Lo smartphone è stato progettato per rubarci l'attenzione, e il tempo: esiste un modo per disintossicarsi?
tratto da “Il Tascabile” del 7 febbraio 2024
Ha studiato filosofia, collaborato con Pagina 99 e vive a Torino.
“You don’t get cured”. In una battuta di The West Wing, scritta da Aaron Sorkin, c’è una
lezione sulle dipendenze. Leo è il capo gabinetto del Presidente degli Stati
Uniti, il personaggio che risolve problemi: affronta crisi di stato con
incrollabile senso di giustizia, prima di fare colazione segnala al New
York Times un errore nelle parole crociate e – in segreto – partecipa
alle riunioni degli alcolisti anonimi. La cura non c’è. Le persone dipendenti
sono in trattativa perenne con l’oggetto della loro dipendenza. Non si
guarisce. Ci sono periodi di astinenza più o meno lunghi. È la situazione in
cui ci troviamo con il nostro smartphone.
Scrive Juan
Carlos De Martin nel libro-manifesto Contro lo smartphone (add,
2023): “lo smartphone è una macchina che è stata esplicitamente progettata,
anche con l’apporto di neuroscienziati e di psicologi, per creare dipendenza”.
Nel 2014 l’iPhone era più redditizio delle sigarette Marlboro, un prodotto incessantemente pubblicizzato
che contiene una sostanza in grado di dare assuefazione fisica. Le applicazioni
dello smartphone sono costruite per non essere abbandonate e, a differenza
delle sostanze, si adattano alle modalità d’uso creando un percorso di
rafforzamento basato sulle abitudini individuali, osserva lo psicologo Matthias
Brand su Science, in un articolo sulla dipendenza da internet. Siamo dipendenti dal telefono e non c’è
cura, solo periodi più o meno lunghi di astinenza.
Torno nelle aule
in cui seguivo le lezioni all’università con più curiosità che nostalgia: sto
andando al Laboratorio di disconnessione digitale, primo piano, aula 22,
Palazzo Nuovo, Torino. È la terza sessione del seminario, si discutono le
regole dell’esperimento di auto-etnografia condotto da Simone Natale,
professore di storia e teoria dei media oltre che autore di Macchine ingannevoli (Einaudi, 2022).
Una settimana di disconnessione da cosa? Instagram e TikTok, innanzitutto. Gli
studenti hanno l’età di mio figlio e riconosco la dieta priva di Facebook, le
mail considerate spam, la navigazione web utile per le ricette della cena. Dopo
il giro sull’uso del telefono mi sembra manchi qualcosa e chiedo: e i giochi,
le notizie? Sto pensando alle mie dipendenze, alle abitudini
che vincono l’autocontrollo. Penso a quando avevo tentato di cambiare
comportamenti. Natale me lo aveva spiegato presentandomi il Laboratorio: lo
scopo è fare guardare agli iscritti la tecnologia che usano ogni giorno con un
occhio diverso, più consapevole. A questo serve la distanza.
La cura non c’è:
le persone dipendenti sono in trattativa perenne con l’oggetto della loro dipendenza.
Qualche anno fa
avevo disinstallato Facebook dal telefono, tolto quasi tutte le notifiche. In
poco tempo mi ero reso conto che il tempo guadagnato finiva nelle notizie
selezionate da Google e Apple. Ho disinstallato anche quelle e provato a
dedicare ogni micro-momento sul telefono a un’applicazione che sceglievo
attivamente, non seguendo il principio del “mi fa sentire meglio” o “devo
farlo”. I micro-momenti sono un’unità di misura del marketing: porzione di
tempo sospesa, pausa tra un’attività e l’altra, dove si insinua l’uso
compulsivo del telefono. I principi del “mi fa stare meglio”, “devo farlo”,
sono quelli che guidano i comportamenti di dipendenza da internet, secondo
Matthias Brand.
Per un periodo
c’ero riuscito, avevo scoperto che si possono leggere libri da seicento pagine
sullo smartphone, in molti micro-momenti. Ma non c’è una cura: i giochi, gli
aggiornamenti degli amici, le notizie. “Le notizie stanno su Instagram”, mi
risponde una studentessa. L’esperimento di disconnessione dura una settimana.
Bisogna tenere un diario da compilare in due momenti della giornata. Per motivi
personali non riesco a completare il Laboratorio, e penso a quanto sarebbe
difficile per me seguire la disconnessione, un esperimento che andrebbe fatto
in condizioni abituali. Però mi accorgo che basta disattivare le notifiche di
WhatsApp per far scendere il tempo di utilizzo dello smartphone.
Dai racconti
degli studenti Instagram è il posto della rappresentazione pubblica di sé,
TikTok una televisione privata, WhatsApp l’indispensabile contatto con il resto
del mondo. È il social che mancherebbe di più alla Generazione Z, se i social
scomparissero. Mark Zuckerberg ha comprato WhatsApp dieci anni fa, per circa 19
miliardi di dollari, lasciando così com’era qualcosa che funzionava bene. Quel
tempo è finito: “ora che tutti hanno un telefono e lo usano per creare
contenuti e si scambiano messaggi tutto il giorno”, ha dichiarato Zuckerberg, “penso si possa avere qualcosa di
meglio, di più intimo di un feed con tutti i tuoi amici”.
L’intimità è
cambiata da quando ci sono gli smartphone, è la cosa che è cambiata di più.
L’intimità è
cambiata da quando ci sono gli smartphone, è la cosa che è cambiata di più. “Lo
porto con me al bagno, guardo una serie mentre mi lavo i denti o se ceno a casa
da sola”, dice una studentessa. “Lo prendo per rilassarmi, dopo un’ora lo poso
e sono esausta”. I principi “mi fa stare meglio” e “non posso non farlo” si
intrecciano nei resoconti delle partecipanti al Laboratorio; il senso di
perdere un’infinità di tempo, avendone in cambio frustrazione e stanchezza
incrocia la consapevolezza del fatto che non se ne può fare a meno. Non c’è una
cura. Quando parla di intimità è probabile che Zuckerberg si riferisca alla
possibilità di monetizzare ancora di più i micro-momenti: la nostra intimità è
più redditizia del Metaverso.
Nessuno pensa di
fare a meno del telefono. La mia banca ha cambiato mansioni agli impiegati e ha
smesso di sviluppare i servizi via browser, le operazioni si fanno sull’app
dello smartphone. Lo stesso vale per le biglietterie di treni e concerti, le
prenotazioni di aerei, ristoranti, alberghi e ospedali. Nessuno pensa di fare a
meno del telefono per giocare, socializzare, lavorare, stare in società. È però
in corso una negoziazione continua su cosa postare, l’età in cui consentirlo, le
pause, le astinenze. De Martin affronta con approccio analitico la consistenza
dell’oggetto che ha monopolizzato gli ultimi quindici anni della vita degli
umani, per porsi domande di etica della tecnologia: è giusto dipendere così
tanto da un unico oggetto? Deve per forza essere fatto così, com’è oggi? Con
due aziende che controllano i sistemi operativi e i negozi delle applicazioni,
le condizioni delle fabbriche della Foxconn in Cina, gli effetti ambientali
dell’estrazione di terre rare e dello smaltimento delle batterie, le
conseguenze sulla psicologia delle persone. L’estenuante trattativa per fare
quello che vogliamo fare col telefono e non quello che il telefono vorrebbe
facessimo con lui, applicazione dopo applicazione, micro-momento dopo micro-momento.
Da un punto di
vista storico lo smartphone è sempre stato un oggetto di sintesi, a cominciare
da quella proposta da Steve Jobs nel gennaio del 2007, lancio del primo iPhone:
mette insieme la musica, la connessione a internet e il telefono. Tutto in uno:
intrattenimento, affari personali e lavoro. Anni prima, nel 1992, Frank Canova,
progettista dell’IBM, senza saperlo stava lavorando a uno smartphone. Doveva
inserire una radio nel telefono e aveva pensato di installare un computer in un
prototipo chiamato Simon. Il suo team, per convincere gli investitori, esibiva
il contenuto di una valigia piena degli oggetti che facevano le cose che anche
Simon poteva fare. Nella valigia c’erano una calcolatrice, una radio GPS, un
libro, una mappa. Simon è stato sul mercato un solo anno, dal 1994 al 1995, poi
è diventato un oggetto da museo della tecnologia, scrive Brian Merchant nel suo libro sull’iPhone, dove racconta come
Jobs ha assemblato tecnologie esistenti in un pacchetto rivoluzionario, creando
il prodotto che ha portato la Apple dalla quasi bancarotta degli anni ‘90 a 90
miliardi di fatturato.
Nessuno pensa di
fare a meno del telefono, ma è in corso una negoziazione continua su cosa
postare, l’età in cui consentirlo, le pause, le astinenze.
Secondo Kate
Eichhorn, autrice di Content (Einaudi, 2023), i contenuti
gratuiti hanno contribuito in maniera essenziale alla diffusione degli
smartphone, producendo bisogni che prima non sapevamo di avere. Quei bisogni
sono ora consolidati e portano a un tale assorbimento nel telefono da far
sfumare i contorni della realtà. Il concetto di “collasso del contesto” nasce negli anni
2000: Michael Wesch ne parla a proposito dei video caricati su
YouTube e danah boynd (minuscolo per scelta dall’autrice) per i
contenuti degli adolescenti sui social network. Collisione del contesto e collasso del
tempo diventano strumenti per analizzare gli effetti
dei social media sulle persone: il tratto comune delle varie formulazioni dei
“contesti collassati” è la scomparsa di un pubblico, di un tempo e di un luogo
di riferimento per la fruizione di un contenuto, che una volta su internet può
arrivare a chiunque, essere frainteso, venire dimenticato o godere di
un’improbabile popolarità. Mentre usiamo lo smartphone il contesto intorno
scompare, il mondo collassa dentro il telefono.
Nel frattempo lo
smartphone assume la funzione di accesso a tutto, tanto che ci possiamo
chiedere se il telefono connesso non sia un’estensione delle persone.
Estensione sensoriale, visiva, uditiva e tattile, attraverso la quale percepire
la realtà. Si pensi all’impulso di registrare o fotografare momenti
significativi: è come se il supporto dello smartphone rafforzasse la sicurezza
di aver vissuto l’esperienza. Può darsi che nessuno guardi quel video, in ogni
caso l’abbiamo registrato. Lo smartphone può essere considerato come
un’estensione della mente: gli oggetti con cui effettuiamo operazioni mentali
sono parte della mente per i filosofi Andy Clark e
David Chalmers, e non in senso metaforico: il foglio di carta con la
lista della spesa scritta a matita e la rubrica del telefono con decine di
numeri che non dobbiamo più ricordare sono estensioni della memoria. Google
Maps, in quest’ottica, è un’estensione della capacità di orientarsi.
Secondo il
filosofo Alva Noë, che in Perché non siamo il nostro cervello (Raffaello Cortina, 2010) fa un passo in più, il pensiero non è prodotto
dal cervello, ma dall’interazione dinamica del corpo, nel suo insieme, con
l’ambiente. Umani e animali creano significati dal coinvolgimento nel mondo che
li circonda. Questa teoria, che implica il rifiuto dell’idea che il cervello
sia un elaboratore di informazioni, spinge a fare attenzione a come
trascorriamo il nostro tempo, perché è così che si forma la coscienza. Se
mettiamo insieme l’idea di mente estesa e di coscienza relazionale – per quanto
possa suonare banale – possiamo dire che lo smartphone ci rende più
intelligenti, non più stupidi, a patto di sapere quando smettere.
Mentre usiamo lo
smartphone il contesto intorno scompare, il mondo collassa dentro il telefono.
Steve Jobs ha
detto, quel 9 gennaio 2007: “metteremo nelle vostre mani qualcosa di
meraviglioso”. Marshall McLuhan aveva già scritto nel 1962: “e nel rimirare questa nuova cosa,
l’uomo è costretto a trasformarsi in essa”. Dobbiamo fare
attenzione a come ci trasformiamo, per esempio resistendo ai tentativi di
monetizzazione della nostra intimità. Nessuno pensa di fare a meno dello
smartphone, ma è lecito chiedersi, come fa De Martin, a che condizioni
accettiamo lo smartphone come oggetto indispensabile per la vita in società. A
partire dal fatto che non dovrebbe essere costruito per “creare più dipendenza
possibile”.
“Identificare i
meccanismi psicologici e neurobiologici specifici delle dipendenze online è la
sfida degli studi futuri”, scrive Brand nell’articolo sulla dipendenza da
internet, sempre ammesso che questi meccanismi esistano. Simar Bajaj si chiede se insistere sul concetto di dipendenza per
smartphone e internet non finisca per patologizzare condizioni spiacevoli ma
normali della condizione umana, come la solitudine e l’emarginazione. Anche
questa prospettiva di cautela diagnostica approda all’idea che la cura, più che
in farmaci e ricoveri, sia in telefoni che non somiglino a delle slot-machine.
Nel frattempo, sotto le pressioni del Senato americano, Mark Zuckerberg si è scusato pubblicamente per le sofferenze causate ai minorenni dall’uso
patologico di Instagram e Facebook.
Ero curioso di
ascoltare i diari della settimana di disconnessione, purtroppo non ho potuto
essere presente. Ripensando all’aula 22 di Palazzo Nuovo realizzo che la mia
generazione è stata l’ultima ad avere attraversato l’adolescenza senza i
computer che telefonano. Gli anni ‘90 sono il prima e il dopo della tecnologia
di massa portatile. Mi torna alla mente l’estate del 1995, quando l’IBM ritirò
Simon dal mercato, due anni prima che la Ericsson usasse per la prima volta la
parola “smartphone”. Mi ero accodato a una vacanza con compagni di scuola più
grandi. Ricevevo lettere di carta. Andavo nella discoteca degli studenti
europei fingendomi iscritto all’università. Avevo sedici anni. Soprattutto
ricordo una notte in cui cantavo “September’s coming soon | I’m pining for the
moon”, durante un bagno notturno.
Ho molti ricordi di quell’estate. In parte sono inventati, perché mi vedo dall’esterno, una visuale possibile dalla rielaborazione della mia mente, nessuno mi stava riprendendo. Dell’estate del 1995 ho molti ricordi e nessuna fotografia. La canzone che cantavo è dei R.E.M. e i R.E.M si sono sciolti: potrebbero fare come gli U2 e suonare concerti-nostalgia nella Sfera di Los Angeles, per un mese di seguito; suonare sotto un cielo di schermi, davanti ai telefoni del pubblico. Invece hanno smesso.