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Per una decostruzione del concetto di cura

Una riflessione a partire da “Filosofia della cura” di Boris Groys.

tratto da “Il Tascabile” del 9.3.23
 
Arianna Preite Laureanda in Scienze filosofiche, si sta specializzando in Politics of the Novel al CAPPE di Brighton, con una ricerca sull’immaginazione politica in alcune fiction femministe utopiste. È stata coordinatrice editoriale per Scomodo, ha collaborato con The Submarine, Perimetro e Fondazione Feltrinelli.

 

Negli ultimi anni il dibattito sulla filosofia della cura si è progressivamente infittito, in risposta un sistema mondo sempre più competitivo e spietato. Il discorso ha seguito tendenzialmente una direttrice univoca, assimilabile a quella presentata dal collettivo inglese The Care Collective nel Manifesto della cura, ovvero: se i governi non sono più in grado di fornire ai loro cittadini cure adeguate e soprattutto accessibili, ma offrono per lo più cure da dover comprare a caro prezzo, allora non resta che mettere in atto un sistema di reciprocità e mutualismo in grado di colmare tali mancanze e di dar vita a reti solide di comunità. Nonostante su questo si sia riflettuto piuttosto diffusamente, ben poca attenzione è stata concessa alle contraddizioni insite nel concetto stesso di cura. A riaccendere il dibattito circa questi aspetti è il saggio Filosofia della cura, di Boris Groys, uscito in lingua inglese nel 2022 e tradotto in italiano nel 2023 da Valerio Cianci per Timeo.

Groys è docente alla facoltà di Arte e Scienze della New York University, e si occupa di teoria dei media e storia dell’arte sovietica. Uno dei suoi più celebri testi è In the Flow. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità digitalee anche il nuovo saggio intreccia in parte tematiche affini: l’impulso iniziale alla riflessione sulla filosofia della cura deriva infatti dall’analogia stabilita tra la cura medica del corpo umano e la cura museale delle opere d’arte. Tanto l’approccio ospedaliero quanto quello museale presentano infatti delle controversie; pur essendo entrambi luoghi funzionali alla preservazione tanto del corpo umano quanto dell’opera d’arte, le loro modalità di agire si concretizzano spesso nella privazione della vera essenza di corpi e opere. Quando osserviamo un’opera d’arte al museo ciò che vediamo non è infatti davvero l’opera ma il suo corpo morto, la sua apparenza meramente materiale. Qualcosa di simile accade all’interno dell’ospedale, dal momento che gli esseri umani si riconoscono oggi per lo più come soggetti che lavorano, non appena si ammalano e non sono più in grado di lavorare possono esistere unicamente all’interno della dimensione ospedaliera, come corpi defunzionalizzati.

Quando parliamo di cura e manutenzione dei corpi parliamo anche di curatori, che sono un po’ come dei medici dell’opera d’arte, e più in generale parliamo dell’intero sistema medico. L’obiettivo del sistema di preservazione è la longevità, e parlo di esseri umani e opere d’arte perché siamo interessati alla longevità di entrambi. Il paradosso è che accettiamo facilmente la distruzione di automobili, computer e telefoni; ma ci sono due cose a cui teniamo: le opere d’arte e gli esseri umani.

Ho chiesto a Groys di parlarmi di questo rapporto. Ciò che sostiene il filosofo è che nonostante il corpo in quanto carne, in quanto oggetto materiale, possa deperire o restare intrappolato in un letto d’ospedale, ciò che invece sopravvive è il corpo simbolico, ovvero l’insieme dei materiali prodotti in vita in maniera conscia e anche di quelli registrati senza la piena consapevolezza dei soggetti dai vari sistemi di sorveglianza e controllo. È di esso che allora sarà necessario avere cura, in virtù della sua capacità di prosperare ed essere riconosciuto e apprezzato anche oltre la morte e l’erosione delle possibilità del corpo fisico. Lo scopo del saggio è quindi quello di interrogarsi sulle contraddizioni del concetto di cura, portando avanti da un lato un’analisi storica che ricostruisce le diverse visioni della cura nella storia della filosofia; dall’altro il tentativo di individuare dinamiche attuali complesse, stimolando il lettore alla riflessione critica sul sistema della cura, sui suoi significati e sul rapporto individuale dei soggetti con essa.

La disamina storica condotta da Groys procede spedita dedicando brevi incursioni nei maggiori interpreti della filosofia occidentale; lo fa senza approfondire il loro pensiero, ma limitandosi a fornire un accenno delle diverse prospettive sulla cura – modalità che rende senz’altro il testo più fruibile a chi è già in possesso di una conoscenza di base dei testi citati, ma che consente comunque di farsi un’idea di come il tema della cura sia stato affrontato nel tempo. In particolare la riflessione di Groys prende le mosse da un binomio, quello tra la longevità e l’intensità, la prima intesa come desiderio di vivere più a lungo, e la seconda come volontà di vivere nella maniera più intensa possibile. Il fulcro del discorso si situa nel conflitto tra queste due vie. Seppure queste costituiscano degli opposti, la società ci spinge in entrambe le direzioni: per conquistare posizioni di successo, immagini pubbliche di prestigio, ammirazione e vantaggi economici, si è spesso disposti a forme di sacrificio estremamente dannose per la salute. Il tentativo di perseguire una vita intensa ci nega la possibilità di una vita longeva, e viceversa. 

L’impulso iniziale alla riflessione sulla filosofia della cura deriva dall’analogia stabilita tra la cura medica del corpo umano e la cura museale delle opere d’arte.

La riflessione si concentra inoltre sulle dinamiche che regolano il rapporto contraddittorio tra cura e cura di sé inteso come perno fondamentale per guardare al futuro e trovare risposte su salute, potere e società. È inoltre proposta la distinzione tra cura come dominio agito dal sistema sui soggetti, e cura di sé come azione che parte dai singoli individui. Non si parla di cura soltanto come sinonimo di benessere e salute dei corpi, ma si guarda a questa come a un sistema complesso che tutela ogni singolo individuo in tutte le sue estensioni, corpi simbolici compresi. Questi due piani sono strettamente intrecciati l’un l’altro, e la cura del corpo fisico dipende anche dalla cura del corpo simbolico, che contiene ad esempio tutte le informazioni pregresse sulla salute dei soggetti, e che consente ai medici di farsi un’idea della loro storia clinica e di contribuirvi con ulteriori tasselli. 

Un parallelismo che attraversa tutto il testo riguarda la similarità tra il ruolo del sistema medico attuale e la posizione occupata in passato dall’universo religioso ed ecclesiastico: la chiesa come luogo fisico e simbolico sarebbe infatti stata oggi sostituita dall’ospedale. Se all’interno dell’ambito religioso esistono diverse confessioni e orientamenti di pensiero; qualcosa di simile accade con la medicina, esistono visioni e metodi ritenuti ufficiali ma al tempo stesso ci sono anche vari gruppo e correnti interne che ne contraddicono lo statuto e invitano a curarsi con metodi alternativi. Gli esempi di medicina e religione sono inoltre rilevanti perchè sono sistemi simili, molto potenti perché toccano corde fondamentali dell’umano.  Questo relativismo intrinseco ci getta in un’epoca di completa mancanza di sapere, data dalla molteplicità di ipotesi, che pone l’uomo in una posizione molto vicina a quella del filosofo:

Il filosofo non sa, desidera soltanto sapere (“philo-sophia” è “amore per la conoscenza”). La posizione filosofica è ormai una posizione quotidiana perché viviamo in una società in cui non sappiamo. C’è una totale mancanza di conoscenza. Dobbiamo vivere in uno stato di non conoscenza e questo è ciò che Socrate ha cercato di spiegarci molto tempo fa. In un certo senso tutti siamo filosofi ora, perché tutti vogliamo la conoscenza ma viviamo nella mancanza di conoscenza.

Lo snodo riguardante la cura di sé, o meglio l’ulteriore contraddizione tra l’avere sia cura della propria salute, sia la possibilità di scegliere autonomamente come gestire il proprio benessere, è al centro del testo. Ciò che emerge dall’analisi di Groys è che lo spazio residuo di fuga rispetto al sistema di cura dominante in cui ci troviamo oggi a vivere è proprio la gestione il più possibile autonoma delle proprie condizioni di salute. Questo è ancor più vero se si considera quanto il sistema, oltre ad essere ampio ed estremamente specializzato, impedisca di diversificare cure e attenzioni per ogni individuo, ostacolando la possibilità di orientarsi consapevolmente al suo interno. La cura di sé precede la cura: sta dunque ai soggetti compiere il primo passo e scegliere a chi rivolgersi e come farsi curare all’interno di un sistema medico estremamente caotico. Esposta tuttavia anch’essa alla medesima mancanza di conoscenza e frammentazione, la cura di sé è vittima degli stessi cortocircuiti del sistema di cura complessivo. Se il sistema sanitario è infatti un’architettura complessa e contraddittoria di scuole, orientamenti e metodi differenti, orientarsi al suo interno risulterà impossibile:

La maggior parte delle persone parla della sanità come inadeguata, spesso ne parliamo come se parlassimo di arte: i politici dicono che vogliono investire di più nell’arte, come se investendo di più si potessero avere artisti migliori. Lo stesso accade con la sanità: non è che se si investe di più si può avere una salute migliore. Il sistema sanitario non esiste, è un campo complesso e contraddittorio di diversi metodi e scuole. E noi non sappiamo come scegliere tra questi. L’atto di fidarsi di alcuni medici è totalmente irrazionale. Le persone dicono “penso che sia un buon medico”, e forse è perché sono amici o perché è bello – quindi l’intero sistema è totalmente irrazionale. La cura di sé è quindi alla base delle pratiche sanitarie: dopo tutto, dobbiamo prendere decisioni relative alla nostra salute, anche se le prendiamo senza avere alcuna conoscenza professionale.

La sua posizione riguardo all’inutilità di veicolare maggiori investimenti sulla cura al fine di consentire condizioni di salute migliori ai cittadini può generare naturalmente reazioni controverse. In primis perché confligge in modo netto con la maggioranza dei dibattiti attuali sul tema, che partono sempre dal presupposto che il sistema di cura non goda di sufficiente attenzione da parte dei vari governi determinando stati di salute sempre più precari e complicando ulteriormente l’accesso alle cure soprattutto per i soggetti più fragili e marginalizzati. In secondo luogo perché, di fatto, è innegabile che ci siano zone in cui basterebbe investire di più per avere una sanità migliore: costruire ospedali in aree interne e isolate in cui non esistono, fornire farmaci e strumentazioni adeguate dove mancano; tutte soluzioni concrete che indubbiamente abbatterebbero la possibilità di morire per cause di cui, nella maggior parte dei casi, oggi, non si muore più. L’errore sarebbe però quello di cercare di piegare i ragionamenti di Groys ad applicazioni materiali, privandoli della componente di ragionamento prevalentemente astratta che li caratterizza. L’assunto per cui sarebbe inutile implementare gli investimenti sulla cura, e che a essi non corrispondano migliori condizioni di salute, parte dal presupposto che il sistema è contraddistinto da frammentazione generalizzata, dall’impossibilità di stabilire che un certo metodo sia necessariamente quello più proficuo, dalle specificità dei singoli medici; in particolare dal nostro agire individuale, dalla nostra capacità di orientarci all’interno del campo medico, dalle nostre conoscenze e volontà di avere cura di noi stessi, ancor prima dell’attesa delle cure altrui.

Lo snodo riguardante la cura di sé, o meglio la contraddizione tra l’avere sia cura della propria salute, sia la possibilità di scegliere autonomamente come gestire il proprio benessere, è al centro del testo.

Questo meccanismo implica che il rapporto con la cura di sé può di fatto esulare dalla salute come comunemente intesa, e lasciare semplicemente spazio alla valutazione individuale di cosa significhi benessere: per alcuni soggetti questo potrebbe non equivalere propriamente allo stare bene ma riguardare piuttosto la possibilità di seguire determinati istinti e inclinazioni personali, seppur in parte dannosi. Un esempio evidente è la cura spasmodica dell’immagine pubblica, e del prestigio sociale che deriva oggi ad esempio dal prosperare dei profili social: questa se da una parte può generare spesso un miglioramento delle condizioni di vita, dall’altra può anche condurre verso il deperimento della persona umana. Per avere cura del corpo simbolico si rende necessario un genere di impegno che spesso comprende orari di lavoro logoranti, lunghe quantità di tempo da trascorrere online e tutta una serie di sacrifici fisici che allontanano irrimediabilmente dalle condizioni di benessere. Per questo riflettere sul rapporto tra cura e cura di sé tenendo conto tanto del corpo fisico quanto anche di quello simbolico risulta fondamentale per comprendere le dinamiche che regolano i diversi piani della salute. 

Il conflitto tra la cura e la cura di sé è esplorato in particolar modo nelle conclusioni del saggio, all’interno del capitolo Cura rivoluzionaria in cui Groys riprende il pensiero di Alexander Bogdanov, medico e filosofo tra i leader del movimento del Partito Operaio Socialdemocratico Russo. Bogdanov tratta dei processi rivoluzionari utilizzando i termini di egresso e degresso (che Groys paragonerà al rapporto tra cura e cura di sè): definisce egressive le forme autoritarie e centralizzate di organizzazione sociale, che sarebbero instabili poiché incapaci di controllare le loro unità più indipendenti; degressive le forme cosiddette scheletriche, che assumono forme fisse per preservare la stabilità del sistema. Il conflitto tra egresso e degresso può essere inteso nel quadro del conflitto tra cura e cura di sè: i sistemi degressivi sarebbero sistemi di cura composti da alcuni vincoli, come il fatto di dover trovare un’assicurazione sanitaria, avere un medico a cui potersi rivolgere e tutta una serie di altri elementi chiave che compongono il sistema di cura. I pazienti però possono sempre sfruttare la loro posizione eccentrica rispetto al sistema per dar forma a un movimento egressivo, facendo prevalere la cura di sé sulla cura. In un racconto di Bogdanov dal titolo La festa dell’immortalità, che fa parte della sua produzione di romanzi e racconti di fantascienza socialisti utopisti, viene rappresentata una società comunista che trova un antidoto alla mortalità e all’invecchiamento; ma ciò per il protagonista Fride ciò non costuisce una risorsa, anzi: l’eterno ritorno dell’uguale diventa una forma di tortura a cui sembra necessario porre fine andando alla ricerca di qualcosa di nuovo. La possibilità di trovare la novità e di interrompere il ciclo risiede nel ritorno alla mortalità, nella fuga dal controllo biopolitico totale mediante il suicidio: Fride infatti si infligge il rogo, una delle morti in assoluto più dolorose, trovando attraverso l’esperienza del dolore estremo una via di fuga dall’esistenza anestetizzata della cura istituzionale. 

Groys non approfondisce in particolar modo la riflessione sul tema del dolore. Il suo è più che altro un accenno in chiusura del saggio, che dà spazio ulteriore all’idea che la fuga dal controllo delle istituzioni della cura dipenda dalle possibilità individuali di ritagliarsi una posizione egressiva rispetto al sistema e ai canoni imposti di benessere e salute. Mi ha fornito a voce alcuni elementi ulteriori a riguardo:

Il dolore è un classico esempio di qualcosa della mia vita spirituale, interiore, che corrisponde anche alla mia vita corporea. Il dolore è soggettivo, ci appartiene. Dal punto di vista filosofico, una grande definizione di questo concetto è stata data da Husserl: egli distingueva il corpo come corpo, cioè come oggetto, e il corpo come carne, come esperienza interiore. Ci sono testi interessanti di Wittgenstein sul dolore, che mi hanno influenzato molto. Wittgenstein dimostra che quando parliamo di dolore usiamo un linguaggio comune: pur pensando che il dolore sia un’esperienza personale, possiamo parlarne servendoci del linguaggio comune, quindi in realtà non è così personale. Non ho approfondito questo aspetto, ma volevo mostrare il desiderio di rifiutare totalmente questa cura esterna e tornare a qualcosa come il dolore può essere qualcosa di universale, di ovvio. Se provo dolore, mi inserisco automaticamente nella lunga storia del dolore – il mio dolore è sempre un dolore tra tanti altri dolori.

Il saggio di Groys contribuisce significativamente al dibattito attuale sulla cura pur non ingaggiando direttamente con nessun discorso contemporaneo ed evitando i riferimenti diretti a fatti recenti, come ad esempio la pandemia. I presupposti di partenza del filosofo si allontanano in modo netto dalle prospettive femministe sulla cura e da discorsi affini a quelli del Care Collective, la sua visione privilegia autonomia, individualismo e cura del corpo simbolico ed è intesa a raggiungere una certa forma di immortalità, a sfavore dei valori di interdipendenza reciproca e comunità. Groys fa così un passo indietro, dedicando spazio alla decostruzione del concetto di salute così come universalmente inteso dal punto di vista medico e clinico e mettendo in luce come il sogno del benessere collettivo costituisca una sorta di distopia del controllo istituzionale, colpevole di non tutelare a sufficienza il sentire del singolo. 

Riflettere sul rapporto tra cura e cura di sé tenendo conto tanto del corpo fisico quanto anche di quello simbolico è fondamentale per comprendere le dinamiche che regolano i diversi piani della salute.

Nonostante l’eccessiva radicalità di alcune considerazioni i continui tentativi del filosofo di scoperchiare le contraddizioni che dominano il concetto di cura sono preziose per riflettere su come si parla del tema oggi e per interrogarsi sulle effettive risposte politiche che l’interdipendenza e le reti di comunità possono offrire. Per quanto vivere curandosi reciprocamente delle necessità e degli stati di salute altrui sarebbe senz’altro un modo più bello di vivere, in grado di dar vita a spazi più accoglienti e sicuri, la possibilità che queste modalità siano in grado di diventare effettivamente sistematiche e che possano costituire delle risposte politiche efficaci al problema dell’estremo individualismo ed egoismo del sistema in cui viviamo, sembra a tratti un’ipotesi ingenua. Il testo di Groys aiuta quindi proprio interrogarsi sui presupposti di partenza del significato di cura, sul funzionamento di tale sistema, sul nostro rapporto con esso; non necessariamente per meditare su effettive risposte concrete ma per giungere a una comprensione più profonda dei meccanismi che dominano questo pilastro cruciale della vita umana, e soprattutto sulle controversie intrinseche che ne fanno parte.