di Vitalba Azzollini
tratto da Valigia Blu del 27 ottobre 2023
Aggiornamento
del 17 novembre 2023: La Camera ha dato ieri il via libera definitivo, con 159 voti a favore, 53
contrari e 34 astenuti, al disegno di legge nazionale sulla carne coltivata. Il
provvedimento, come già segnalavano, rischia però di essere un flop annunciato,
poiché prima di tutto è inapplicabile. Non soltanto non c’è stata la notifica
all’Unione Europea ai sensi della procedura TRIS per le regolamentazioni
tecniche che potrebbero limitare la circolazione di prodotti della società
dell’informazione.
Il provvedimento
va di fatto a vietare qualcosa che è già vietato, poiché non ancora autorizzato
dalla Commissione Europea. Nel caso in cui la Commissione lo autorizzasse,
inoltre, il divieto resterebbe comunque inapplicabile, poiché entrerebbe in
contrasto con il principio di libera circolazione delle merci, che è uno dei
principi fondanti dell'Unione Europea.
Si potrebbe definire come un flop annunciato il ritiro da parte del governo della notifica alla Commissione europea del progetto di legge relativo al “divieto di produzione e immissione sul mercato” della cosiddetta carne coltivata, nonché al “divieto della denominazione di carne per prodotti trasformati contenenti proteine vegetali”.
Per capire in
cosa consista il ritiro della notifica e quali ne potrebbero essere le cause,
serve chiarire la disciplina che la prevede, nonché il quadro normativo
generale in cui si inserisce il tema in discorso. Può essere anche utile esporre
le obiezioni che al disegno di legge italiano sono state fatte da parte di
alcune associazioni, nell’ambito dell’istruttoria in sede europea.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Il mercato unico
La normativa sui cibi innovativi
Le obiezioni al DDL sulla carne coltivata
L’assenza di una normativa UE
Il divieto di denominazione
Conclusioni: la miopia di norme dannose per l’Unione e l’Italia
Il mercato unico
Il mercato unico dell’Unione Europea è uno spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali. Il Trattato sul funzionamento dell’UE (TFUE, articoli 34 e 35) vieta agli Stati membri restrizioni quantitative all'importazione o all'esportazione o misure di effetto equivalente. Tuttavia, possono essere ammessi “divieti o restrizioni all'importazione, all'esportazione e al transito giustificati da motivi di moralità pubblica, di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di tutela della salute e della vita (…)” (art. 36, TFUE).
Qualora uno
Stato membro intenda introdurre regolamentazioni tecniche che potrebbero
comportare limiti alla libera circolazione di prodotti e servizi della società
dell'informazione, la disciplina europea (direttiva 2015/1535) prevede che sia effettuata un’apposita notifica alla Commissione e agli
altri Stati membri (la cosiddetta procedura TRIS). Restrizioni alla libera circolazione possono essere ammesse solo se
necessarie “per soddisfare esigenze imperative e se perseguono un obiettivo di
interesse generale di cui costituiscono la garanzia basilare”.
La procedura di
notifica è finalizzata a consentire alla Commissione e agli altri paesi membri
di valutare la compatibilità dei progetti legislativi con la legislazione
dell’Unione Europea. Dalla data della notifica inizia un periodo di sospensione
di tre mesi, durante il quale si svolge l’esame della Commissione e degli
Stati, anche mediante la consultazione di associazioni private. Qualora
emergano profili di incompatibilità con il diritto europeo, Commissione e Stati
possono presentare un parere circostanziato su tali profili, e la sospensione
viene prorogata per altri tre mesi, nei quali lo Stato notificante deve fornire
spiegazioni. Decorso questo periodo, se la Commissione non blocca il progetto,
tale Stato può procedere alla sua adozione.
Il 27 luglio scorso, il ministero delle Imprese e del Made in Italy e il ministero dell'Agricoltura e della sovranità alimentare hanno notificato in sede UE – in base alla normativa sopra indicata - il progetto di legge contenente il divieto di attività relative all’utilizzo della carne coltivata.
La normativa sui cibi innovativi
La commercializzazione della carne coltivata necessita di essere autorizzata dalla Commissione europea ai sensi della disciplina UE sui cosiddetti novel food (regolamento n. 2283/2015). Si definiscono come tali gli alimenti o gli ingredienti alimentari per i quali non è dimostrabile un consumo “significativo” all’interno dell’UE al 15 maggio 1997, data del primo regolamento (n. 258).
Si tratta di
prodotti derivati da piante, alghe, funghi e insetti, ma anche ottenuti da
nuove tecnologie, come nanotecnologie e ingegneria genetica. L’autorizzazione
alla messa in commercio di un novel food da parte della
Commissione richiede una valutazione da parte dell’EFSA (l’Autorità europea per la sicurezza
alimentare) sotto il profilo dei rischi per la salute umana. Nel
procedimento è previsto possano intervenire anche gli Stati membri, qualora
intendano avanzare obiezioni sulla pericolosità dell’alimento stesso.
Le obiezioni al DDL sulla carne
coltivata
Il disegno di legge nazionale, teso a imporre una serie di divieti relativi alla carne coltivata (importare, produrre per esportare, somministrare o distribuire per il consumo alimentare e altro), era immediatamente parso privo di ogni fondamento. Infatti, il consumo di questa carne è già vietato, non essendo stato autorizzato ai sensi del citato regolamento sui novel food. Ma anche in uno scenario futuro, qualora ne fosse consentita dalla Commissione Europea la messa in commercio, i divieti italiani non avrebbero senso, poiché in contrasto con quel principio della libera circolazione delle merci che è fondante per l’UE, come visto.
Inoltre, il principio di precauzione (art. 7, regolamento Ue n. 178/2002) posto a base della proposta normativa viene distorto per giustificare preventivamente il divieto di alimenti da colture cellulari. In base a tale principio, una misura restrittiva della libera circolazione può riguardare un prodotto già in uso, qualora si dimostri un rischio relativo a tale prodotto che, pur se non pienamente comprovato da elementi definitivi, appaia tuttavia supportato dai dati scientifici disponibili. Invece, il progetto italiano invoca il principio di precauzione per un prodotto non ancora in uso, in quanto non ancora autorizzato, assumendo che non vi sia - e non vi potrà essere - sufficiente certezza della sua non pericolosità, anche ove fosse autorizzato, e che comunque esso metta a rischio il patrimonio alimentare italiano.
L’assenza di una normativa
UE
Queste ed altre obiezioni sono state sollevate da associazioni private che si sono espresse nell’ambito dell’istruttoria avviata a seguito della notifica italiana in sede UE. L’attenzione delle stesse si è concentrata, tra gli altri profili, sul fatto che il progetto di legge italiano è motivato dai ministeri notificanti con la “assenza, al momento, di una normativa specifica in campo europeo”. Assenza che avrebbe indotto il governo nazionale a intervenire “a livello nazionale per tutelare interessi che sono legati alla salute e al patrimonio culturale”, sulla base del principio di precauzione.
Alcune associazioni fanno notare che non è vero manchi una normativa dell’UE, come invece sostiene l’Italia. In particolare, il regolamento sui novel food, come chiarito dalla Commissione (interrogazione parlamentare E‐ 001778/2023), mira “ad affrontare possibili problemi di sicurezza (…) anche per i prodotti a base cellulare”. Peraltro, la disciplina sui cibi innovativi costituisce espressione proprio del principio di precauzione.
La Commissione UE ritiene che le norme attuali siano “sufficienti per prendere decisioni informate sull’autorizzazione della produzione di carne coltivata in laboratorio”. Pertanto, se uno Stato membro reputi che il quadro normativo dell'UE sia insufficiente a garantire la sicurezza dei nuovi prodotti alimentari per i consumatori europei – continuano le associazioni - “dovrebbe rivolgersi alla Commissione europea» per modificare le norme vigenti, «piuttosto che emanare proprie leggi nazionali, il che comporta il rischio di frammentare il mercato unico dell'Ue creando distorsioni nella concorrenza”.
Le associazioni osservano ancora che, se un prodotto a base di carne coltivata fosse valutato come sicuro e aggiunto all'elenco dei nuovi alimenti approvati dall’UE, “non sarebbe possibile sorvegliarne l'importazione verso l’Italia senza causare incertezza economica. Ciò è dovuto all’assenza di controlli alle frontiere interne dell’Ue per le importazioni tra Stati membri, secondo il principio fondamentale della libera circolazione delle merci nel mercato unico”.
Inoltre – affermano le associazioni - “Il principio di precauzione si applica solo alla salute pubblica e alla protezione dell'ambiente. Il diritto dell'UE (…) non prevede l'applicazione del principio di precauzione per proteggere il patrimonio culturale”, come invece pretenderebbe di fare il governo italiano, con l’ennesima distorsione di tale principio.
Il divieto di denominazione
Un altro degli aspetti valutati dalle associazioni riguarda il divieto, sancito dal disegno di legge italiano, di denominazioni riferite alla carne per i prodotti trasformati contenenti proteine vegetali. Alcune associazioni rilevano che questi ultimi sono etichettati secondo il regolamento europeo relativo alle informazioni alimentari da fornire ai consumatori (n. 1169/2011): ciò escluderebbe vi possano essere rischi di confusione con i prodotti di origine animale, come l’Italia pare ipotizzare, essendo tale normativa finalizzata alla massima trasparenza. Peraltro, nel 2020 il parlamento europeo ha riconosciuto il diritto di utilizzare nomi come “hamburger”, “cotolette”, “polpette di verdure” e altro sull'etichetta di prodotti a base vegetale, in quanto riferiti a una ricetta e/o a una forma di presentazione di un alimento, non all'origine della materia prima. Questi nomi, quindi, non darebbero luogo a rischi di incomprensione, anche perché sono sempre seguiti dalla specificazione “vegetale”.
Inoltre, la
questione della denominazione di tali prodotti dovrebbe essere affrontata a
breve dalla Corte di giustizia europea, che deciderà se l’Ue dovrà adottare un
approccio armonizzato alle etichette degli alimenti a base vegetale o se ogni
paese continuerà ad avere la possibilità di dettare regole proprie. Dunque,
sarebbe meglio attendere la pronuncia della Corte prima di emanare norme che
potrebbe essere difformi rispetto a quanto disporrà la pronuncia stessa.
Infine, i prodotti a base vegetale non hanno nulla a che fare con alimenti costituiti da, isolati da o prodotti da colture cellulari o tessuti derivati da animali vertebrati. Dunque, in un progetto di legge sulla carne coltivata il divieto di denominazioni che rimandano alla “carne” per prodotti contenenti proteine vegetali non sembra avere molto senso.
Conclusioni: la miopia di norme
dannose per l’Unione e l’Italia
Le associazioni, i cui contributi sono stati pubblicati a margine della notifica del disegno di legge sulla carne coltivata, evidenziano non solo criticità rilevanti in punto di diritto, ma anche una certa miopia nazionale nel dettare norme che danneggiano il mercato unico europeo e l’Italia.
Infatti, la mole delle sanzioni a fronte della violazione dei divieti previsti dal disegno di legge “soffocherebbe l'innovazione nell'industria e nel mondo accademico e impedirebbe all'Italia, con implicazioni più ampie nell'Ue, di beneficiare economicamente della crescita delle industrie di carne coltivata e di origine vegetale. Le start-up italiane di carne coltivata saranno costrette a trasferirsi all’estero e gli investitori interessati hanno già iniziato a ritirarsi dai tavoli delle trattative, con la distrazione di capitali ad altri paesi. Inoltre, chiudere l'Italia a un mercato in crescita che impiega professionisti altamente specializzati, tra cui biotecnologi, ingegneri e chimici, peggiorerà ulteriormente la fuga dei cervelli dall'Italia, che, negli ultimi dieci anni, è stata in costante crescita”.
Dunque, al di là
degli elementi di incoerenza sul piano giuridico rispetto alla disciplina
europea, il disegno di legge nazionale mostra di non essere stato oggetto di
una preventiva valutazione di impatto, per verificarne non solo gli effetti
diretti, ma anche quelli a più ampio raggio indotti dalla sua adozione. Effetti
oltremodo negativi.
tratto da Valigia Blu del 27 ottobre 2023
Si potrebbe definire come un flop annunciato il ritiro da parte del governo della notifica alla Commissione europea del progetto di legge relativo al “divieto di produzione e immissione sul mercato” della cosiddetta carne coltivata, nonché al “divieto della denominazione di carne per prodotti trasformati contenenti proteine vegetali”.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Il mercato unico
La normativa sui cibi innovativi
Le obiezioni al DDL sulla carne coltivata
L’assenza di una normativa UE
Il divieto di denominazione
Conclusioni: la miopia di norme dannose per l’Unione e l’Italia
Il mercato unico dell’Unione Europea è uno spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali. Il Trattato sul funzionamento dell’UE (TFUE, articoli 34 e 35) vieta agli Stati membri restrizioni quantitative all'importazione o all'esportazione o misure di effetto equivalente. Tuttavia, possono essere ammessi “divieti o restrizioni all'importazione, all'esportazione e al transito giustificati da motivi di moralità pubblica, di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di tutela della salute e della vita (…)” (art. 36, TFUE).
Il 27 luglio scorso, il ministero delle Imprese e del Made in Italy e il ministero dell'Agricoltura e della sovranità alimentare hanno notificato in sede UE – in base alla normativa sopra indicata - il progetto di legge contenente il divieto di attività relative all’utilizzo della carne coltivata.
La commercializzazione della carne coltivata necessita di essere autorizzata dalla Commissione europea ai sensi della disciplina UE sui cosiddetti novel food (regolamento n. 2283/2015). Si definiscono come tali gli alimenti o gli ingredienti alimentari per i quali non è dimostrabile un consumo “significativo” all’interno dell’UE al 15 maggio 1997, data del primo regolamento (n. 258).
Il disegno di legge nazionale, teso a imporre una serie di divieti relativi alla carne coltivata (importare, produrre per esportare, somministrare o distribuire per il consumo alimentare e altro), era immediatamente parso privo di ogni fondamento. Infatti, il consumo di questa carne è già vietato, non essendo stato autorizzato ai sensi del citato regolamento sui novel food. Ma anche in uno scenario futuro, qualora ne fosse consentita dalla Commissione Europea la messa in commercio, i divieti italiani non avrebbero senso, poiché in contrasto con quel principio della libera circolazione delle merci che è fondante per l’UE, come visto.
Inoltre, il principio di precauzione (art. 7, regolamento Ue n. 178/2002) posto a base della proposta normativa viene distorto per giustificare preventivamente il divieto di alimenti da colture cellulari. In base a tale principio, una misura restrittiva della libera circolazione può riguardare un prodotto già in uso, qualora si dimostri un rischio relativo a tale prodotto che, pur se non pienamente comprovato da elementi definitivi, appaia tuttavia supportato dai dati scientifici disponibili. Invece, il progetto italiano invoca il principio di precauzione per un prodotto non ancora in uso, in quanto non ancora autorizzato, assumendo che non vi sia - e non vi potrà essere - sufficiente certezza della sua non pericolosità, anche ove fosse autorizzato, e che comunque esso metta a rischio il patrimonio alimentare italiano.
Queste ed altre obiezioni sono state sollevate da associazioni private che si sono espresse nell’ambito dell’istruttoria avviata a seguito della notifica italiana in sede UE. L’attenzione delle stesse si è concentrata, tra gli altri profili, sul fatto che il progetto di legge italiano è motivato dai ministeri notificanti con la “assenza, al momento, di una normativa specifica in campo europeo”. Assenza che avrebbe indotto il governo nazionale a intervenire “a livello nazionale per tutelare interessi che sono legati alla salute e al patrimonio culturale”, sulla base del principio di precauzione.
Alcune associazioni fanno notare che non è vero manchi una normativa dell’UE, come invece sostiene l’Italia. In particolare, il regolamento sui novel food, come chiarito dalla Commissione (interrogazione parlamentare E‐ 001778/2023), mira “ad affrontare possibili problemi di sicurezza (…) anche per i prodotti a base cellulare”. Peraltro, la disciplina sui cibi innovativi costituisce espressione proprio del principio di precauzione.
La Commissione UE ritiene che le norme attuali siano “sufficienti per prendere decisioni informate sull’autorizzazione della produzione di carne coltivata in laboratorio”. Pertanto, se uno Stato membro reputi che il quadro normativo dell'UE sia insufficiente a garantire la sicurezza dei nuovi prodotti alimentari per i consumatori europei – continuano le associazioni - “dovrebbe rivolgersi alla Commissione europea» per modificare le norme vigenti, «piuttosto che emanare proprie leggi nazionali, il che comporta il rischio di frammentare il mercato unico dell'Ue creando distorsioni nella concorrenza”.
Le associazioni osservano ancora che, se un prodotto a base di carne coltivata fosse valutato come sicuro e aggiunto all'elenco dei nuovi alimenti approvati dall’UE, “non sarebbe possibile sorvegliarne l'importazione verso l’Italia senza causare incertezza economica. Ciò è dovuto all’assenza di controlli alle frontiere interne dell’Ue per le importazioni tra Stati membri, secondo il principio fondamentale della libera circolazione delle merci nel mercato unico”.
Inoltre – affermano le associazioni - “Il principio di precauzione si applica solo alla salute pubblica e alla protezione dell'ambiente. Il diritto dell'UE (…) non prevede l'applicazione del principio di precauzione per proteggere il patrimonio culturale”, come invece pretenderebbe di fare il governo italiano, con l’ennesima distorsione di tale principio.
Un altro degli aspetti valutati dalle associazioni riguarda il divieto, sancito dal disegno di legge italiano, di denominazioni riferite alla carne per i prodotti trasformati contenenti proteine vegetali. Alcune associazioni rilevano che questi ultimi sono etichettati secondo il regolamento europeo relativo alle informazioni alimentari da fornire ai consumatori (n. 1169/2011): ciò escluderebbe vi possano essere rischi di confusione con i prodotti di origine animale, come l’Italia pare ipotizzare, essendo tale normativa finalizzata alla massima trasparenza. Peraltro, nel 2020 il parlamento europeo ha riconosciuto il diritto di utilizzare nomi come “hamburger”, “cotolette”, “polpette di verdure” e altro sull'etichetta di prodotti a base vegetale, in quanto riferiti a una ricetta e/o a una forma di presentazione di un alimento, non all'origine della materia prima. Questi nomi, quindi, non darebbero luogo a rischi di incomprensione, anche perché sono sempre seguiti dalla specificazione “vegetale”.
Infine, i prodotti a base vegetale non hanno nulla a che fare con alimenti costituiti da, isolati da o prodotti da colture cellulari o tessuti derivati da animali vertebrati. Dunque, in un progetto di legge sulla carne coltivata il divieto di denominazioni che rimandano alla “carne” per prodotti contenenti proteine vegetali non sembra avere molto senso.
Le associazioni, i cui contributi sono stati pubblicati a margine della notifica del disegno di legge sulla carne coltivata, evidenziano non solo criticità rilevanti in punto di diritto, ma anche una certa miopia nazionale nel dettare norme che danneggiano il mercato unico europeo e l’Italia.
Infatti, la mole delle sanzioni a fronte della violazione dei divieti previsti dal disegno di legge “soffocherebbe l'innovazione nell'industria e nel mondo accademico e impedirebbe all'Italia, con implicazioni più ampie nell'Ue, di beneficiare economicamente della crescita delle industrie di carne coltivata e di origine vegetale. Le start-up italiane di carne coltivata saranno costrette a trasferirsi all’estero e gli investitori interessati hanno già iniziato a ritirarsi dai tavoli delle trattative, con la distrazione di capitali ad altri paesi. Inoltre, chiudere l'Italia a un mercato in crescita che impiega professionisti altamente specializzati, tra cui biotecnologi, ingegneri e chimici, peggiorerà ulteriormente la fuga dei cervelli dall'Italia, che, negli ultimi dieci anni, è stata in costante crescita”.