Nel 1995 la
filosofa italoaustraliana Rosi Braidotti diventa ordinaria di women’s studies
all’università di Utrecht, nei Paesi Bassi, e direttrice della scuola olandese
di ricerca in women’s studies, incarico che ha ricoperto fino al 2005.
All’epoca Braidotti ha trent’anni e ha appena scritto uno dei suoi libri più
famosi, Soggetti
nomadi (Castelvecchi 2023). Anche se è nata e cresciuta
in Italia, ha studiato in Australia e in Francia.
A metà degli
anni novanta in Italia i corsi di teorie femministe o di studi di genere non
sono molto diffusi, nonostante la presenza significativa di teoriche del
femminismo nelle facoltà di filosofia. Due tra tutte: Adriana Cavarero e Luisa
Muraro. Ma a distanza di quasi trent’anni, nonostante la sensibilità e la
cultura siano molto cambiati, rimane il ritardo delle università italiane
nell’integrare più di un secolo di produzione teorica su questi temi nei
percorsi accademici, che si aggiunge alla strutturale disuguaglianza di genere
nelle università.
Come
mostrano i dati
raccolti dalla Società italiana delle donne in filosofia (Swip), la presenza delle donne nelle facoltà di filosofia è simile a
quella nelle facoltà di scienza, tecnologia, ingegneria e matematica (Stem): le
donne sono sottorappresentate, soprattutto nelle posizioni più alte e
prestigiose, e negli incarichi di docenza stabili e a lungo termine.
“La percentuale delle donne nelle facoltà di filosofia è bassa, simile a quella delle facoltà Stem. E questo vale anche per paesi come il Regno Unito e gli Stati Uniti. Mentre la percentuale di donne in altri campi scientifici, come la biologia, le scienze sociali e psicologiche e altre discipline umanistiche è molto più alta”, è scritto nell’ultimo rapporto della Swip.
“A dicembre del
2022 c’erano ancora molti più uomini (861) che donne (393) impiegate a tempo
indeterminato come docenti nelle facoltà di filosofia delle università
italiane, ma invece non si registrava alcuna differenza significativa tra donne
(187) e uomini (226) impiegati come precari nelle stesse università”, dice
ancora il rapporto.
“Inoltre c’è una
differenza significativa tra le donne e gli uomini quando parliamo di
professori ordinari nelle facoltà di filosofia: sono 113 le donne, a fronte di
312 uomini. Proporzione simile per i professori associati: sono 184 le donne,
mentre gli uomini sono 404”. Disuguaglianze che si riducono quando parliamo di
ricercatori a tempo determinato e indeterminato: nella prima categoria le donne
sono 62 e gli uomini 107, mentre nella seconda le donne sono 34 e gli uomini
38.
Ma anche la
presenza di corsi di teorie femministe e di studi di genere è ancora
problematica. Come dice a Internazionale Massimo Prearo, ricercatore in studi
di genere all’università di Verona e curatore insieme ad altri del primo
rapporto pilota della rete Gifts
sugli studi di genere e femministi nelle
università italiane, “ormai molti docenti si sono formati all’estero, si sono
interessati a questi temi, hanno fatto tanti progetti di ricerca da una
prospettiva di genere”.
Ma studiare
queste questioni può essere un fattore di svantaggio per la carriera accademica
dei ricercatori e dei docenti. “Abbiamo mappato circa mille persone che si occupano
di queste discipline nelle università italiane. Non sono poche, ma il problema
è che non sono riconosciute”. Secondo Prearo questo è dovuto a problemi
normativi e strutturali, oltre che culturali.
“In Italia per
questioni proprio di normativa non è possibile creare corsi di laurea che non
rientrino nei settori e nelle classi di laurea imposte dal ministero
dell’istruzione. Questa è la ragione principale per cui l’innovazione a livello
dei corsi di laurea triennali o magistrali è molto limitata, abbiamo delle
norme da rispettare che sono legate alle classi di laurea e in più abbiamo dei
settori scientifico-disciplinari molto rigidi”.
Nelle università
ci sono 370 settori scientifico disciplinari, raggruppati in quattordici aree,
e gli studi di genere (intesi in senso molto ampio: studi di genere, studi
femministi o sulla sessualità) non costituiscono un’area scientifico
disciplinare, e neanche un settore.
Nonostante
questi limiti, secondo il rapporto di Gifts pubblicato nel 2022, sono 63 le
realtà nelle università italiane che a diverso titolo si occupano di studi
femministi, di genere, intersex, transfemministi e studi sulla sessualità. I
corsi, master e dottorati in queste discipline sono solo nove in tutto il
paese, ma sono più presenti nelle facoltà di sociologia, scienze politiche e
scienze della comunicazione che nelle facoltà di filosofia vere e proprie.
“Il concetto di
genere è stato elaborato nella tradizione di pensiero nordamericana, nasce
all’interno delle scienze sociali e non nelle facoltà di filosofia vere e
proprie”, spiega Prearo. “In Italia la teoria femminista è stata dominata
dal pensiero
della differenza, che è resistente al concetto di genere, e questo è
un altro fattore che spiega la rarità di questo tipo di studi nel paese”,
continua Prearo, secondo cui l’Italia è in ritardo di una ventina d’anni
rispetto ad altri paesi europei come la Francia.
I ricercatori e
le ricercatrici che si occupano di queste questioni sono marginalizzati e
spesso devono occuparsene dopo avere portato a termine altri studi considerati
più importanti, imposti dai settori scientifico-disciplinari imposti dal
ministero, proprio per rimanere dentro al sistema. Ma non è andata meglio alle
filosofe e alle teoriche del femminismo italiano, che spesso sono state
riconosciute a fatica e con ritardo, a volte solo quando le loro opere sono
state tradotte all’estero e in altre lingue.
“Occuparti di questo tipo di cose in alcuni casi ti penalizza e in altri ti ritarda, perché per esempio quello che fai non è riconosciuto. Non ci sono proprio gli spazi. Solo negli ultimi anni si sta un po’ diffondendo la presenza di questo tipo di studi. Ma rimaniamo una minoranza, un po’ confinata rispetto al resto delle discipline di appartenenza. E i nostri colleghi, che non si occupano di queste questioni, si permettono di ignorarle. Non hanno alcuna conoscenza di base rispetto a un campo del sapere che in realtà, nel resto del mondo, è diventato ormai estremamente avanzato”, continua Prearo. E succede che gli studenti siano molto avanti su questi temi e richiedono sempre più spesso di fare degli approfondimenti o di scrivere le loro tesi di laurea proprio in questi ambiti.
Lo spazio delle donne
Secondo Daniela
Brogi, docente di letteratura italiana contemporanea all’università per
stranieri di Siena e autrice del libro Lo spazio
delle donne (Einaudi 2022) “il patriarcato non è solo un
istituto giuridico. Ma è una mentalità, riguarda il simbolico. E si manifesta
anche attraverso i programmi scolastici, i libri di testo e i testi considerati
essenziali”. Per questo anche se i testi scritti da donne sono più presenti che
in passato nei corsi di studio e anche se ci sono più donne anche nelle
università, sono ancora molti i ritardi e le discriminazioni.
Per Brogi,
tuttavia, non si tratta solo di inserire nel canone della letteratura e della
filosofia più libri scritti da autrici e pensatrici, ma di cambiare
atteggiamento in generale rispetto alla storia del pensiero e della
letteratura. “L’assenza delle donne e delle autrici è un elefante nella stanza
di cui non si discute”, spiega Brogi.
“Le vicende, le
opere e le esistenze di metà dell’umanità sono state lasciate ai margini della
storia, formando una zona fuori campo che, d’altra parte, come accade al
cinema, va messa in dialogo e in tensione critica e creativa con il centro
dell’inquadratura. Non si tratterà quindi di infilare polemicamente delle
tessere assenti, né di rappezzare i buchi, o di aggiungere i nomi tanto per
fare numero. Ma di cambiare linguaggio e prospettiva, di formare un nuovo
mosaico”, dice Brogi.
“Intendo dire
che a questo punto dovremmo tutti avere uno sguardo femminista. Significa
considerare una cultura che ha una storia di 150 anni e che secondo lo storico
Eric Hobsbawm ha prodotto una vera rivoluzione culturale. Ma questo dato non è
ancora stato assimilato, né dalla società né dal sapere accademico”, spiega
Brogi, secondo cui dovrebbe essere “inaccettabile” che a certi livelli si
ignorino i classici del pensiero e della produzione artistica e teorica delle
autrici.
“Diventare ed
essere femministi è una faccenda dolorosa. Perché significa prendere atto di
tutta la violenza simbolica che ognuno di noi ha subìto e di cui è diventato
anche portatore inconsapevole”, continua Brogi, secondo cui non si tratta più
di rompere “il tetto di cristallo”, cioè di arrivare ai vertici, ma piuttosto
di rompere “le pareti di cristallo”, cioè di creare una cultura comune e
diffusa su questi temi, di prendere posizione e orientarsi su una serie di
questioni che ormai non è più possibile ignorare.
L’emancipazione
recente delle donne complica il quadro, così come l’accesso delle donne
all’istruzione
Brogi racconta di avere cominciato a scrivere Lo spazio delle donne a partire da una bibliografia che sempre più spesso le veniva chiesta da colleghi e studenti per includere nei programmi di studio anche le autrici e le loro opere, oltre a tutta la riflessione sulla decostruzione del canone classico. “Sono partita da quindici titoli essenziali, che poi sono diventati cento. Ovviamente non è una bibliografia esaustiva e definitiva, è uno strumento iniziale per orientarsi”, spiega la professoressa. “È stato così che mi sono accorta che il femminismo è ancora considerato un atteggiamento sentimentale, uno stato d’animo, al massimo una posizione politica. Non una cultura. Questo naturalmente ha a che fare con quel processo di rimozione e silenziamento della voce delle donne”, continua.
Brogi spiega che
bisognerebbe rileggere in modo critico anche i grandi classici. “L’accusa
contro chi cerca di allargare lo sguardo è di voler sottoporre a un’analisi
troppo critica dei testi del passato che sono stati concepiti in un altro
contesto. Spesso siamo accusati di voler sottoporre a cancel culture,
a censura, i testi scritti da uomini in contesti ancora più patriarcali di
quelli in cui viviamo ora. Ma la cultura è sempre dinamica: i significati
attraverso i quali noi ripensiamo la storia della filosofia, della letteratura
e di tutti i saperi sono anche delle costruzioni sociali, per cui noi, nel
presente, rinegoziamo sempre il significato dei classici, proprio alla luce
dell’oggi. Il che non significa fare un’attualizzazione selvaggia dei libri e
forzare i testi”, continua Brogi.
“Ha senso
studiare I promessi sposi di Alessandro Manzoni anche
ricordando che è un’opera scritta da un autore che tenne la sua ultima figlia
in un convento senza rispondere alle sue lettere e alle sue richieste di
incontro fin quando la ragazza morì a ventisei anni di tubercolosi? Sì,
certamente”, afferma Brogi, che all’autore dei Promessi sposi ha
dedicato diversi studi. “Saperlo e ricordarlo potrebbe avere un valore aggiunto
non in senso aneddotico, ma letterario, perché appariranno anche più grandiose
le pagine in cui proprio quel padre, da scrittore, ha inventato Gertrude nel
nono e nel decimo capitolo dei Promessi sposi, dedicati alla figlia
di un principe destinata a farsi monaca prima di nascere. Che anche Manzoni
appartenesse a una cultura patriarcale ci aiuta a capire come le forme
rielaborino e smentiscano le biografie, andando molto più lontano”, spiega la
docente.
In Sputiamo su
Hegel (La Tartaruga 2023), un testo considerato
fondamentale per il femminismo italiano, la critica d’arte e femminista Carla
Lonzi scriveva: “Per la ragazza l’università non è il luogo dove avviene la sua
liberazione, mediante la cultura. Ma il luogo dove si perfeziona la sua
repressione, coltivata all’interno della famiglia. La sua educazione consiste
nell’iniettarle lentamente un veleno, che la immobilizza sulla soglia dei gesti
più responsabili”. Era il 1970. Lonzi aveva lasciato la sua carriera di critica
d’arte per dedicarsi completamente al femminismo insieme al gruppo Rivolta
femminile. In Sputiamo su Hegel se la prendeva con il filosofo
tedesco e denunciava la non neutralità della cultura rispetto alla
disuguaglianza tra uomini e donne.
Vent’anni dopo, nel 1990, la filosofa Adriana Cavarero provava a restituire alla filosofia antica alcune figure di donne e pensatrici, a partire dalla lettura dei testi di uno dei filosofi che lei stessa aveva più amato nel corso dei suoi studi, Platone. “La cultura occidentale è ricca di figure nelle quali l’ordine simbolico si autorappresenta. Abbiamo così gli dei greci, poi l’Ulisse e il Polifemo omerici, poi l’Edipo della tragedia, e ancora, Faust o Don Giovanni. Oppure, perché no, Cirano o Werther”, scriveva Cavarero nel suo Nonostante Platone, un saggio ripubblicato nel 2023 da Castelvecchi.
Queste figure
fondamentali della cultura occidentale hanno in comune il fatto di essere
maschi e di pretendere tuttavia di essere universali. Secondo Cavarero, anche
se ci sono delle figure femminili nei classici, sono sempre subalterne al
maschile, “di modo che ogni figura di donna si trova a giocare un ruolo il cui
senso sta nei codici patriarcali che glielo hanno assegnato”.
L’emancipazione
recente delle donne complica il quadro, assicura Cavarero, così come l’accesso
delle donne all’istruzione. Perché le donne che frequentano i corsi di studio
tradizionali e le università sono costrette a identificarsi con quei soggetti
maschili, che si crede siano universali e neutrali.
“Il concetto di
estraneità è stato reso celebre da Virginia Woolf che nelle Tre ghinee lo usa in riferimento al pensiero degli uomini colti, ossia di quella
prestigiosa tradizione che è pensata dagli uomini per gli uomini”, scrive
Cavarero. Per la filosofa italiana non si tratta solo di criticare il
patriarcato e il suo presunto universalismo, “di smascherare i trucchi della
ragione universale che assegna un ruolo privilegiato al maschio, adulto,
bianco”.
Il tentativo
invece è quello di fornire una galleria di figure femminili nelle quali le
donne possano riconoscersi, liberarle dai meccanismi escludenti e dai testi che
le hanno ingabbiate negli stereotipi. Già la romanziera tedesca Christa Wolf
aveva riscritto le figure di Cassandra e di Medea tra gli anni ottanta e
novanta, più o meno nello stesso periodo in cui Cavarero riscrive le figure di
Penelope, Demetra, Diotima di Mantinea e della servetta tracia a partire dai
testi platonici. Cavarero fa spazio a quei personaggi, con l’idea di tornare
indietro a uno dei momenti fondativi del pensiero metafisico occidentale, per
mostrare il “crimine filosofico perpetrato sulle donne”, la loro esclusione.
Per Cavarero e secondo il pensiero della differenza a cui appartiene, contrastare quel sistema di dominio significa anche ricostruire una genealogia di autrici e pensatrici che l’hanno preceduta e che sono state cancellate. Ripristinare quel legame con le “madri” è già un passo verso un’altra storia.