di Marco Arrigoni – tratto da Il Tascabile del 18.2.2020
Quante volte capita che un amico a una mostra di arte contemporanea chieda: “Ma questa è un’opera?”. Accade anche con opere d’arte che ormai sono parte della storia, come l’insalata di Anselmo tra due pezzi di granito o la Merda d’artista. Ma davvero? Cosa vuol dire? Perché costa così tanto?
Non è sempre semplice spiegare senza sofismi e locuzioni “da sistema” cosa significa quello a cui ci troviamo di fronte, perché ci vuole uno spirito di trasporto genuino e la volontà di sforzarsi per rompere le barriere della prevedibilità razionale o della logica della riconoscibilità. Se questo piccolo passo verso l’opera non viene compiuto, chi la fa o la spiega si chiude a riccio oppure si sente nella posizione di dover giustificare l’azione artistica, l’esistenza di un’opera d’arte, la sua possibilità di nascita.
L’arte è davvero questione di pochi iniziati? Solo gli eletti riescono e possono capire? Io credo che l’arte sia assolutamente democratica nel fruirla e nel riceverne un’esperienza, non è una questione di élite, a meno che per essa si intenda quella cerchia di persone che si approccia al discorso artistico senza troppi dubbi o riguardi. Il primo passo che bisogna fare per incontrare l’arte è recepirla con umiltà, senza pregiudizi e con un filo di entusiasmo; sembra una banalità ma è così.
Credo che un artista che possa favorire un rapporto facilmente simbiotico con l’arte sia il danese-islandese Olafur Eliasson, classe 1967, che da una vita fa dell’arte un’esperienza fisica, sensoriale, erogena prima che emotiva, concettuale, simbolica. Perché Eliasson crede che sia fondamentale arrivare allo spettatore in un modo diretto e palese per pretendere poi lo sforzo intellettuale e cognitivo della scoperta di un messaggio nascosto; e magari poi anche della lettura del catalogo che spesso diventa estensione e completamento dell’opera.
The Weather Project, Olafur
Eliasson, Tate Modern
Una delle sue
opere più famose è The weather project che nel 2003 è stata
presentata nella Turbin Hall della Tate di Londra. Lo spettatore era immerso in
una nebbia eterna creata con acqua e zucchero, illuminata da un enorme sole
arancione che irradiava tutto lo spazio e colorava ogni piccola goccia
dell’atmosfera umida. Il soffitto era un grande specchio in cui il visitatore
si vedeva riflesso come piccola sagoma scura, al di là di quel fluttuare aereo.
Forse vi si è ispirato Lars von Trier per Melancholia, restituendo
quell’apocalisse calda, tragica ma morbida di bellezza. Negli anni Eliasson ha
sviluppato vari progetti modificando le condizioni atmosferiche e luminose di
spazi chiusi, con lo scopo di produrre nello spettatore un disorientamento che
lo facesse riflettere su varie possibilità di percezione, sulla modificazione
sensoriale in base all’ambiente che ti ospita. Le sue opere cercano le
potenzialità delle materie esistenti, dei materiali di cui siamo circondati,
senza ricorrere a prodotti artificiali o manipolazioni.
Così è per
l’uranina, un composto organico non tossico ed ecologico che a contatto con
l’acqua la colora di verde, dipingendo lo spazio con ciò che esso stesso crea:
basta il contatto (Green River). Ma ha creato anche grandi cascate a New
York, costruendo sistemi di pompe dell’acqua per deviarne il corso abituale e
porre attenzione su qualcosa che l’abitudine fa scomparire (The New York
City Waterfalls). A Copenaghen, Parigi e Londra Eliasson ha esposto in
spazi pubblici venti grandi blocchi di ghiaccio provenienti dalla Groenlandia,
disposti a formare un orologio (Ice Watch). Il pubblico viveva
quotidianamente lo scioglimento dei ghiacciai e in tanti si relazionavano a questi
enti inerti sottoposti al cambiamento climatico con compassione,
abbracciandoli, baciandoli, poggiandoci l’orecchio per sentirne la storia
antica.
Eliasson non
considera l’opera d’arte come un ente passivo, ma come un ospite che si prepara
e muove in vista dell’arrivo del pubblico, cercando di anticipare e forse
soddisfare le loro aspettative ma anche i loro bisogni: hanno fame? sete? sono
stanchi o nervosi? L’opera prende forma e si adatta a un ambiente, non pretende
di nascere in un luogo e poi essere piazzata in un altro senza averlo prima
visitato ed esperito. Quindi l’opera comunica con chi la ospita e insieme con
chi lei stessa va ad ospitare, e nel tempo si ingrandisce come se su di essa
ogni sguardo depositasse un piccolo strato di vita: l’opera d’arte è per
Eliasson l’occasione generosa per gli incontri di traiettorie.
Il critico che
scriverà della mostra, il curatore che la introdurrà, l’artista stesso che la
illustrerà ma anche lo spettatore multiplo che la sventrerà con le sue mille
visioni personali non sveleranno l’arcano con le parole, né paleseranno il
Significato, ma intensificheranno un’esperienza, la indirizzeranno. Come un
cuore l’opera comincia a battere e pulsare sangue e vivendo si scopre in nuove
forme, sbaglia direzione per raggiustarsi, comunica e sparge messaggi.
Questo significa
allora prendere l’idea iniziale e incarnarla nelle persone, scoprendo come essa
si spalmi sul mondo attraverso l’uomo e come venga plasmata da questo processo.
A volte ne viene abbacinata, non si riconosce più, a volte fa un salto di
coscienza e come una cometa si lancia verso un’altra meta lasciando una scia di
luce. Oppure l’opera d’arte è come un edificio che nasce per essere vissuto e
internamente modificato dalle tante vite che vi prendono parte e insieme lo
consumano e modificano ai passi col tempo, mantenendo quindi in vita quello
scarno insieme di mattoni: l’arte è per Eliasson una relazione e come ogni
conoscenza deve avvenire con spontaneità, senza infierire con la domanda
dubbiosa sulla fregatura. Andare spesso per musei permette di avere almeno una
folgorazione, come su Tinder quando tra mille match almeno uno porta un
batticuore nella realtà.
Eliasson dice che l’opera d’arte produce realtà.
Ice Watch, Olafur EliassonPer titillare la percezione dell’osservatore, Eliasson lavora con l’“immateriale”, ovvero con qualcosa che non si mostra con un corpo definito e un colore dominante ai nostri occhi, ma lancia il sasso e poi ritira la mano, suona il campanello ma non si fa vedere. L’artista utilizza giochi di luce, riflessi, lenti che deformano la realtà, vapori, suoni di sottofondo, crepuscoli artificiali, ghiacci antartici che si sciolgono, cascate d’acqua, cambiamenti cromatici delle acque fluviali, arcobaleni. Senza forme fisiche salienti e stabili, Eliasson vuole fare dell’esperienza dell’arte un lavorio mentale e intellettuale sulla percezione, per rendersi conto di provare qualcosa di fronte ad un’opera che è esperienza, vita vissuta, un’esistenza che, pulsa, avvolge, stravolge.
Solo dopo scopriamo i risvolti ecologici, climatici, l’impegno dell’artista in progetti e attività a favore dei più poveri e molto altro.
L’arte per Eliasson è uno spazio che accoglie e si muove con te, si modifica al tuo respiro, segue lo sguardo e cerca di capire se valga la pena ingrandirsi ancora di più o restringersi, rimanere immobile.
A Zurigo fino al 22 marzo c’è una mostra di Olafur Eliasson alla Kunsthaus, dove provare a vivere l’arte in modo avvolgente, sentire il miele che plasma le papille, vedere se siete colti e se questa infusione vi porta poi la curiosità di individuare la ricerca che c’è dietro ogni progetto e che in mostra prende la forma di una mappa fatta da articoli, estratti di libri, immagini, foto di altre opere d’arte che sono le centinaia di riferimenti e ispirazioni e basi di un lavoro simile. Il grosso fardello informativo si trova solo alla fine della mostra, prima aspettano bolle di luce, temporali di vapore, specchi in cui scomparire, macchine di sogni.
Mentre siete lì immersi vi chiedete ancora cos’è l’arte? A cosa serve? Sapreste cosa rispondere?
Io sì.