Ho riletto con
le orecchie L’isola di Arturo di Elsa Morante. Tutto
suona in queste pagine, in un susseguirsi di esperienze sinestetiche: sin
dal principio emergono odori e suoni, i sibilanti cespugli di
elicriso, la ruvida appiccicosa salsedine, il bianco sciabordio schiumoso sulla
sabbia, il rosa frinire delle cicale nell’alba nascente, le
fruste metalliche delle sartie sbattute al vento, il legnoso
scricchiolare dei cordami. Ci vuole ben poco per farsi incantare e assorbire
dal flauto magico, per calarsi in quel pianeta grande come un bicchiere d’acqua,
per rubare un pensiero al critico Cesare Garboli, un bicchiere d’acqua che
infine è così miracolato da detenere una capienza planetaria.
È un pianeta,
questo, i cui tesori sono gusci fossili e fiocine rotte, fondi di bottiglia e
stelle di mare, bottini che Arturo conserva in cassettoni di legno massello
profondi come uno scafo, odorosi di umido e sale, tra stanze di
quella scricchiolante, polverosa e sudicia dimora che è la Casa
dei Guaglioni, una vecchia imponente villa che ora ha l’odore, l’aspetto e il
soffocato rumore del relitto marino, di un vascello incagliato. Arrampicata su
un clivo, all’ombra del penitenziario di Procida, ha ancora
impresse le impronte di fasti e feste ormai antiche, di brindisi e
schiamazzi, di suoni e di canti, di chitarre e mandolini, di cui oggi rimangono
scritte e disegni, sulle pareti e sui tavoli del grande stanzone centrale: sono
firme, frasi di beffa o di amore o di malinconia, versi, versi ripresi da
quelle canzoni urlate ormai un’epoca fa.
Inaspettatamente,
le mura di quella villa malconcia torneranno a ospitare nuovi canti, seppur
molto meno invadenti e goliardici. Accade all’arrivo di Nunziata, Nunziatella,
la moglie bambina, l’acerba, selvatica, tenera, ingenua matrigna che Wilhelm
Gerace, il padre di Arturo, strappa a un’umile famiglia napoletana e trascina
sull’isola, salvo poi trascurarla per sempre. Nunziata semina in quella casa
senza Dio santini e Vergini, le sue amate Vergini, a cui ogni mattina
tributa baci a schiocco e preghiere, cantilene melodiose e insieme aspre, che
giungono alle orecchie di Arturo alternate, tra parole appena sussurrate e
frasi distinte. Regina. Dolcezza. Speranza nostra. Un Salve Regina piratesco,
salato, infantile.
In un
magnifico saggio di Garboli, pubblicato nel 1968 nella Collana dei libri
del Premio Strega a prefazione di L’Isola di Arturo, il critico
scrive che la musica, i movimenti di Elsa Morante, sono da flauto magico,
eppure la sua scrittura non risulta mai fiabesca, riesce ad essere
insieme esotica e familiare, naturale e iperbolica, sfugge alle
etichette e ai modelli, non si inquadra in nessuna tabella, in nessuna
categorizzazione manualistica perché il suo inchiostro si abbandona alla
promessa e alla scoperta delle parole. Ascoltato, questo libro ha un suono
elastico: il testo prende rotte universali per poi rimbalzare rapidamente in
quel preciso, mediterraneissimo sasso: 40° 46’ Nord 14° 02’ Est.
In L’Isola
di Arturo spicca un’attenzione meticolosa alle voci. Elsa Morante non
manca mai di soffermarsi a descriverle, lo fa con aggettivi precisi, che siano
didascalici o evocativi. La voce di Nunziata è strana, carnale, cantante,
può somigliare a quella di una cagna o di un’asinella in prenda a un dolore, di
un’acutezza lacerante quando grida, favolosa quando è imbarazzata. La
sua, quella di Arturo, immortalata in quei due cruciali anni di pubertà, è
incerta, ridente, spavalda, mai adeguata, come del resto non è mai adeguato
quel corpo da animale sgraziato che l’adolescenza
trasforma. E infine quella di Wilhelm Gerace, despota indolente
dal tono acido, femmineo, disarmonico, la voce, pensa Arturo, forse è l’unica
cosa brutta di quel padre vichingo.
Goffredo Fofi,
amico storico di Elsa Morante, racconta che la scrittrice amava molto la
musica, i canti popolari, le ninne nanne e gli stornelli raccolti da
Alan Lomax nel meridione italiano. Fofi racconta che era a
lei che Pier Paolo Pasolini si affidava per le scelte musicali dei suoi film. E
allora non stupisce questa attenzione nel fotografare le voci, nel descriverle
con dettaglio in ogni loro cambiamento, inclinazione, incertezza. È
forte come quella delle zingare la voce di Nunziata, quando, ormai madre, una
mattina risalendo dal porto con il neonato stretto in braccio, corre giù per la
discesa cantando e ricantando un noto ritornello napoletano. Palummella
zompa e vola. Farfallina vola vola verso la rosa del mio
cuore. Ad Arturo invece non resta che immaginare la voce di sua madre, che
lui si pensa deliziosa nell’atto di pronunciare il suo nome. Nunziata non
canta con abbandono sentimentale, piuttosto con un’asprezza infantile,
spavalda, con certe note acute che richiamano qualche canto animalesco, forse
di cicogna, di uccelli nomadi di deserti. Sono canzoni che la ragazza ha
imparato a Napoli, ascoltate dal radiogrammofono di una vicina. E
anche Arturo al principio del romanzo, con la sua voce che ancora non
è distorta dagli influssi ormonali, intona dei canti, in un vano tentativo di
incantare quel padre così astratto, distante, imprevedibile nelle sue continue
fughe dall’isola. Così certe volte, mentre trotterella dietro al
padre o sono insieme in mare con la loro barca, la mitica
Torpediniera delle Antille, canta e ricanta motivi imparati: Le donne
dell’Havana, Tabarin, La Sierra misteriosa.
Arturo spera che
il padre ammiri la sua voce e il padre, immancabilmente, non dà segno
nemmeno di udirla. Taciturno, sbrigativo, ombroso, gli concede a mala pena
qualche occhiata. Ma la sola vicinanza del padre, in quei giorni che
d’improvviso potrebbero essere interrotti da una nuova inaspettata partenza, è
per il ragazzo un privilegio prezioso. Lui è un’alice, il padre un grande
delfino.
Siamo alle ultime pagine, Arturo parla di sé guardandosi a distanza: mi chiedo se in questi anni non fossi stato troppo innamorato dell’innamoramento, riflette. E allora mi viene in mente una vecchia intervista, sempre a Cesare Garboli, del 1974, Elsa Morante già rifiutava le occasioni pubbliche e c’era lui a sopperire a quell’assenza, secondo Garboli l’ideologia della scrittrice, i suoi ideali anche, erano intrisi di una forte componente anarchica come di una forte componente evangelica, due aspetti che la spingevano a scegliere come protagonisti dei suoi libri protagonisti della vita, che vivono la vita, che non usano la vita, non la violentano: si “limitano” a viverla. Sono persone, Arturo, Useppe in La Storia o Elisa in Menzogna e sortilegio, “comuni”, in quanto appartengono a un destino comune. Una scelta che ci induce a pensare quanto Morante fosse profondamente convinta che non sono i salotti intellettuali i luoghi forieri dei cambiamenti del mondo, bensì i conflitti che lo popolano, le contraddizioni che lo animano. Allo scrittore, all’artista, spetta il compito di osservarli e raccontarli. A tutti noi, il dovere e il piacere di ascoltarli.