di Annalisa Ambrosio
(con una nota a margine di Virginia Varriale –NdR)
A un certo punto
del film di Yorgos Lanthimos Povere creature! ci troviamo
insieme alla protagonista, Bella, e all’avvocato Duncan Wedderburn, nella
camera da letto di entrambi: Bella è una giovane donna alla quale un
prestigioso chirurgo ha impiantato il cervello neonato del proprio feto, mentre
Duncan è un donnaiolo che si è innamorato di lei. E ora i due sono fuggiti
insieme e si divertono parecchio, specialmente a letto, dove lui insegna a lei
come si fa a ricevere e a provocare piacere. Bella, che è decisamente bella e
disinibita, è pure stralunata, perché in virtù del trapianto, nonostante il
corpo maturo, sembra essere appena atterrata sul nostro Pianeta, e così fa
morire dal ridere il dottore chiamando ciò che fanno insieme: «furiosi
sobbalzi». Se è vero che ciò che muove la risata è un inciampo, un dislivello, l’irrompere
dell’inaspettato, «furiosi sobbalzi» fa ridere molto perché mostra la realtà
del sesso sotto un altro aspetto, nuovo: è una descrizione esatta, ma
anticonvenzionale. Un sommario colorito che però conserva al suo interno
l’oggettività di una nota etnografica: di fatto Bella si limita a dire ciò che
è, sfilando dalla realtà dell’amplesso poesia e romanticismo, per restituire
l’azione sessuale nella forma di una purezza bizzarra. Per un alieno quelli non
sono altro che «furiosi sobbalzi».
Il tutto fa
ancora più impressione, se si immagina che a dirlo non sia una
bambina, eppure lo è: chi guarda il film sa che il cervello di
Bella è un cervello in età prescolare e che solo a poco a poco sta evolvendo,
in maniera tanto più veloce quanto più la giovane donna inizia a parlare con
persone al di fuori della sua cerchia familiare e a leggere voracemente i libri
che le passa una divertita vecchietta conosciuta in crociera. I bambini fanno
ridere. Per il dottor Wedderburn il giardino delle delizie è doppio, da una
parte l’aspetto e il corpo desiderabile di Bella, dall’altro la sua meraviglia
costitutiva, quella di chi ha ancora tutto da imparare. E per farlo, per darsi
una prima rappresentazione del mondo, il cervello di Bella è libero nel suo
andare, si permette di associare liberamente pensieri e immagini e parole che
gli altri, gli adulti, quelli abituati a sapere “come vanno le cose” non sono
più in grado di vedere. È un cervello, il suo, senza pregiudizi. Che sta
osservando le cose adesso, qui e ora, come se le cose qui e ora stessero
uscendo fuori dal nulla.
Passiamo adesso
a tutt’altra bambina, corpo da bambina e mente da bambina, una bambina vera e
propria. Briony è la tormentata protagonista di Espiazione, il
romanzo di Ian McEwan. Nella lunga e assolata estate che prelude all’azione
centrale del libro, cioè la violenza subita in piena notte dalla cuginetta di
lei, Briony ha a cuore di mettere in scena uno spettacolo teatrale che
coinvolga gli altri minorenni di casa. Ma c’è un momento in cui la cappa stanca
del pomeriggio caldissimo ha la meglio, gli attori della compagnia non hanno
voglia di provare e Briony si rifugia sconsolata nella stanza dei giochi. È lì
che inizia a interrogarsi su come facciano le dita della sua mano a muoversi. E
dai ragionamenti che fa, sembra che non sia la prima volta. Dice così:
«Si portò
l’indice vicino alla faccia e prese a fissarlo, ordinandogli di muoversi. Il
dito restava fermo, perché lei stava solo fingendo, non faceva sul serio, e
perché volerlo muovere, o essere sul punto di muoverlo, non era la stessa cosa
che muoverlo per davvero. E quando alla fine lo piegò, il gesto parve partire
dal dito stesso, non da un punto ignoto della sua mente. Quando sapeva di
doversi muovere? Quand’era che lei lo muoveva? Era impossibile cogliersi di
sorpresa. Esistevano soltanto il prima e il dopo».
Per Briony, che
pure dal punto di vista cerebrale è più grandicella di Bella, non c’è niente di
ovvio, il mistero del mondo sotto tanti aspetti è ancora perfettamente
sigillato: la bambina è testarda soprattutto nell’indagare il principio di
causalità, nel farsi domande. Nel risalire di perché in perché la catena delle
cause e degli effetti, nel non accontentarsi di una parte, nel pretendere il
tutto. Questo genere di testarda curiosità, che non caratterizza soltanto i
cuccioli della specie umana ma anche quelli di qualsiasi altra specie, è alla
base della sopravvivenza: è la fonte preziosa di un accumulo di sapere che dopo
renderà ogni azione più semplice, e più orientata, meno pericolosa.
Due bambine non
esauriscono i bambini del mondo, ma queste due bambine speciali possono
esemplificare bene i due sensi in cui siamo tentati di pensare che tutti i
bambini siano naturalmente filosofi. La prima ragione è la quantità di domande
che si fanno, insieme al dialogo che mettono in atto con gli altri (adulti e
bambini) per rispondere, alla fantasia che orienta le risposte, alla facilità
con cui si arriva alla soluzione. I bambini assomigliano a Socrate, magari non
sanno di non sapere, ma sono felici e autentici nel loro non sapere e non hanno
limiti nell’indagare l’universo, perché non danno niente per scontato, proprio
come il famoso maestro ateniese che torna a porre le domande sul senso ormai
dimenticate dagli uomini.
Il secondo
motivo per cui potremmo pensare che i bambini siano dei filosofi fatti e finiti
riguarda invece il loro piglio scientifico, il fatto aristotelico che i piccoli
non facciano la differenza tra una curiosità e l’altra: non si specializzano,
godono di un incanto totale, che riguarda ogni aspetto del mondo, dalla draga
che occupa il cantiere fino alla propria cacca, dalla panna montata che gonfia
sotto la frusta fino alla morte che accade senza una ragione. Sono disponibili
e ghiotti nell’indagine: sono senza scrupoli.
Ma se fosse vero
che i bambini sono filosofi, bisognerebbe chiedersi in che misura Kant,
Cartesio, Wittgenstein e Derrida sono bambini. E a capovolgere la questione, ci
si accorge che qualcosa non torna: l’equivalenza non funziona. Se immaginiamo
di astrarre e isolare il gesto tenerissimo del bambino che smonta, interroga,
definisce il mondo, vediamo che l’azione inizia in forma di filosofia e finisce
in forma di poesia. Che cosa capita tra l’inizio e la fine? Che cosa sposta
Briony e Bella dalla parte di Parmenide a quella di Saffo?
Ai bambini manca
un linguaggio neutrale. Le parole, per la maggior parte di loro, alludono a
molte immagini insieme, non sono ancora recinti chiusi, non possono essere
pulite e precise, non isolano ma collegano. I bambini, per diventare filosofi,
vanno guidati a restringere il campo, a disciplinare i nessi possibili, ad
articolare gli argomenti, a costruire una cornice per il loro discorso, a
stabilire il passo oltre il quale un ragionamento diventa non solo interessante
o geniale, ma anche assurdo, e quindi inservibile. I bambini non sono dei
filosofi veri e propri, ma possono diventarlo con facilità, perché amano la
condizione di sapere e non si vergognano di quella opposta. Però, al momento, i
bambini, mentre sono bambini, ospitano nella propria terra due regni separati
da un confine estremamente poroso: da una parte la realtà, dall’altra la
fantasia. Vedere tutto come se lo si vedesse per la prima volta li rende spesso
dei buoni poeti e dei pessimi filosofi. Se si desidera mostrare loro che cosa
accade nella caverna di Platone e come ci si sposta dalle ombre agli oggetti
solidi e non opinabili del mondo, come ci si sposta dalla realtà più friabile
alla verità più esatta, è necessario fare filosofia con loro. Quella vera.
Nell’introduzione
a un bel libro di storie filosofiche per bambini che è uscito qualche tempo fa
per Feltrinelli, Perché? Cento storie di filosofi per ragazzi curiosi,
Umberto Galimberti sostiene che oggi trasformare i bambini e i ragazzi in
filosofi sia una missione della massima importanza. E questa metamorfosi si
otterrebbe soprattutto lavorando sui legami tra parole, argomenti e oggetti. Se
l’accesso al vasto sapere è sempre più semplice e deregolato, più spontaneo, la
filosofia serve a lavorare e a riflettere sulle combinazioni plausibili,
smentendo il punto di vista per cui alla fine: “tutto è uguale al contrario di
tutto”. Di fronte alla disponibilità estrema e ludica dei bambini, al loro
“facciamo finta che”, il compito degli adulti filosofi potrebbe essere quello di
dimostrare che è possibile distinguere ciò che funziona da ciò che non
funziona, quel che consegue da quel che non può conseguire, affiancando alla
produttività dell’accumulo, quella del discernimento e della distinzione. La
filosofia può dare ai bambini l’opportunità di scovare dentro di sé un
possibile principio critico di organizzazione del pensiero, cioè in pratica può
dare loro ciò che serve per approdare a una visione del mondo, e per metterla
in relazione con le altre, provando una quota di piacere.
Per compiere
questo lavoro filosofico valgono tutti i linguaggi e tutte le strade, a
condizione che non sottraggano al bambino la sua flessibilità, lo slancio e la
tenerezza che gli è propria.
A differenza di quanto capita con i giovani adulti e con i grandi, per i bambini la strada migliore per apprendere la filosofia non è lo studio della sua storia. Conviene andare dritti alle domande e poi allenarsi a fare ordine. Il teatro è un ottimo modo per riuscirci. Sul palcoscenico è possibile creare l’incanto a tavolino, farlo uguale per tutti, dare voce a domande intime come se fossero collettive, e anche rispondere alle questioni senza paura di sfondare la quarta parete. È proprio il compito dei bambini quello di sfondarla. Forse quello degli adulti è mostrare ai bambini che le verità possono essere tante ma non affondano nell’aria. Ogni verità ha le sue ragioni di terra.
Annalisa Ambrosio
E’ vero che i bambini con profondità e al contempo leggerezza riescono a porre le domande vere, quelle che sostanziano il mondo e lo sanno fare inconsapevolmente, perché mossi solo dalla meraviglia e dal desiderio di sapere. I più grandi sanno selezionare e ridurre all'identico e nel percorso perdono l'incanto, o per meglio dire il poetico.... Gli uni hanno bisogno degli altri, in uno scambio continuo di vedute e parole, le quali sono quelle che ci permettono di dire ciò che accade ma anche quello che non accade, il Mistico (direbbe Wittgenstein), il non senso di cui abbiamo bisogno per costruire i nostri significati del mondo.
Virginia Varriale