la realtà, il sistema, funzioni, quanto piuttosto cogliere
quel che ci accade, come soggettivamente sentiamo che qualcosa ci avviene in
rapporto alla realtà e ai sistemi che la ordinano. Questa strada che coinvolge
effetti esteriori e sentimenti interiori è l’unica via di accesso al reale, se
non vogliamo fermarci semplicemente alla realtà dei fatti.
Trovo questo un
punto di grande importanza filosofica ed esistenziale. Se abbiamo un po’ di
attenzione alla realtà, non è difficile ricostruire le linee portanti di un
sistema storico, di un ordine simbolico che si sta instaurano. Non è difficile
ricostruirne i mattoni fatti di norme non scritte implicite, leggi scritte,
azioni, discorsi ripetuti, nuove parole d’ordine, instaurazione di costumi,
come non è difficile poi smontarlo come meccanismo. Questo è fatto abitualmente
dalla Teoria critica. Ma proprio una rivista che in molti numeri mette al
centro il sistema, o’sistema, è ben attenta a non cadere nei binari
della Teoria critica, ponendo l’accento su quella che costituisce una pratica
che corrisponde di più alle donne, cioè fare attenzione a quel che ci accade
singolarmente nel sistema, guardandolo dall’interno, con i sentimenti che
proviamo, gli spostamenti della nostra vita, perché in questo modo possiamo
offrire quel che comprendiamo a partire dalla via singolare e incarnata della
necessità che stiamo vivendo. È questo il modo per far emergere il reale. In
fin dei conti qui la realtà è costituita dal sistema simbolico storico che ci è
capitato di vivere, mentre il reale è l’emergere di ciò che si trasforma soggettivamente/oggettivamente
assieme al nostro coinvolgimento nella necessità. In effetti i termini
soggettivo e oggettivo non sono più adatti in questo contesto.
La seconda
polemica militante di AdATeoriaFemminista – altrettanto forte – è quella che
riguarda le forme biopolitiche del neocapitalismo viste nella prospettiva delle
donne. Questo perché le donne, dato che sono più strettamente legate alla vita
a causa della loro possibilità di generare, sono al centro di un vero e proprio
campo di battaglia politico e di senso.
Alla fine a me
sembra che proprio questo legame tra biopolitica, capacità di generare,
differenza femminile, abbia costituito il tema che più ha fatto da filo
conduttore dei numeri, leggendo nell’insieme l’andamento della rivista nello
snodarsi degli anni. Non a caso un numero è dedicato alla nascita, al mettere
al mondo come luogo di scontro biopolitico, per quegli aspetti per i quali le
donne sono liminari tra bios e zoè, abitando la zona dell’abietto e per una
loro rischiosa prossimità alla vita. Come anche non a caso un altro numero è
dedicato alla fatica delle donne tra vita quotidiana e lavoro precario sullo
sfondo di una polemica con le nuove forme neoliberali del neocapitalismo.
Essendo
particolarmente attenta alle tracce riguardanti la teoria femminista, le ho
trovate qui e là sparpagliate nei numeri raccolti. Sicuramente ha a che fare
con la pratica teorica la linea di tendenza a interpretare la redazione di
«AdATeoriaFemminista» come un collettivo, Il che implica un’idea di pratica di
pensiero che funziona per contagio, per contaminazione, in cui – senza appropriazione
– tutte sono chiamate a mettere in gioco la capacità di fare teoria. Dove c’è
un comune e una singolarità irriducibile assieme[8].
Ho trovato
un’altra traccia in un testo di Michael Hirsh, invitato a scrivere dal
collettivo, un amico filosofo: «La teoria femminista non è solamente
un’attività di tipo “teorico”. Piuttosto è un’attività profondamente etica e
politica, una forma di vita propria. La sua “verità” vive del fatto che non è
per niente neutra e che inevitabilmente si pone come parte nella lotta per
l’egemonia»[9].
Questo implica le forme quotidiane di esistenza, di vivere. Per questo risulta
più faticosa del normale lavoro di teoria scientifica e filosofica inteso come
lavoro specializzato, in cui non entrano le passioni, i desideri della persona
coinvolta, come invece avviene nella teoria femminista. Ed è perciò che è
diversa dalla cultura universitaria e dalle forme professionalizzanti delle
teorie dei Gender Studies.
Mi fermo sui
punti più importanti di questa riflessione, che non a caso è all’interno del
numero dedicato alla fatica. Il pensiero femminista è faticoso perché non è
separato dal desiderio che nasce con la vita. Non si tratta semplicemente di
vivere bene, ma lasciarsi guidare da un desiderio che implica trasformazione
personale e contestuale. È faticoso inoltre perché non è compresa da chi
valorizza i Gender Studies come lavoro professionalizzato e
specialistico. E, senza riconoscimento da parte di questo settore del pensiero,
risulta scomodo. Inoltre è faticoso perché ha a che fare con il quotidiano e il
quotidiano non è per niente semplice.
Tutto il numero
sulla fatica è molto interessante, proprio a partire dalla critica al
neoliberismo, che pretende la specializzazione dell’esistenza, il che risulta
una immaginazione produttiva tipicamente maschile.
Non a caso
l’editoriale del numero sulla fatica ha al centro la libertà femminile a
partire da questo ragionamento: se la libertà femminile è l’elemento simbolico,
che immesso nel discorso come significante, cambia il nostro sguardo, è anche
vero però che la libertà femminile costa ogni giorno fatica e “non è mai
arrivata per grazia ricevuta” perché «invita ciascuna/o di noi a giocarla
apertamente in tutte le dimensioni dell’esistenza»[10].
Il che potrebbe essere ridetto con il fatto che in ogni nostro gesto e parola
ne va della libertà femminile e che questo richiede una attenzione vigile,
appunto “in tutte le dimensioni dell’esistenza”. Questo perché tale libertà si
dipana a ventaglio senza un progetto da realizzare.
Aggiungono nello
stesso editoriale: «Siamo uscite dal contabile, dalla somma di una più una più
una»[11],
e accanto a ciò si mantiene uno spazio vuoto sempre non contabile, che ha a che
fare con la libertà femminile da rigiocare sempre di nuovo in situazione,
contesto per contesto.
Vorrei terminare
questa presentazione con l’ultimo numero della rivista. L’editoriale e l’intero
numero portano il titolo Il mondo salvato dalle ragazzine. Il
titolo è divertente e riprende scherzosamente il libro di Elsa Morante. So bene
che alcune curatrici del numero sono madri di bambine, ma l’interessante è lo
sguardo filosofico sulla realtà della città guadagnato a partire dall’essere in
relazione con loro. Qui ancora una volta è Napoli, vista con occhi nuovi. In
particolare il saggio di Stefania Tarantino parla del traffico di Napoli e la
tensione della città vissuti da chi è piccola. Mi fermo su alcuni passaggi
teorici sviluppati all’interno del numero.
Innanzitutto lo
sguardo dei bambini è lo sguardo dell’inizio. Riattiva in noi la partecipazione
allo sguardo di apertura al mondo. Viene mostrato nella sua sessuazione.
Inoltre viene
ripresa la riflessione di Simone Weil in La persona e il sacro che
risulta un punto cardine del ragionamento: «Dalla prima infanzia fino alla
tomba qualcosa in fondo al cuore dell’essere umano (…) si aspetta
invincibilmente, che gli venga fatto del bene e non del male»[12].
Questa condizione dell’infanzia sollecita gli adulti a stare in questa postura.
Di rispondere a quest’obbligo nato da uno sguardo di fiducia. L’infanzia
filosoficamente provoca a rispondere ad un appello implicito, a una condizione
dell’anima di totale apertura.
Aggiungerei che
in presenza delle bambine e dei bambini si avverte un profondo scarto, diverso
da quello vissuto con gli adulti con i quali c’è un riconoscimento. Questo ha
una implicazione filosofica. Lo scarto che viviamo nei loro confronti allude ad
un mistero. Un mistero delicato, che non può essere tradito. Non si può
azzerare la distanza che ci separa da loro, portando a trasparenza l’invisibile
che la caratterizza.
Una teoria è una bussola per navigare in mare aperto e la bussola deve essere sicura ed affidabile in quanto, come ben sanno i marinai “per mare non ci sono taverne”.
Si parte da sé, dalle proprie vite incarnate, dalla propria passione per il mondo per leggere e capire, per sperimentare nuove forme di vivere in relazione.”
(NdR)