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Che ruolo ha la demografia nel conflitto arabo-israeliano?

di Lorenzo Grammatica  e Irene Graziosi
tratto da Lucy sulla Cultura del 26 dicembre 2023

Disciplina poco considerata, la demografia è però molto importante. Lo studio dei processi e delle cause che portano all’evoluzione delle popolazioni, come natalità, mortalità, migrazioni, forniscono una chiave di lettura dei rapporti di forza all’interno dei conflitti e spesso dei pretesti che li generano. Ne abbiamo parlato con Sergio Della Pergola, demografo e statistico che ha dedicato buona parte del suo lavoro a quello che accade in Israele, dove vive.

Con angoscia crescente si guarda oggi a quello che accade in Medio Oriente, dove la guerra tra Israele e Hamas, dopo mesi di scontri e innumerevoli civili morti, prima da parte israeliana e poi, in modo spropositato, da parte palestinese, sembra ancora lontana da una tregua. 

Sul conflitto decennale arabo-israeliano si è scritto e detto tanto. 

Si affronta la questione da una prospettiva politica, religiosa, militare e diciamo anche – per usare un termine molto popolare e di moda in questo periodo, ma di incerta collocazione disciplinare  – geopolitica. 

La tentazione, difficile da sfuggire, è di leggere quello che accade lì, con tutti i suoi sedimenti storici, alla luce della situazione politica internazionale, ovvero come una questione strategica, in un’area delicata, i cui risvolti possono essere più o meno dannosi per le società occidentali e i loro interessi. Di certo, i paesi occidentali hanno avuto un ruolo non secondario nel determinare gli equilibri della zona. 

Quello che raramente però diventa oggetto di un discorso approfondito, ragionato e il più possibile scevro da pregiudizi – in questo frangente ma, più in generale, anche in altri conflitti in altre parti del mondo – è il fattore demografico. 

La demografia si occupa di studiare, soprattutto da un punto di vista statistico, i fenomeni che riguardano le popolazioni: il sesso, l’età, lo stato civile, l’educazione, il ceto, la religione, la professione. A questi fattori, che restituiscono il ritratto di una società in un dato momento, si aggiungono quelli dinamici: nascite, morti, migrazioni, mobilità sociale. Quello che accade nella vita di tutti i giorni, insomma, e quello che, alla luce dei dati, sembra destinato ad accadere. 

Quando due parti sono in conflitto tra loro gli equilibri numerici sono fondamentali, come è ovvio.  Basti pensare allo slogan fascista: “La maternità sta alla donna come la guerra sta all’uomo”. 

Le guerre sono fatte da persone, persone che, nella maggior parte dei casi, si identificano in un sistema di valori, in una cultura, in una religione (o in nessuna), che condividono una lingua. Persone che nascono, si spostano, si sposano, mettono su famiglia, lavorano, magari si spostano ancora e cambiano lavoro. 

Studiare i loro comportamenti quotidiani è molto utile a leggere le stratificazioni, le sfaccettature, i mutamenti delle società. 

Sergio Della Pergola è statistico e demografo. Nato in Italia nel 1942, vive dal 1966 in Israele, dove è Professore ordinario emerito e ex-Direttore dell’Istituto Avraham Harman di Studi Ebraici Contemporanei all’Università Ebraica di Gerusalemme. 

Ha dedicato una parte importante dei suoi studi alla società israeliana. 

La demografia, con le sue tendenze, esprime, dice Della Pergola nell’introduzione al suo libro Israele e Palestina: la forza dei numeri (pubblicato per la prima volta da Il Mulino nel 2007) “un sostrato ben più profondo di fattori religiosi, culturali, socioeconomici e ambientali di fondamentale importanza nella configurazione del conflitto israeliano-palestinese”. 

L’obiettivo è prendere in esame le due parti in contesa tra loro non come due mondi completamente separati, ma come un aggregato demografico assieme integrato e differenziato, per cercare di guardare a quello che accade lì in modo più preciso, con la speranza di comprendere meccanismi di riduzione delle tensioni esistenti. 

Abbiamo parlato con lui, in video-call, qualche settimana fa. 

Quello demografico è un aspetto troppo spesso tenuto in scarsa considerazione nella lettura dei conflitti e delle cause scatenanti dei conflitti. Eppure, anche nella storia recente l’aspetto demografico ha avuto un ruolo decisivo in questo senso. Leggendo il suo libro, ho pensato subito al conflitto dei Balcani. La miccia scatenante – una delle micce scatenanti del conflitto dei Balcani – è quello che è successo in Kosovo, dove gli albanesi in pochi anni sono diventati la maggioranza da un punto di vista demografico rispetto ai serbi di Kosovo, che però avevano il potere, mentre gli albanesi rimanevano esclusi dai ruoli di pubblico ufficio.

Considerando che dagli anni Cinquanta ad oggi gli israeliani sono passati da uno a nove milioni e che il tasso di fecondità israeliano si aggira attorno al 3,13 figli per donna, che nel contesto occidentale è una cosa assolutamente fuori dalla norma, volevo chiederle quanto questo aspetto di fecondità e di natalità è decisivo nel leggere quello che sta accadendo oggi in Palestina e quanto il conflitto tra arabi e israeliani in quell’area passerà nei prossimi anni dall’aspetto demografico. 

Forse vi deluderò, perché come demografo dovrei dire “La demografia è tutto!” ma così la nostra chiacchierata sarebbe già finita. La mia posizione in realtà è un po’ diversa, ossia: c’è la politica e c’è l’ideologia, e ovviamente c’è la storia e poi c’è la religione; e poi c’è la demografia. La demografia ha certo un ruolo importantissimo e qui naturalmente condivido: della demografia si parla poco, viene data per scontata come il tempo atmosferico, cioè una cosa che c’è e non ci si può fare niente. 

Invece la demografia va vista come un agente di portata strategico, come l’economia e come anche certi equilibri militari, cioè c’è qualcosa che ha delle oscillazioni importanti, e ha anche delle soglie per cui al di là di una certa soglia succede una cosa, e al di sotto di questa non può succedere.

E quindi la demografia può avere anche un potere scatenante in certe situazioni. Appunto, il caso dei Balcani è interessante. Il caso nostro, in Israele e Palestina, in parte è simile, cioè la questione degli equilibri “maggioranza-minoranza”, legati poi a un particolare territorio, anche se, ripeto, vi è molta maggiore complessità.

La demografia ha un ruolo molto importante nel determinare gli equilibri quantitativi, in particolare nel caso in cui ci sia un conflitto fra due gruppi. Pensiamo in passato al rapporto tra Francia e Germania, ai tempi della prima guerra mondiale, o anche dopo. Anche lì la demografia giocò un ruolo decisivo, per lo meno a livello di percezioni: c’era la Germania che cresceva e i francesi avevano questo terribile complesso di non crescere abbastanza.

La demografia fa parte della visione complessiva dei fenomeni. Nel caso specifico, parlando di Israele e Palestina, a monte c’è la questione dell’identità di queste nazioni e di questi Stati, esistenti o proposti. 

“La demografia va vista come un agente di portata strategico, come l’economia e come anche certi equilibri militari, cioè c’è qualcosa che ha delle oscillazioni e ha delle soglie per cui al di là di una certa soglia succede una cosa e al di sotto di questa non succede”.

Golda Meir, primo ministro israeliano dal 1969 al 1974, sosteneva provocatoriamente che i palestinesi non esistono, o anche: diceva di sentirsi palestinese, perché ci sono arabi di Palestina ed ebrei di Palestina. Questa idea, che non esista un’identità nazionale palestinese, è stata fortemente (e giustamente) criticata ed è ancora oggi molto dibattuta, soprattutto alla luce di alcune dichiarazioni rilasciate da ministri del governo di Netanyahu. Di certo la Palestina, prima di essere un luogo geografico, è un concetto dato storicamente e politicamente…

Il concetto fisico e geo-politico di Palestina era inesistente fino al 1920, ossia fino alla conferenza di Sanremo in cui si decise l’assetto del Medio Oriente dopo la fine dell’Impero Ottomano e l’attribuzione all’Inghilterra del Mandato sulla Palestina. Esisteva un concetto storico, emotivo e biblico di Palestina o di Terra Santa. Ma il concetto geo-politico contemporaneo deriva dalla spartizione dei territori ottomani fra la Francia e l’Inghilterra a partire dall’incontro Sykes-Picot del 1916, che attribuiva all’Inghilterra il nuovo concetto di Palestina, esteso alle due sponde del fiume Giordano, insieme all’Iraq, mentre la Francia prendeva sotto la tua tutela la Siria che inlcudeva anche il Libano. 

La data fondamentale da non dimenticare, messa molto in secondo piano nel discorso contemporaneo, è quella del 29 novembre 1947, è la data in cui l’assemblea dell’ONU decide a grande maggioranza la spartizione del territorio del mandato britannico fra due entità statali, che vengono definite non Israele e Palestina come tutti pensano, bensì Stato arabo e Stato ebraico. Israele e Palestina sono due nomi successivi. Però il punto fondamentale è che l’ONU riconosce in quel momento l’esistenza di due attori che sono sia politici sia nazionali, non religiosi: una compagine araba e una compagine ebraica.

Finita la Seconda Guerra Mondiale, la potenza coloniale mandataria, il Regno Unito, non era più in grado di mantenere l’ordine e così gli inglesi devolvono il problema al consesso delle nazioni, le quali trovano una maniera – diciamo così – salomonica di risolvere la questione, dividendo in due il territorio del resto non superiore per superficie a una regione italiana, e creando questi due stati, lo stato arabo e lo stato ebraico, oltre a una zone internazionalizzata per Gerusalemme e i Luoghi Santi. Anche questo riflette una certa demografia, perché la divisione rifletteva la presenza di ebrei e arabi su territorio. 

Va chiarito che il Mandato britannico sulla Palestina era stato chiaramente creato allo scopo per potervi stabilire il focolare nazionale ebraico (vedi Preambolo e Art. 2), fermi restando i diritti delle popolazioni ebraiche nella diaspora e delle popolazioni arabe residenti. Agli Arabi, oltre alla metà del territorio della Palestina a occidente del fiume Giordano, era stato già assegnato (dal trattato di Sanremo del 1920) anche il territorio di quella che originariamente era la Palestina orientale, ora ridenominata Transgiordania. 

Gli ebrei in quel momento erano una minoranza rispetto alla popolazione totale, che era in maggioranza musulmana di un territorio che era stato in precedenza una provincia, o meglio una serie di province estremamente marginali e sottosviluppate del sud-est dell’impero ottomano. La maggioranza della popolazione era musulmana, i cristiani appartenevano alle chiese orientali, la presenza cattolica era quasi insignificante da un punto di vista numerico. La parte ebraica era una minoranza che peraltro aveva contribuito enormemente allo sviluppo economico della regione, sviluppo di cui aveva tratto beneficio anche la parte araba che anche grazie a questo era molto cresciuta. 

La minoranza ebraica era cresciuta grazie all’immigrazione.e La politica migratoria del mandato britannico era estremamente contraddittoria, equivoca e ondeggiante: in certi momenti permetteva l’immigrazione ebraica, che era un’antica aspirazione  sempre esistita, in altri momenti la politica era estremamente restrittiva.

Winston Churchill e Herbert Samuel, Alto Commissario per la Palestina, a Gerualemme durante il mandato britannico (1921).


Da dove vengono e chi sono questi ebrei che arrivano in Palestina? Qual è il rapporto con la popolazione araba?

Durante gli anni del Mandato britannico c’erano state delle forti ondate migratorie. Una di queste, molto influente, precede e segue la salita al potere del regime nazista in Germania. Arrivano dunque molti ebrei tedeschi all’inizio degli anni Trenta, e poco dopo arrivano molti ebrei polacchi, in seguito alle vicende geopolitiche che avevano creato serie difficoltà a quelle comunità. Poi arrivano immigrazioni ebraiche eterogenee per provenienza, anche dall’Italia dopo le infami leggi fasciste antiebraiche del 1938. Nel 1947, la presenza ebraica è ancora nettamente minoritaria e concentrata soprattutto in determinate zone, soprattutto la zona costiera e una parte della Galilea. 

Si era sviluppata una moderna agricoltura al posto del latifondo e dello sfruttamento dei fellah (N.d.R.: lavoratori della terra)  con il Kibbútz, cioè le fattorie collettive, e poi anche il Moshàv, gli insediamenti cooperativi.

Il mandato britannico sviluppava determinati fattori di modernizzazione come la rete sanitaria, la rete ferroviaria (che peraltro già esisteva dai tempi dei Turchi), la rete stradale, l’aeroporto, senza però chiaramente prendere parte per una o l’altra delle due parti che si contendevano il territorio. Dopo vari tentativi di ridurre l’immigrazione e poi di consentirla, si arrivava al libro bianco MacDonald del 1939 che chiudeva definitivamente l’immigrazione ebraica. Questo alla vigilia della guerra mondiale, proprio quando per gli ebrei perseguitati in Europa sarebbe stato drammaticamente importante avere uno sbocco da qualche parte. E infatti, non avendolo, sei milioni di ebrei sono stati poi distrutti nella Shoah.

Da parte araba, però, non vi era nessun consenso di fronte a questa crescita della popolazione ebraica. La popolazione ebraica cresceva e causava uno sviluppo e una modernizzazione impensabili. Il paradosso, e qui ancora la demografia c’entra, è che lo sviluppo degli uni consentiva anche lo sviluppo degli altri. Ossia: se io imposto una moderna medicina e taglio la mortalità infantile, la mortalità infantile viene tagliata per tutti e quindi tutti crescono. C’è un fortissimo impulso demografico da parte dell’immigrazione ebraica, ma anche da parte della demografia araba, che migliora nettamente la propria situazione. Se gli ebrei sono imprenditori, hanno bisogno di forza di lavoro e se non la trovano nel settore ebraico, la trovano nel settore arabo. Questo vuol dire impiego, redditi, un miglioramento del livello di vita, sia nel settore agricolo sia nel settore urbano. 

E quindi abbiamo questo paradossale matrimonio forzato in cui una parte non vuole l’altra, però entrambe hanno bisogno dell’altra, entrambe guadagnano enormemente dalla presenza dell’altra.

Già nel 1936 era stato proposto un piano di spartizione territoriale, il cosiddetto piano Peel, che dava agli ebrei una minuscola fascia costiera e qualche cosa nella Galilea, rifiutato dalla parte araba. E quindi si arriva alla Seconda guerra mondiale.

Durante la Seconda Guerra mondiale, truppe di volontari ebrei palestinesi combattevano nelle file dell’esercito inglese, con la Brigata Ebraica che partecipava anche alla liberazione dell’Italia dall’occupazione tedesca. La partre araba palestinese, invece, attraverso il suo leader lo Sceicco Amin el-Husseini intratteneva cordiali rapporti di amicizia con Hitler e il regime nazista.

A questo punto il discorso si complica. Il 14 maggio 1948 David Ben Gurion dichiara l’indipendenza dello Stato ebraico, cui viene subito attribuito il nome di Stato d’Israele. Ma la classe dirigente araba palestinese rifiuta la decisione dell’ONU, per cui non viene dichiarata l’indipendenza dello Stato arabo previsto dall’ONU. Inizia invece lo scontro armato che ha come obiettivo la distruzione di Israele. A questa guerra partecipano gli eserciti di tutti paesi arabi confinanti, almeno due dei quali, l’Egitto e la Transgiordania hanno ricevuto istruzione militare di scuola inglese.

“Il concetto fisico di Palestina era inesistente fino al 1920. Esisteva un concetto storico, un concetto emotivo e un concetto biblico. Ma il concetto fisico deriva dalla spartizione dei territori fra la Francia e l’Inghilterra”.

Dopo, nel 1950, viene introdotta la “Legge del ritorno”. Che cos’è? Ci sono state molte polemiche riguardo alla possibilità di riformarla da parte del governo attualmente in carica…

La “Legge del ritorno” dello Stato di Israele attribuisce a ogni ebreo il diritto di immigrare in Israele. La Legge del ritorno intende codificare quello che di fatto stava avvenendo, e cioè l’aspirazione antica degli ebrei di tornare nella Terra santa. Poi c’è anche un tema, forse di minore interesse, più sociologico che politico, cioè il fenomeno dell’assimilazione., Molti ebrei sono sposati con non ebrei, e quindi anche tutte e famiglie in parte ebraiche e in parte no hanno diritto all’immigrazione. 

La Shoah aveva creato una nuova stratificazione nell’identità ebraica, e rendeva evidente la necessità per gli ebrei di avere una patria, senza essere perseguitati. E quindi, a partire da 1948-1949 c’è un’ulteriore motivazione che porta a un’enorme – enorme nei termini di allora –  ondata migratoria che comprende due tipi di persone. Da una parte, gli scheletri umani sopravvissuti alla Shoah in Europa, che vivono in condizioni pietose e in una totale distruzione mentale e fisica. Sono circa la metà. L’altra metà sono gli ebrei espulsi dai paesi arabi, dal Nord Africa, dall’Egitto, dalla Turchia, dall’Iran, dallo Yemen, dall’Iraq. Questa immigrazione poi continuerà negli anni successivi e quindi la popolazione ebraica in Israele aumenta enormemente in questi primi due-tre anni, fino al 1951. 

Allo stesso tempo, a causa della guerra, circa seicentomila, settecentomila arabi lasciavano le terre della zona della Palestina, e quindi si creava il problema dei profughi palestinesi. Questi in parte si distribuivano nelle altre zone della Palestina araba, quindi nella West Bank (occupata dalla Giordania) e a Gaza (occupata dall’Egitto), e in parte si distribuivano invece in paesi limitrofi – Libano, Siria, Iraq, Egitto.Quindi in breve tempo si verificava una trasformazione radicale del panorama demografico. 

In Israele si è creata una nuova compagine molto eterogenea. Se prima, durante il mandato britannico, c’era una predominanza di ebrei europei, ora abbiamo una metà proveniente da paesi afro-asiatici e una metà europea, con una piccola componente americana.Quindi nasce una problematica di dislivelli sociali e di integrazione: l’ebreo che arriva da Amburgo e quello che arriva dallo Yemen, per esempio, provengono da aree molto diverse per sviluppo sociale culturale. C’è’ chi ha vinto il Premio Nobel, e chi non a mai visto l’acqua corrente, per non parlare dell’elettricità.

Nakba, esodo palestinese (1948)

Noi siamo abituati a guardare ad Israele come a una democrazia occidentale. Ma quello di Israele, come diceva, è uno stato molto eterogeneo. Lo storico Benny Morris in una recente intervista racconta di come Israele venga visto dai paesi arabi dell’area come un paese arabo – culturalmente e politicamente. Quali sono le basi della democrazia israeliana?

Quali sono le fondamenta della democrazia in Israele? Da dove proviene questa identità israeliana? Beh, questo è un discorso un po’ problematico. In Israele, abbiamo detto, una metà della popolazione arrivava da paesi afro-asiatici, musulmani, in cui la democrazia proprio non esisteva: c’era l’imam, c’era lo sceicco, c’era il colonialismo francese o inglese. Gli ebrei europei invece arrivavano in gran parte dall’Europa orientale dove, dopo la Rivoluzione russa del 1917, non c’era una democrazia di tipo – diciamo – “occidentale”. E in Polonia e in altri paesi dell’Europa orientale la democrazia era un concetto abbastanza discutibile.

Rimane un piccolo circolo di ebrei occidentali europei: britannici, francesi, tedeschi della Repubblica di Weimar, qualche centinaio di Italiani (divenuti nel corso degli anni molte migliaia), che erano però una minoranza. Allora, se vogliamo essere forse un po’ spietati, possiamo dire che per il 90% dei genitori degli israeliani la democrazia non l’hanno mai vista, è vero. Ma possiamo dire anche che tra i genitori degli arabi l’hanno vista lo 0%.

La democrazia israeliana è un miracolo perché si è creata a partire da persone che la democrazia non l’avevano mai esperita nella loro vita. Però evidentemente l’avevano letta sui libri e assimilata nel corso delle loro attività poitiche, anche Ben Gurion, il Primo Ministro fondatore, che proveniva da Plonsk, in Polonia. Golda Meir, la mitologica prima donna Primo Ministro, proveniva dall’Ucraina, dopo un passaggio da ragazza negli Stati Uniti. Chaim Weizmann, il primo Presidente della Repubblica, era nato a Motal in Bielorussia ma aveva studiato in Germania, e poi lavorato in Inghilterra. 

Nonostante queste origini, in Israele si è creato un sistema multipartitico, pluralistico, proporzionale e parlamentare, con un forte sustema giudiziario guidato da una Corte Suprema indipendente. Sono state create forti strutture universitarie, ospedaliere e industriali con una foete presewnza nell hi-tech. Anche l’agricoltura è all’avanguardia. Tutto quello che serve per creare un paese moderno, efficiente e funzionante, si è creato con le premesse teoriche del Sioismo, un movimento nazionale molto simile al Risorgimento Mazziniano, di ispirazione laica e liberale. Israele, nel panorama internazionale, è indubbiamente dalla parte delle democrazie avanzate.

E questo naturalmente si manifesta in un sistema di partiti molto articolato, con una democrazia parlamentare in cui ovviamente chi vince le elezioni poi governa e con ripetute alternanze al potere. Questi spostamenti sono determinati, in parte dai cambiamenti demografici delle popolazioni sottostanti. E quindi chi è cresciuto in un ambiente più tradizionalista, più nazionalista e più religioso, voterà in un certo modo. Chi è cresciuto in un ambiente più laico, più occidentalizzato, voterà in un altro modo. E poi ci sono le vicende della vita e le vicende della vita spostano il voto. 

Io sono nato in Italia e per molti anni ho anche votato in Italia. Il voto in Italia oggi è molto diverso dal voto di molti anni fa, prima della mia emigrazione per Israele nle 1966. Oggi, il sistema dei partiti in Italia è cambiato completamente perché anche l’italia è cambiata completamente. 

E secondo lei come mai in Israele oggi c’è una componente conservatrice così forte? Ha a che fare con la composizione eterogenea della popolazione di cui abbiamo parlato?

Quello che è avvenuto in Israele è sorprendentement simile a quello che è avvenuto in Italia con la Democrazia Cristiana. Dov’è finito oggi il partito che aveva quasi la maggioranza assoluta in Parlamento e dov’è finito oggi il Partito Laburista Israeliano, che aveva quasi la maggioranza assoluta in Parlamento? E come mai questo è successo?

Con tutte le cautele del caso, credo che questo dipenda da meccanismi che hanno a che fare con determinate trasformazioni intellettuali, sociali, economiche, di fronte alle quali il potere arriva in ritardo finendo per gestirle male. Inoltre il potere, gestito rroppo a lungo finisce col corrompersi. Quindi abbiamo due fenomeni che sono speculari, in Italia e in Israele: il crollo di due egemonie politiche. E visto che non esiste il vuoto in politica, qualcuno lo doveva riempire. 

Come in Italia è emersa una forza politica nuova che per alcuni anni ha gestito la politica nazionale, lo stesso, in parte,  è avvenuto anche in Israele. Naturalmente, se guardiamo ai dettagli, le modalità sono diverse, i contenuti specifici sono diversi. Ma voglio insistere sui meccanismi, che sono simili, anche per togliere a Israele questa aura di stranezza e di unicità che la circonda. Israele non è affatto unica, non è affatto particolare, salvo che ovviamente ci sono delle contingenze uniche. Il popolo ha una certa tendenza conformista a seguire delle ondate, senza magari porsi delle domande critiche rispetto a cosa sia il meglio e cosa si possa migliorare. Ma l’economia ha le stesse regole, e in parte anche la politica. Quello che è molto diverso è che Israele si trova sempre sotto la spada di Damocle di forze cfondamentaliste e genocide che lo voglioni distruggere. Questo per fortuna in Italia non esiste.

C’è stato indubbiamente in Israele uno spostamento a destra dell’asse politico. Lo spostamento ha una evidente componente legata al conflitto. Certo, , al di là delle stratificazioni sociali e i paesi di origine, c’è una decisiva influenza del conflitto. Il terrorismo palestinese ha causato una radicalizzazione dell’opinione pubblica in Israele. Il movimento pacifista ne ha sofferto.

A Gaza due terzi della popolazione ha vissuto sotto la soglia di povertà. Metà della popolazione è disoccupata, e si ritrova nelle mani di Hamas, che è un gruppo terroristico. Ora, l’impressione è che sia molto difficile per una società crescere senza una borghesia autoctona. Mi sembra che in questo momento non esista una borghesia a Gaza. Mi chiedo: Israele oltre il ritiro del 2005 ha creato le condizioni affinché una società che sicuramente ha degli elementi potenzialmente positivi potesse creare una sua borghesia, una classe dirigente in grado di trattare con la controparte israeliana?

Sono perfettamente in linea sul fatto che un elemento cruciale dello sviluppo degli Stati è l’emergere della classe media, della piccola borghesia e di un certo quadro anche di impiegati statali. Nella West Bank questo in parte è avvenuto. A Gaza molto meno – c’è anche una composizione sociologica-antropologica completamente diversa. Sono due sezioni di un popolo che hanno un profondo contenzioso fra di loro, ma non solo politico, anche antropologico. 

Però tornando all’emergere di questa borghesia: per chiarire, gli arabi israeliani, che sono appunto un po’ più del venti per cento della popolazione, sono circa al livello di un paese come la Polonia, che non è un paese completamente sottosviluppato. Israele è a un livello più alto, quindi esiste un certo gap. Ma questo gap estiste anche fra le provincie italiane del nord e del sud, a 162 anni dall’Unità d’Italia. 

Il gap non fa piacere, però le disparità esistono in qualunque stato, e naturalmente andrebbero corrette, eppure spesso non è possibile o non è facile farlo. Nei territori occupati la situazione è meno buona, anche se, secondo l’indice di sviluppo umano pubblicato dall’ONU, scopriamo con stupore che la situazione dei territori occupati è migliore rispetto a una buona parte dei paesi arabi: meglio che in Iraq, meglio che in Siria, meglio che in Libano, meglio che in Marocco, meglio che in Egitto. E naturalmente è molto peggio che negli Emirati, Kuwait, Qatar, Arabia Saudita dove grazie ai redditi dle petrolio sono state messe in atto delle trasformazioni sociali.

Detto questo ora la domanda è: è possibile attribuire a Israele il fallimento economico di Gaza? Io temo che ci sia un problema molto più profondo. Il problema vero è il fanatismo irriducibile che porta a scavare una incredibile città sotterranea fatta di trincee e di fabbriche e depositi di armi e munizioni, con una spesa di miliardi di dollari (che si cono), invece di preoccuparsi della sanità, dell’istruzione e del lavoro della popolazione locale.

Certo, bisognerebbe sviluppare la classe media: per sviluppare la classe media occorre una mano, e se questa non arriva dall’interno occorre una mano esterna che guidi. Però così, paradossalmente, chiediamo la mano di Israele, che occupi il territorio e guidi la crescita delle classi medie. Ma così non se ne esce: non si può incolpare Israele di tutto, di aver fatto e anche di non aver fatto. Ci sono dei problemi non risolti, ed è molto complesso risolverli, in Israele come altrove. Ma l’aggravante è che in questa regione c’è un conflitto che deriva da forze fanatiche che emanano soprattutto dall’Iran ma anche da altri centri, come il Qatar e perfino la Turchia. E ciò che spesso viene eluso nell’analisi degli occidentali è la presenza di Hamas, che, almeno a leggere lo Statuto vuole distruggere non solo Israele, ma anche tutti gli ebrei, e dedica a questo progetto tutti gli investimenti, tutte le energie, tutte le forze.

Manifestazione contro Netanyahu (2023)

Ci sono state manifestazioni molto partecipate e numerose contro il governo di Netanyahu, per molti mesi, ben prima del 7 ottobre, anche se pochi ne hanno parlato qui in Italia. Quindi esiste una generazione e una fetta di israeliani che chiede una soluzione pacifica, così come esiste una parte palestinese che vuole la stessa cosa, che sia con uno Stato unico o soluzione dei due Stati. Quale potrebbe essere secondo lei la soluzione più auspicabile per il futuro degli abitanti della Palestina? 

Intanto diciamo che è deplorevole se non ci si rende conto che la società civile israeliana è viva, vivace, manifesta per la democrazia e contro l’involuzione anti-democratica che è stata introdotta da Netanyahu e portata avanti dal suo governo. È stata proposta dal governo Netanyahu una riforma della giustizia che è inaccettabiule perché porterebbe alla subordinazione del potere giudiziario al potere esecutivo.

Credo che sia onesto dire che anch’io ho partecipato alle dimostrazioni contro questo governo, perché chiaramente condivido il punto di vista critico dell’opposizione, e quindi mi ritengo senz’altro dalla parte dei fautori di soluzioni pacifiche e democratiche.

E, malgrado l’orrore senza precedenti – perché di questo si tratta – del 7 ottobre, sono convinto che anche nella parte palestinese esiste un fondo di persone che vogliono arrivare a una stabilità, a una soluzione di due Stati. Io stesso ho avuto varie volte in passato, non proprio negli ultimissimi anni, vari contatti con colleghi o anche con politici palestinesi con cui si discuteva amichevolmente e con rispetto reciproco delle proprie posizioni e delle prospettive future. Queste prospettive esistono, e naturalmente esistono al di fuori delle frange estremiste e massimaliste. Anche da parte israeliana non mancano questi gruppi estremisti che nella gestione Netanyahu hanno acquisito una fetta di potere significativa. Ma da noi sono una piccola minoranza, a Gaza sono la grande maggioranza.

Riguardo alla soluzione più macropolitica io ho un’idea molto particolare. Io penso che la soluzione sia uno stato a Gaza (ovviamente senza Hamas), uno stato per la West Bank, e uno stato di Israele. Ovviamente demilitarizzando Gaza e la West Bank e stringendo una serie di trattati di collaborazione alla soglia del federalismo, perché gli interessi comuni sono enormi – forza di lavoro, risorse idriche, protezione del territorio, eccetera. La maggioranza degli israeliani sarebbe d’accordo con una visione di questo tipo, ma naturalmente tocca loro sbarazzarsi degli estremisti al governo. E la stessa cosa vale per Hamas, che finché controllerà Gaza, e finché la West Bank non avrà una classe dirigente meno impotente di quella attuale, sarà da ostacolo a qualunque forma di diplomazia. Infine occurre un intenso impegno da parte dei paesi democratici e dei paesi arabi moderati, affinché questo possa avvenire.