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La musica di Elsa Morante

di Marzia Coronati
tratto da Doppio Zero del 2 Marzo 2024

Ho riletto con le orecchie L’isola di Arturo di Elsa Morante. Tutto suona in queste pagine, in un susseguirsi di esperienze sinestetiche: sin dal principio emergono odori e suoni, i sibilanti cespugli di elicriso, la ruvida appiccicosa salsedine, il bianco sciabordio schiumoso sulla sabbia, il rosa frinire delle cicale nell’alba nascente, le fruste metalliche delle sartie sbattute al vento, il legnoso scricchiolare dei cordami. Ci vuole ben poco per farsi incantare e assorbire dal flauto magico, per calarsi in quel pianeta grande come un bicchiere d’acqua, per rubare un pensiero al critico Cesare Garboli, un bicchiere d’acqua che infine è così miracolato da detenere una capienza planetaria.

È un pianeta, questo, i cui tesori sono gusci fossili e fiocine rotte, fondi di bottiglia e stelle di mare, bottini che Arturo conserva in cassettoni di legno massello profondi come uno scafo, odorosi di umido e sale, tra stanze di quella scricchiolante, polverosa e sudicia dimora che è la Casa dei Guaglioni, una vecchia imponente villa che ora ha l’odore, l’aspetto e il soffocato rumore del relitto marino, di un vascello incagliato. Arrampicata su un clivo, all’ombra del penitenziario di Procida, ha ancora impresse le impronte di fasti e feste ormai antiche, di brindisi e schiamazzi, di suoni e di canti, di chitarre e mandolini, di cui oggi rimangono scritte e disegni, sulle pareti e sui tavoli del grande stanzone centrale: sono firme, frasi di beffa o di amore o di malinconia, versi, versi ripresi da quelle canzoni urlate ormai un’epoca fa. 

Inaspettatamente, le mura di quella villa malconcia torneranno a ospitare nuovi canti, seppur molto meno invadenti e goliardici. Accade all’arrivo di Nunziata, Nunziatella, la moglie bambina, l’acerba, selvatica, tenera, ingenua matrigna che Wilhelm Gerace, il padre di Arturo, strappa a un’umile famiglia napoletana e trascina sull’isola, salvo poi trascurarla per sempre. Nunziata semina in quella casa senza Dio santini e Vergini, le sue amate Vergini, a cui ogni mattina tributa baci a schiocco e preghiere, cantilene melodiose e insieme aspre, che giungono alle orecchie di Arturo alternate, tra parole appena sussurrate e frasi distinte. Regina. Dolcezza. Speranza nostra. Un Salve Regina piratesco, salato, infantile.

In un magnifico saggio di  Garboli, pubblicato nel 1968 nella Collana dei libri del Premio Strega a prefazione di L’Isola di Arturo, il critico scrive che la musica, i movimenti di Elsa Morante, sono da flauto magico, eppure la sua scrittura non risulta mai fiabesca, riesce ad essere insieme esotica e familiare, naturale e iperbolica, sfugge alle etichette e ai modelli, non si inquadra in nessuna tabella, in nessuna categorizzazione manualistica perché il suo inchiostro si abbandona alla promessa e alla scoperta delle parole. Ascoltato, questo libro ha un suono elastico: il testo prende rotte universali per poi rimbalzare rapidamente in quel preciso, mediterraneissimo sasso: 40° 46’ Nord 14° 02’ Est.


In L’Isola di Arturo spicca un’attenzione meticolosa alle voci. Elsa Morante non manca mai di soffermarsi a descriverle, lo fa con aggettivi precisi, che siano didascalici o evocativi. La voce di Nunziata è strana, carnale, cantante, può somigliare a quella di una cagna o di un’asinella in prenda a un dolore, di un’acutezza lacerante quando grida, favolosa quando è imbarazzata. La sua, quella di Arturo, immortalata in quei due cruciali anni di pubertà, è incerta, ridente, spavalda, mai adeguata, come del resto non è mai adeguato quel corpo da animale sgraziato che l’adolescenza trasforma. E infine quella di Wilhelm Gerace, despota indolente dal tono acido, femmineo, disarmonico, la voce, pensa Arturo, forse è l’unica cosa brutta di quel padre vichingo.

Goffredo Fofi, amico storico di Elsa Morante, racconta che la scrittrice amava molto la musica, i canti popolari, le ninne nanne e gli stornelli raccolti da Alan Lomax nel meridione italiano. Fofi racconta che era a lei che Pier Paolo Pasolini si affidava per le scelte musicali dei suoi film. E allora non stupisce questa attenzione nel fotografare le voci, nel descriverle con dettaglio in ogni loro cambiamento, inclinazione, incertezza. È forte come quella delle zingare la voce di Nunziata, quando, ormai madre, una mattina risalendo dal porto con il neonato stretto in braccio, corre giù per la discesa cantando e ricantando un noto ritornello napoletano. Palummella zompa e vola. Farfallina vola vola verso la rosa del mio cuore. Ad Arturo invece non resta che immaginare la voce di sua madre, che lui si pensa deliziosa nell’atto di pronunciare il suo nome. Nunziata non canta con abbandono sentimentale, piuttosto con un’asprezza infantile, spavalda, con certe note acute che richiamano qualche canto animalesco, forse di cicogna, di uccelli nomadi di deserti. Sono canzoni che la ragazza ha imparato a Napoli, ascoltate dal radiogrammofono di una vicina. E anche Arturo al principio del romanzo, con la sua voce che ancora non è distorta dagli influssi ormonali, intona dei canti, in un vano tentativo di incantare quel padre così astratto, distante, imprevedibile nelle sue continue fughe dall’isola. Così certe volte, mentre trotterella dietro al padre o sono insieme in mare con la loro barca, la mitica Torpediniera delle Antille, canta e ricanta motivi imparati: Le donne dell’Havana, Tabarin, La Sierra misteriosa.

Arturo spera che il padre ammiri la sua voce e il padre, immancabilmente, non dà segno nemmeno di udirla. Taciturno, sbrigativo, ombroso, gli concede a mala pena qualche occhiata. Ma la sola vicinanza del padre, in quei giorni che d’improvviso potrebbero essere interrotti da una nuova inaspettata partenza, è per il ragazzo un privilegio prezioso. Lui è un’alice, il padre un grande delfino.

Siamo alle ultime pagine, Arturo parla di sé guardandosi a distanza: mi chiedo se in questi anni non fossi stato troppo innamorato dell’innamoramento, riflette. E allora mi viene in mente una vecchia intervista, sempre a Cesare Garboli, del 1974, Elsa Morante già rifiutava le occasioni pubbliche e c’era lui a sopperire a quell’assenza, secondo Garboli l’ideologia della scrittrice, i suoi ideali anche, erano intrisi di una forte componente anarchica come di una forte componente evangelica, due aspetti che la spingevano a scegliere come protagonisti dei suoi libri protagonisti della vita, che vivono la vita, che non usano la vita, non la violentano: si “limitano” a viverla. Sono persone, Arturo, Useppe in La Storia o Elisa in Menzogna e sortilegio, “comuni”, in quanto appartengono a un destino comune. Una scelta che ci induce a pensare quanto Morante fosse profondamente convinta che non sono i salotti intellettuali i luoghi forieri dei cambiamenti del mondo, bensì i conflitti che lo popolano, le contraddizioni che lo animano. Allo scrittore, all’artista, spetta il compito di osservarli e raccontarli. A tutti noi, il dovere e il piacere di ascoltarli.