tratto da "Avvenire" del
Antonello
da Messina, "San Gerolamo nello studio", particolare - WikiCommons
Pubblichiamo alcuni passaggi del contributo di Adriano
Fabris al volume Elogio della Porosità. Per una teologia con-testuale, miscellanea
di studi per Giuseppe Lorizio curata dai teologi Sergio Gaburro e da Antonio
Sabetta per le edizioni Studium.
Oggi la situazione in cui si trovano filosofia e teologia è quantomeno problematica. Tale problematicità dipende da una mentalità comune ormai consolidata. Dipende dalla situazione in cui per lo più ci troviamo a vivere e a pensare: una situazione in cui gli spazi sia per una riflessione filosofica, sia per un discorso teologico sono sempre più ridotti. Viviamo in un’epoca nella quale altre forme di sapere sono privilegiate. Si tratta per lo più di forme che fanno riferimento al modello della conoscenza scientifica e che a sua volta è sinergico alle procedure messe in atto dagli sviluppi tecnologici, fino al punto di esserne, a sua volta, addirittura guidato. In questo quadro per l’indagine filosofica, così come per la ricerca teologica, l’alternativa sembra essere soltanto quella o di adattarsi a tale modello di sapere, oppure di difendere conservativamente, finché ciò risulta possibile, alcuni spazi di agibilità che a entrambe le discipline erano garantiti nel passato.
La prima opzione è quella seguita per esempio sia dalla filosofia analitica, sia dalla teologia che fa riferimento allo stesso approccio culturale. In entrambi i casi vengono affrontate da un punto di vista filosofico questioni precise, approfondite con argomentazioni che si appoggiano sulla logica formale. Si cerca inoltre di mantenere il contatto con le esperienze concretamente compiute per lo più attraverso esempi, casi di studio, dilemmi che presentano alternative estreme (come per esempio il famoso dilemma del carrello, nelle sue numerose varianti). Quanto alla teologia di orientamento analitico, poi, essa consente di mettere al centro nuovamente la ragione, al posto di una certa idea di fede, riproponendo alcune prove dell’esistenza di Dio e risollevando questioni di carattere metafisico – ad esempio quelle concernenti la teodicea o il cosiddetto «disegno intelligente» – che sembravano definitivamente lasciate alle spalle. In questi casi l’approccio teologico risulta anzitutto conoscitivo. Ecco perché la stessa fede, nella molteplicità delle sue espressioni, viene spesso ricondotta semplicemente a una credenza doxastica.
La seconda possibilità che sembra rimanere, oggi, sia alla riflessione filosofica che al discorso teologico è invece quella di resistere chiusi nel recinto d’impostazioni appartenenti ormai al passato e alle quali si ritiene di dover fare comunque riferimento. Ritroviamo la fedeltà a quei modi di fare sia in filosofia che in teologia che si riferiscono in maniera privilegiata a dogmi che vanno comunque assunti acriticamente. Ritroviamo l’attenzione per categorie elaborate nel corso della storia del pensiero che si ritengono tuttora meritevoli di un reiterato scavo, soprattutto di tipo storiografico. Ritroviamo la polarizzazione fra, da un lato, quelle forme d’indagine che non hanno bisogno di presupporre nulla, tanto meno una fede, e, dall’altro lato, quell’esperienza di fede che, invece, si presenta come l’irriducibile coinvolgimento in una dimensione altra, senza però che se ne possa dare ragione.
Per ovviare a tali esiti è necessario esercitare un’adeguata opera di mediazione. Tuttavia, a questo scopo, non è più scontato – e forse, a ben vedere, non è neppure più possibile – basarsi su ciò che è messo in opera da una qualche attività interpretativa: né da quella che si concentra sull’esistenza umana, né da quella che si rivolge al testo sacro. Anche tale approccio, pur egemone nel recente passato, sembra ormai lasciato alle spalle. E questo è certamente un problema per una riflessione, come quella sviluppata nella storia del cristianesimo, che si è alimentata nei secoli della capacità d’interpretare, e attraverso ciò di riattualizzare, la rivelazione divina depositata nei testi sacri.
Voltare pagina
Sembra allora che la relazione tra filosofia e teologia riguardi oggi due discipline che, almeno per quel che concerne determinati loro sviluppi, si trovano in effettiva difficoltà. E anche il tema del loro rapporto finisce per essere, di conseguenza, solo una questione residuale. Bisogna allora cambiare impostazione. Bisogna «voltare pagina» come cerca di fare Giuseppe Lorizio. Per farlo due cose a mio parere sono importanti. Non basta partire da due discipline separate, approfondirne i rispettivi statuti epistemologici e poi cercare di metterle in connessione. Una “interdisciplinarità” intesa in questo modo è destinata infatti a rimanere sterile. Bisogna invece muovere da ciò che fa, concretamente, chi pratica tali discipline e vedere se, per che cosa e fino a che punto ciascuno necessita del supporto altrui per lo sviluppo del proprio lavoro. In secondo luogo, poi, un incontro tra riflessione filosofica e approccio teologico può avvenire non solo perché entrambe le forme d’indagine possono trovarsi ad affrontare, ancora oggi, problemi comuni. Ciò può avvenire anche perché la rispettiva tradizione di pensiero è utile allo sviluppo di un migliore chiarimento dei compiti e dei temi che di ognuna di esse sono propri. In altre parole: perché, anche dallo specifico punto di vista dello sviluppo della disciplina, il riferimento dell’una all’altra può aprire prospettive feconde.
Non c’è tuttavia, oggi, solo questa prospettiva di una
concreta collaborazione tra filosofia e teologia. C’è anche, e soprattutto, la
possibilità di un reciproco sostegno fra i due ambiti di ricerca dal punto di
vista del rispettivo inquadramento disciplinare. Questo è ciò, forse, che può
risultare maggiormente utile per lo scopo di «voltare pagina». Cominciamo dal
versante filosofico. Il filosofare può configurarsi anzitutto – potremmo dire –
come un supporto non apologetico all’autocoscienza dell’esperienza di fede e
allo sviluppo di una riflessione sulla fede stessa. Lo può essere nella misura
in cui la filosofia è in grado di elaborare una “logica” della fede in modo
diverso da come la elabora la teologia. Mi riferisco, con questa espressione,
al modo in cui l’esperienza credente si struttura e funziona. Ciò,
naturalmente, è compiuto in primo luogo dalla teologia (in una delle sue
articolazioni fondamentali), o quanto meno è stato fatto in alcuni momenti
importanti e da alcuni autori estremamente significativi della sua storia. Ma è
avvenuto, in molti casi, solo “dall’interno”. Vale a dire: giustificando da sé
e a partire da sé i propri fondamenti epistemologici. Questo è il rischio di
autoreferenzialità che l’indagine teologica corre, a meno che non si confronti
con altre discipline (e anzitutto con la filosofia) per realizzare il suo
compito di “uscita”.
Il filosofare, infatti, offre programmaticamente uno sguardo diverso. Valuta, per dir così, “dall’esterno” l’indagine sul divino e sulla relazione con il divino che la teologia sviluppa, e ne offre una critica e una giustificazione, se del caso, che sono preziose proprio per la loro provenienza. Lo sono soprattutto perché consentono di mettere a confronto le discipline teologiche, nelle loro possibilità, con altre prospettive di ricerca, magari oggi meglio accolte dalla mentalità comune.
Spingendosi più oltre, poi, una filosofia intesa come elaborazione di una “logica della fede” può proporre alla teologia una ricostruzione delle strutture del religioso: certo da un punto di vista solo filosofico, e tuttavia forse utile anche all’autoriflessione interna alle discipline teologiche. Può mettere in luce il fatto che la dimensione religiosa apre all’essere umano scenari diversi rispetto a quelli che un sapere anzitutto teorico (e basato su un unico modello di esperienza e di scienza) è in grado di dischiudere. Di più. Può far vedere come la fede, appunto perché strutturata nelle forme della fiducia, è in grado di fondare la realtà di ciò a cui crede: una realtà che, certamente, è differente da quella a cui fa riferimento l’odierno “realismo”. E infine può mostrare come l’ambito religioso, e la teologia che ne è l’espressione, è apertura di relazioni. Si tratta delle relazioni con il divino, con gli altri esseri umani, con il creato. Rispetto a ciò l’indagine filosofica può essere d’aiuto per giustificare, sempre ad extra, in che modo e perché tali relazioni possono venir considerate buone, e dunque promosse.
Apertura al divino
In quanto mediazione umana di ciò che è espresso, ovvero rivelato, da una dimensione divina, essa è chiamata a ricostruire scenari di senso, ovvero narrazioni relative a tale dimensione. Certo: non fa solamente questo. Ma assumendo tale compito essa svolge una funzione essenziale. Proprio in quanto è costante rimediazione del divino in parole umane, la riflessione teologica è il migliore antidoto contro ogni fondamentalismo: il quale appunto siffatta mediazione rifugge, riducendo la relazione con il divino a una diretta, immediata connessione con il testo sacro o con il capo carismatico che ne è l’unico interprete autorizzato.
In questa sua opera la teologia si presenta come custode del senso della manifestazione del divino agli esseri umani: custode del senso e dell’attuazione di una relazione fondamentale. Proprio perciò, tenendo anche conto delle diverse forme in cui tale custodia può realizzarsi, essa può essere d’aiuto alla ricerca filosofica. Lo può essere in vario modo. Può impedire che tale ricerca diventi preda di un approccio unilaterale e riduttivo: l’analogo, cioè, del fondamentalismo in ambito religioso. Può far sì che il filosofare si renda conto che l’epoca delle narrazioni non è affatto finita, che anche il proclamarlo è, in realtà, una narrazione, e che dunque è necessario muoversi, proprio facendo filosofia, a recuperare contesti simbolici e immaginativi. Ma soprattutto può ricordare all’indagine filosofica che essa o resta aperta a tutte le varie possibilità che le si aprono, oppure perde una sua attitudine di fondo: quell’approccio avventuroso da cui spesso è stata caratterizzata nella sua storia.